Quel giorno smisi di aver paura di volare. Era un giorno di primavera ed io ero una bimbetta scolare ricca di immaginazione ma, come spesso capita per chi viaggia troppo con la fantasia, anche di mille paure, tra cui quella di infilare la testa in acqua, la paura della penombra, quella per le cose a punta, un controllato timore per tutti gli oggetti che richiamassero una vaga sembianza antropomorfa, e ovviamente anche quella di precipitare da un’aereo, che non avevo mai preso in vita mia.
Mio padre è sempre stato uno da terapia d’urto. La paura dell’acqua me la tolse lasciandomi su uno scoglio nel litorale del basso lazio, nonostante lo sguardo di allucinato diniego di mia zia, sua sorella, impotente di fronte a quella che lei reputava una violenza. Invece funzionó, infilai i piedi nei 10 cm d’acqua sottostante e imbronciata tornai a riva a giocare con la pista di sabbia per scarafaggi sotto l’ombrellone.

Per riuscire a passare il Natale con me in Inghilterra invece mio padre doveva evitare che io mi facessi prendere da attacchi di panico una volta salita in aereo.
Mi parló a lungo della bellezza del volo, senza tralasciare dettagli troppo tecnici per la mia età, mi raccontó che avrebbe fatto il pilota se mia nonna gli avesse firmato quel maledetto foglio di autorizzazione a farlo volare quando lui era ancora minorenne e voleva entrare in Aereonautica… Ma lei non lo fece. Nonostante ciò cercò comunque di restare aggrappato al suo sogno in qualche modo, e divenne un uomo radar. Potete immaginare il terrore che mi induceva immaginare un radar antropomorfo con le fattezze facciali di mio padre…
Ad ogni modo, prese il brevetto per conto suo, e si narra ancora oggi che passasse in derapata sul tetto eretino della casa di mia madre, o su quelli marsicani delle loro rispettive case di villeggiatura. Nei luoghi che diedero inizio ai loro incontri.

Si narra che mia madre, di otto anni più piccola del suo fidanzato, sfidando l’autorità paterna, facesse sega a scuola per andare a scorrazzare con lui per i cieli di Roma.
Di fatto sono entrambi con la testa tra le nuvole, ed io non avevo speranza di evitare la facilità alla distrazione che mi rende difficile portare a termine anche le più banali operazioni di routine, senza doverle ripercorrere più e più volte alla ricerca di oggetti smarriti strada facendo. Ma sto divagando, parlavamo della paura di volare.

Mio padre, visto l’insuccesso dei suoi racconti che non sembravano annientare i miei turbamenti, decise di portare me e mio nonno Arcadio, suo padre, ad una manifestazione aerea nei pressi di Roma.

Non smisi mai di tenere il naso all’insù. Senza mollare la presa della mano grande e calda di mio padre, io non potevo davvero staccare lo sguardo da quegli artisti dell’aria. Manovravano quei velivoli come fossero pennelli, con una precisione e velocità che insieme mi sembravano improbabili prima di allora.

Poi venne il momento delle Frecce Tricolori, e allora lo sguardo dei bambini presenti si riempì di ammirazione e soddisfazione, anche perché con quella storia a scuola avrebbero vissuto almeno un paio di settimane di rendita nella classifica dei più stimati della classe. Le Frecce tricolori erano dei miti per noi, come lo fu Alberto Tomba, Andrea Pantani, Debora Compagnoni, Yuri Chechi, Rita Levi Montalcini, Cristina D’Avena, qualche calciatore e l’accoppiata Bud Spencer e Terence Hill.

Lo spettacolo inutile a dirlo, fu magistrale, ed io non persi un solo volteggio, incredula, sono quasi sicura di aver dimenticato di sbattere le palpebre.

Poi venne la volta del pilota più pazzo del mondo.

Con quello che a me rispetto agli altri sembrava un trabiccolo, saliva in cabrata, spegneva il motore e lo riaccendeva vicino al suolo dopo una caduta ellittica perfetta. Io urlavo ogni volta, ed ogni volta ridevo di gioia quando risaliva con le lacrime che non potevo trattenere a causa di emozione e timore. Avevo il cuore in gola, ma piano piano mi convinsi che quei velivoli, in mano a chi li sapeva davvero usare, erano come una compasso in mano al geometra, come la sega circolare in mano al falegname…

Per fortuna nessuno mi informó del fatto che invece gli incidenti capitano, ai piloti, come ai falegnami, forse un po’ meno ai geometri, che trafiggersi con un compasso per carità può succedere, però…

L’esibizione terminó con un atterraggio perfetto del pilota pazzo, poi lui uscì dall’abitacolo e tolse il casco. Non so se mi accorsi prima di non avere più la mano di mio padre tra le mani, sostituita da quella più rugosa e magra di mio nonno, o del fatto che il sorriso più smagliante che io avessi mai visto, che era fuoriuscito dal casco di quel pilota pazzo, fosse proprio rivolto a me.
Sebbene non lo avessi mai visto con gli occhi tanto brillanti, lo riconobbi e sussurrai “papà”.