«Andiamo, che si fa notte!»
I miei amici si sono arrampicati in cima alla collina con un’energia da fare invidia.
Non è per me.
Dopo una manciata di metri in salita ho già il fiatone.
«Andate pure, vi raggiungo!»
Le loro risate si allontanano mentre cerco di non scivolare giù per questo terreno sconnesso.
Ma che mi è saltato in mente di seguirli fin quassù?
Come se bastassero un paio di scarpe da trekking per improvvisarsi scalatori.
Perché qui c’è da scalare altro che “Andiamo a fare una passeggiata nel parco!”
Mi guardo intorno con la speranza che non mi veda nessuno mentre mi arrampico in modo ridicolo su questo sentiero che di sentiero ha solo il nome.
Il primo spiazzo che trovo giuro mi ci fiondo e non mi schiodo!
Non faccio in tempo a formulare il pensiero che alla fine della salita la mia testa riemerge in una piccola radura disseminata di sassi e alberi secchi.
“Che allegria!”, penso, mentre cerco disperatamente un posto dove riposarmi.
Punto su un masso all’ombra, mi avvicino e faccio per sedermi ma un’incisione sulla superficie mi blocca . Una croce e due lettere: S. P.
Passo le dita nelle scanalature dei segni, questione di un attimo e un soffio gelido dietro la nuca mi fa rabbrividire.
Le poche foglie sugli alberi cominciano a vibrare. Come se una folata di vento improvvisa le avesse svegliate dal loro torpore.
Ritiro la mano d’istinto e tutto si acquieta.
Mi sento stranita. La parte razionale di me deride la mia paura.
Mi improvviso meteorologa e decido che a valle si sono scontrate due correnti d’aria diverse e che incanalandosi lungo il sentiero siano arrivate fin qui.
E per rafforzare questa mia convinzione rimetto la mano sull’incisione.
Sembrano campanelli le foglie.
Rimango immobile, i piedi pesanti ancorati a terra, il pensiero perso nella nebbia di un altro tempo.

Il latrato dei cani si fa più vicino. Non ho più fiato, i polmoni sembrano scoppiare. Mi stanno braccando.
Corro in mezzo alla sterpaglia, incurante dei rovi che riducono a brandelli i calzoni e la pelle.
Finisco la mia corsa in una conca dove non c’è via d’uscita.
Come cacciatori che circondano la preda, dieci, venti uomini mi accerchiano. Ridono, mi ghermiscono, sono eccitati. Un uomo si avvicina e mi sputa. Il suo alito sa di fogna come la sua tunica impregnata di gore di sudore. Ride sguaiato mentre con un randello mi frantuma le ginocchia. Il dolore mi strappa un grido. Mentre sono piegato carponi una mano mi afferra per i capelli costringendomi ad alzare lo sguardo.
I miei occhi pieni di polvere mettono a fuoco due figure a cavallo.
Imponente, su uno stallone bianco l’uomo mi guarda con aria torva. Leggermente più indietro, lei.
Statuaria. Impassibile nel suo vestito nero.
“ Ti condanno a morte Spartaco Rissonanti!” urla con livore il cavaliere.
Stringo i denti e non batto ciglio mentre una corda ruvida mi passa attraverso la testa.
È lei che continuo a guardare mentre il nodo mi annienta il respiro.
L’albero al quale è appesa la fune ha offerto, suo malgrado, il braccio per uccidere un uomo, reo di non avere acconsentito ai capricci di una nobile.
Leggera la mia anima si spoglia del corpo, sospesa in quello spazio invisibile tra i due mondi.
Odo ancora le voci: “Bruciate quest’infame o datelo in pasto ai porci”, tuona l’uomo sul destriero.
“ No!, lo contraddice la donna “Seppellitelo qui, che sia di monito a chiunque osi mancare di rispetto ai signori e padroni di questa terra”.

Osservo in disparte la terra scura che ricopre il mio corpo. E poi quel masso. A sigillare le membra di un uomo qualunque.
Da lontano una luce mi attrae, mi sento invadere da un delicata sensazione di leggerezza. Sto per attraversare quel limite, quando impercettibile mi arriva come un sibilo la sua voce.
Rimasta indietro alla spedizione punitiva, nera come la sua anima, femmina malefica si avvicina alla pietra e dice: “ Ho fatto credere a mio marito che mi hai violata. Te la sei cercata, bastardo! Non erano abbastanza bianche le mie carni?Non ero di tuo gradimento? Come hai osato rifiutarmi? Non eri che uno stalliere. Io ti maledico. Possa il tuo spirito non trovare mai pace!”
La luce si allontana e la mia anima vaga nella nebbia.
Aiutami!

«Allora, dov’eri finita?»

La voce dei miei amici mi scuote da questa forma di assopimento involontario.
Ritraggo la mano dal masso come se fosse infuocato. La mia mente resetta, riprendo il mio tempo.

«Avevamo paura ti fossi persa. Se non fosse stato per quella donna lassù che ci ha indicato dov’eri ci avremmo svernato su questa collina!»
«Una donna? Quale donna?»
Mi volto verso l’alto e per una frazione di secondo catturo l’immagine di una figura femminile vestita di nero che scompare oltre il dosso.
Una folata di vento gelido mi percorre la schiena mentre scendiamo a valle.
Le foglie finiscono la loro danza, tornando immobili, mentre gli ultimi raggi di sole alle spalle della città si congedano dal giorno.