Il kimono era sobrio, ma di fattura elegante, adatto ad una donna matura. L’obi di broccato rosso avrebbe raccontato a tutti la sua età, anche da lontano, perché la fasciava in basso, sul punto vita, non sotto al seno come succede per le giovani Maiko.
Una donna anziana avvolta nella sua storia di seta logora. Fujiko raccolse i capelli d’argento in una retìna e coprì il capo con la parrucca nera che aveva perso la lucidità di un tempo. Al pettinino antico in avorio mancavano due denti… poco male, una volta infilato nella chioma sarebbe stato celato come un segreto.
L’unico specchio rotto confermò che l’opera era quasi completa. Il makeup avrebbe aspettato, in fondo non c’era fretta. Si versò il té con movimenti simili ad una antica danza e prese dal frigo la ciotola piena di riso, solo a metà, il resto della colazione. Consumò, con la lenta eleganza di una imperatrice, anche quanto avrebbe potuto concedersi a pranzo. Si sentiva debole Fujiko, nel giorno in cui avrebbe dovuto raccoglierla tutta la sua forza.
“Se tutto andrá bene” disse allo specchio “stasera ti concederai un pasto completo. Ma adesso concentrati.”
Lavò la ciotola sbeccata, e la ripose con cura in una vecchia credenza in bambù color mattone, infine con la mano un po’ tremate spalmò sul volto crema bianca, che le rese il sembiante allucinato di un dipinto espressionista. Era pronta. Attraversò il pavimento tarlato e scricchiolante verso l’ingresso della baracca: una porta di carta consunta, strappata e una lacrima delineò un solco color carne sulla gota bianca.
“Satoshi…” sussurrò.
Kyoto in estate non era bella come in primavera, ma dall’antico ponte fu dolce vedere i bambini bagnarsi nel fiume.
Aveva pregato per avere figli, invece per cinquant’anni, con lei, c’era stato solo Satoshi. Lui che riparava la porta di carta. Lui che portava sulla tavola riso, pesce fresco, soya e deliziosa verdura. Quella non mancava mai, perché Satoshi andava pazzo per il tempura.
“Ricordi Satoshi, quando mi dicesti ‘tu sei la mia casa’? E quanto spendesti, quanti yen per questo Kimono?
Dov’è la mia casa senza te, Satoshi?”
Fushiko entrò nel piccolo supermercato e raggiunse il luogo.
Quell’angolo all’altezza del cibo in scatola a favore di telecamera. Quando fu pronta alzò lo sguardo grigio e organizzò sul volto rigato la migliore espressione da teatro Kabuki, pronta ad interpretare l’ultimo atto. “Guardami, perché non troverò più il coraggio”, sembrava implorare, e intanto infilava due confezioni di tonno e una scatola di soya nel vecchio Kimono, all’altezza del petto.
La missione era compiuta, abbassò i suoi occhi a terra e si avvicinò all’uscita, “mi manchi Satoshi.”
La guardia l’avvicinò silenziosa, imitando  l’espressione sfuggente dell’anziana, quasi fosse lui il ladro, “Signora, la prego, mi voglia seguire.”
Fushiko fece sì con la testa al giovanotto che avrebbe potuto avere l’età di suo figlio, se ne avesse avuti.
“Visto Satoshi, non sarò più sola. Avrò una cella calda e una compagna di stanza. E cibo. Pensa Satoshi, mi hanno detto che quando è festa, a volte, servono tempura.”