Le lettere di Paddy inondavano la scrivania di Tina. Buste bianche,  anonime, senza il nome del mittente né quello dell’intestatario, e diligentemente, ai fini della cronologia, numerate da padre Murray. Un centinaio di buste sigillate provenienti da quel passato che lei aveva tentato di fuggire, l’assediavano ora con la loro silenziosa presenza a ricordarle che l’unica via di fuga che non si può perseguire  è quella del presente, e a lei, piacesse o meno, quelle lettere ne facevano parte. Avrebbe dovuto rifiutarle, dire a padre Murray di rispedirle al mittente o, meglio ancora, farne un falò, che se Micky era morto la colpa era di tutti loro, ma in primis sua, che s’era lasciata coinvolgere da quello stupido sentimento chiamato amore, e per il quale s’era compromessa per salvare Paddy . Con quale cuore avrebbe potuto leggere quelle lettere?
Impossibile, per lei, empatizzare con l’uomo che le aveva scritte ritenendolo l’epicentro di quell’immane tragedia.
Paddy era vivo, Micky, invece, era  morto.
Nessuno avrebbe mai pareggiato i conti.
Aveva cacciato le lettere nel fondo di un cassetto che aveva poi chiuso a chiave.

Questa era stata la parte più facile, la più difficile, invece, era stata  con sua madre.
Maria le aveva detto che la memoria le difettava, dimenticanze puerili e vuoti abissali.
Aveva dimenticato l’arte del cucito e passava gran parte del tempo a dormire, ma rimaneva con gli occhi chiusi anche quando era sveglia. Tutto questo da quando era stata colta da una febbre improvvisa e brutale, all’apparenza determinata da niente, e così una mattina s’era svegliata con la memoria ad intermittenza e lo sguardo perso. Le operazioni più semplici, come il pettinarsi o preparare un bricco di caffè, le risultavano estranee, neppure ricordava  il nome degli oggetti, così come quello delle persone. Allora aveva smesso di parlare, di chiedere, d’interagire, limitandosi ad esistere in un mondo nebuloso, di volti e di parole perdute.
Il dottore aveva parlato  di “quieta demenza”, una forma di pazzia innocua.
Per fortuna, aveva poi aggiunto, che se fosse stata del tipo aggressivo, ingestibile, la prospettiva sarebbe stata il manicomio.
Padre Murray s’era arrabbiato a tale diagnosi e aveva cacciato via il luminare a male parole.
Maria sorrideva nel raccontarlo.

– Avresti dovuto vedere la faccia del dottore che non s’aspettava certo una reazione simile da un prete. E’ scappato a precipizio, ma prima di andar via gli ha detto che al manicomio avrebbero dovuto portarci anche lui. Quando il dottore è uscito siamo scoppiati a ridere, e anche la mamma rideva, magari in quel momento ha capito che con noi era al sicuro. O forse no, rideva solo per imitazione, come fanno i bambini. Ma è stato comunque bello vederla ridere. –

Teresa, sotto il fazzoletto scuro, aveva i capelli ormai tutti bianchi ma che pure non la invecchiavano, anzi, era come assurta ad una nuova giovinezza, quell’età in cui ogni cosa è inedita e ammantata di mistero. Sotto la fronte, liscia e bianca, rilucevano gli occhi, grandi e scuri, vividi, nei momenti in cui riusciva ad emergere da quel mondo sotterraneo che pure la manteneva in vita. Allora, Maria, la prendeva per mano e la conduceva per la casa indicandole gli oggetti col loro nome.  Le insegnava a servirsi del cucchiaio e bere correttamente dal bicchiere. Mentre le spazzolava i capelli  le raccontava la storia della loro famiglia. Teresa l’ascoltava attenta, con l’aria seria, pur non capendo il senso della trama che l’attimo dopo aveva già gioiosamente dimenticato.

– Con la mamma ci vuole pazienza, è ritornata bambina, ma se questo l’aiuta a non soffrire sono contenta. Mi prenderò io cura di lei, tu non devi preoccupartene. So come prenderla. –

– No, Maria, non sarebbe giusto, ora sono tornata e ce ne occuperemo insieme. Tu devi tornare a scuola, sei brava, non come me e Micky che con i libri non siamo mai andati troppo d’accordo. Hai già fatto molto per la mamma, ora tocca a me. Mi è stato offerto un lavoro che intendo accettare, che ci garantirà la possibilità di vivere con una certa serenità. Lo so che è difficile fidarsi di una piantagrane come me, ma in questo viaggio ho capito tante cose e tante altre ne ho scoperte, anche su me stessa. Non respingere la mia offerta. Dammi la possibilità di dimostrati quanto sono cambiata. –

– Perché non dovrei fidarmi? Avevi promesso che saresti tornata e hai mantenuto la parola. Mi fido di te così come mi sarei fidata di Micky. Allo stesso identico modo. –

S’erano abbracciate e poi erano scoppiate a ridere quando Tina, con tono malizioso, aveva chiesto:  quali parolacce ha detto padre Murray al dottore?

 

Dopo la conversazione con la sorella, Tina s’era trovata a riflettere che padre Murray c’era sempre stato nella loro vita da quando il loro padre era morto, ricoprendo il ruolo di uno zio o, meglio ancora,  di un genitore adottivo, e anche se caratterialmente non sempre s’erano presi, nutriva nei suoi confronti una stima ruvida e sincera e un affetto innocentemente brusco, mai troppo apertamente esternato. La conflittualità in cui evolvevano i loro confronti era causata dai loro caratteri simili: entrambi testardi e poco pazienti, irruenti, generosi e temerari, per nulla meschini e corruttibili. Ma se per Tina  la diversità di vedute sfociava quasi sempre in aperta, istintiva sfida, Murray, invece, aveva dovuto, in virtù della tonaca, necessariamente imparare ad imbrigliare la sua anarchia, anche se non sempre gli riusciva. Il ragazzo di strada, che un tempo era stato, prendeva spesso il sopravvento affrancandolo, per un momento, dalle redini che il sacerdozio gli imponeva, e restituendolo a se stesso.
L’amicizia che legava il prete a sua madre le infondeva da sempre sicurezza. Non per lei stessa ma per Teresa. Una donna introversa, mite, che mai avrebbe smesso il lutto. Sotto certi aspetti insignificante.
Una donna che necessitava della protezione di un uomo, e che padre Murray a piene mani le dispensava.
Tina, solo molti anni dopo avrebbe conosciuto la verità sulla storia di quella loro amicizia, e quale intensa passione sua madre fosse stata in grado di suscitare in quell’ uomo che s’era indotto a farsi prete pur di restarle accanto. E come avesse continuato ad amarla anche quando lei, ormai regredita ad uno stadio infantile, si rivolgeva a lui chiamandolo “signore” perché lo vedeva adulto e lo considerava estraneo.

Ma al  momento, e per molti anni ancora, Tina avrebbe continuato ad ignorare quel capitolo della vita di sua madre che padre Murray le avrebbe rivelato in punto di morte, non per sgravarsi la coscienza ma solo per lasciarle in eredità il ricordo di quell’amore sublime che altrimenti sarebbe stato seppellito con lui.
– Teresa, dovunque sia, me la vado a riprendere e stavolta non ascolterò ragioni: si farà  a modo mio. –
Aveva detto prima di spirare col sorriso sulle labbra alla prospettiva di quell’incontro imminente.

Teresa era morta un paio di anni prima. Morte in culla, specificavano con tenerezza le figlie, che era passata dal sonno alla morte senza una causa apparente, così come accade talvolta ai neonati.
Alla morte della madre, Maria, era in attesa de suo primo figlio che aveva ddeciso si sarebbe chiamato Michele, se fosse nato maschio, Teresa, se fosse stata, invece, femmina.
I nomi sono la prima eredità di famiglia. Battezzare col nome di un congiunto amato è un atto sacro. Un’investitura. Un riconoscimento. E per questa antica, affettuosa tradizione, il pregiudizio è fuor di luogo, perché si eredita il nome e non il destino.

 

Del destino di Paddy, lei, invece, e per sua scelta, non avrebbe saputo più niente, rifuggendo nel corso degli anni la tentazione di aprire il cassetto dove aveva seppellito le sue lettere. E il suo cuore.
Tina s’era sempre dimostrata insensibile alle accorate rivendicazioni di padre Murray che pure, in qualche modo di quel destino ne conosceva i travagli, e affettuosamente se ne sarebbe fatto portavoce se solo glielo avesse consentito. Ma lei aveva sempre opposto un secco rifiuto.

– Sto espiando anche per lui. Non è amore questo? – Era la sua amara risposta.

Ma certe volte era davvero penoso resistere al richiamo delle voci sussurranti dal fondo del cassetto.
Allora, per sfuggire alla loro malia, Tina scendeva nel suo locale, il “Blues Serenade”, dove si ubriacava di musica. Di ricordi. E di nostalgia.