Sono Anna e mi hanno diagnosticato la demenza senile. In realtà ho avuto la netta impressione che i vari professoroni non sapessero più che pesci prendere, e questa era la spiegazione che accontentava tutti: loro avevano la loro diagnosi, mio marito, l’uomo al mio fianco da oltre 50 anni, l’alternativa alla depressione, per la quale si sarebbe sentito in colpa.
Mi hanno sottoposto a vari test tutti piuttosto stupidi, mi verrebbe da dire se avessi ancora per voi diritto di parola. Cioè, ce l’ho e mi ascoltate, ma poi trattate le mie farneticazioni, così amate definirle, come fuoriuscite da una mente malata. Mi hanno costretto a un vero interrogatorio e sì, a molte domande non ho saputo rispondere: che cosa avessi mangiato ieri o l’altro ieri, ad esempio. Voi davvero lo ricordate sempre? La data di nascita di tutti voi non ho dato la soddisfazione di sbagliarla, ma se si trattasse di un martedì, giovedì o domenica proprio non lo ricordavo. Hanno tentato di farmi fare somme e divisioni a due cifre, ma da tempo ricordo a stento le tabelline. Da quando ancora non ero malata. Né depressa. Depressi lo siamo un po’ tutti. Io ne ho solo accumulata troppa negli anni, e qualche volta è così tanta che mi ammutolisce.
Ripeto le ultime sillabe delle parole che sento pronunciare per allenarmi a rimanere qui con voi. Me lo ha detto il dottore ma voi questo sì l’avete dimenticato e pensate che io canticchi. È vero, è talmente noioso che spesso perdo il filo e mi trovo a canticchiare. “Inseguo farfalle”, come dice scherzosamente Gaia. Figliola mia, quando ho scelto quel nome per te ero sicura che ti sarebbe calzato a pennello. Ognuno affronta il dolore a proprio modo e tu cerchi di riderci su.
Perché non mi avete goduto quando potevamo gustarci entrambi questi momenti insieme? Perché mi avete lasciato sola a scoprire nuovi locali che aprivano e dove avrei voluto andare con voi, mentre mi ritrovavo silenziosa a sorseggiare pregiate cioccolate, tisane e castronerie varie che la gente si inventa per attirare le persone? Perché non abbiamo commentato insieme chiacchiericci mentre altri ascoltavano i nostri? Perché non avevate mai tempo per me? In solitudine, quelle bevande austere e costose assumevano uno strano retrogusto di rimpianto.
Ora mi godo queste briciole, unico regalo di una malattia che mi condanna a dimenticare quel che per anni ho atteso e desiderato: le vostre attenzioni.
Ogni tanto, ve lo confesso, faccio finta di non essere mentalmente presente. Così posso ascoltare la verità sul mio stato di salute. Non sapete con che fatica e con che coraggio mantengo la solita facciata, mentre in cuore si accumulano lacrime destinate a non svuotarsi mai. Perché adesso non mi lasciate mai sola, che dite di volerci essere quando il mio cervello si attiva. Fate i turni e questa cosa mi commuove ma non mi lascia il tempo di soffrire. Voi non mi lasciate il tempo di soffrire delle parole che dite. Perché non potete sapere quando ascolto e quando solo sento.
Marco, figlio mio, metti pure lì quelle stelle di Natale, lì dove io possa vederle. Non riesco a dirtelo, ma ti prego, fallo. Se non puoi sentire la frase che non so più mettere insieme, fallo per te, per compiacerti del regalo che mi hai fatto. Papà ti dice sempre di non portarmi niente, che a me non occorre niente. “Che vuoi che le serva?” dice lui indicandomi e sottintendendo che ormai non ho bisogni né desideri superflui oltre a ciò che mi tiene in vita. Invece è proprio il superfluo che mi fa tirare avanti, che compatimento, pannoloni e pappine non sono certo ciò che alimentano lo spirito di sopravvivenza. Piante, odori e fiori invece mi aiutano a ricordare che mese sia e cosa io abbia fatto, in quegli stessi mesi, per oltre settantanni. A proposito, quanti anni avrò ora? Non divaghiamo, che non posso permettermelo. Perdere il filo è diventato ormai così facile, riprenderlo così difficile. Quelle mimose che mi hai portato per la Festa della Donna le ho annusate prima ancora che tu varcassi la soglia della camera che ormai è diventato tutto il mio mondo. Profumavano di 8 marzo. E l’8 marzo profuma di primavera dirompente, di ciuffi gialli regalati e poi gelosamente conservati fra le pagine dei libri. Il gelsomino profuma di estate, di mare e di attese. La lavanda profuma di armadi, o gli armadi profumano di lavanda. Non lo so, che in Francia non credo di esserci mai stata, ma c’era un tempo in cui mi occupavo io di profumare gli armadi.
Vostro padre ha tanta pazienza, anche quando la perde. Però non fa che prepararmi purè di patate. Lo adoro, ma ogni giorno è un po’ troppo. O forse sono io che lo ricordo sempre perché mi scordo quel che cucina veramente? Vedete quanto è dura per me essere lucida? Devo elaborare sempre strategie per dosare il dolore dei ricordi e quello dei pensieri sul futuro. Futuro prossimo, spero per voi. Dovete lasciarmi andare, quando non sarà più possibile amarmi. Perché arriverete a quel punto e vi sentirete in colpa. Ingabbiati con me in questa malattia, fermate intorno a questo divano le vostre vite che erano così frenetiche. Vi vedo sporgere il naso fuori dalla finestra, spiare la vita che scorre fuori mentre qui non scorre niente, e se lo fa, lo fa all’indietro.
Ci ripariamo dalla paura di perdere qualcuno aggrappandoci ai ricordi passati, alle risate insieme, a quel che siamo consapevoli che potremmo dimenticare ma ripetendolo proviamo ad imprimerlo meglio nella memoria. Eppure potremmo fare qualcosa insieme, giocare ancora a Monopoli per esempio. O è troppo lungo per me? Rischio di dimenticarmi a metà partita che cosa stiamo facendo e voi chi siate? E che importa, ragazzi: non ne abbiamo mai finita una, di partita a Monopoli! Se proprio ci tenete tanto vi faccio vincere in fretta. Perché io ci tengo proprio tanto a far qualcosa di nuovo con voi. Sono malata ma non trattatemi peggio di così.
Ah, se mai riuscite a leggere nella mia mente, dite a vostro padre che a volte fingo che mi occorra il suo aiuto nel vestirmi o nel farmi la doccia. Ho ancora bisogno delle sue carezze. Sono sicura che me le fa quando il mio cervello parte, ma io non ne posso assaporare il calore e l’armonia del loro amore. Mi spiace, potrei talvolta alleviarlo da queste incombenze, ma lo amo ancora troppo e l’amore è spesso egoista.
Fra poco è Natale: questo non me la voglio perdere. Voglio esserci, col corpo e con la mente, mentre cercate di sgarbugliare le lucine per poi ringarbugliarle per le fronde ormai sfrondate del nostro eterno albero sintetico. Anche lui ha perso pezzi, ma persino quei buchi fanno memoria. E poi ad ognuno un telecomandino (si chiama così? Ve lo chiederei anche se non fossi rimbambita) per sincronizzare le musiche in modo da non avere più jingle bells sfasati e fastidiosi. Datene uno anche a me, che questa volta non vi arrabbierete se dopo il conto alla rovescia vi scombussolo l’armonia, perché penserete che non l’abbia fatto apposta. Vedendo le vostre facce sorprese per l’ennesimo fallimento del piano perfetto, come ogni anno riderò, riderò così tanto che vi contagerò e rideremo insieme, a crepapelle, così tanto da sentire male alla pancia e alle mascelle e da dimenticare chi è sano e chi è malato. E forse allora, rinfrescata dallo scrosciare di quella risata comune, guarirò. Per pochi istanti, ma guarirò. Ci riabbracceremo, per il solo desiderio di farlo, perché finalmente ci saremo ritrovati, e non per non avere il rimpianto di non averlo fatto prima.
Vorrei andarmene così, ridendo. Ma non lo farò, per non rovinare di nuovo tutto. Ne ho fatti di errori, nella vita, ne ho avute, di uscite fuori posto, e so quanto possano mandare in malora anche la più perfetta delle giornate. Ora che sono per me tutte dannatamente così imperfette, con buchi e lacune, con la pietà e la tristezza nei vostri volti, ora che ho la mentalità giusta per lasciare andare, ora l’errore di morire mentre ridiamo insieme no, non lo farò.
Ecco, ho finito il mio esercizio per oggi: ripetere chi sono, cosa sono stata e chi vorrei essere. Non me lo ha dato la mia dottoressa, che lei è buona solo a somministrare medicine. Non me lo ha consigliato neanche la fisioterapista, anche se lei è davvero la migliore medicina per me. Risveglia muscoli, mi illude di farmi ricordare come si muovano le gambe per camminare e soprattutto mi racconta tante cose di sé e della sua famiglia. Non so se siano sempre le stesse, ma lei non si stanca mai di farmi sentire presente. Ed è questo sentimento di presenza, che mi ha fatto iniziare questo mini-esercizio giornaliero tutto per me. Sono viva a metà, il mio cervello fa il part time, ma mi piace così tanto “inseguire farfalle” che è l’unico modo per evadere da questo corpo di bruco.