Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera.

Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo.

Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Per primo incontrò Galeno, l’ortolano. Lui e il suo negozietto vicino ai binari della ferrovia erano invecchiati insieme. I loro sguardi si incrociarono, le parole no. Non poteva averlo riconosciuto, ormai adulto, e ad Aldo andava bene così.

Decise di tirare fuori dallo zaino la macchina fotografica e proseguì il suo cammino: essere scambiato per turista è un buon sistema per non essere disturbato. Passò sulla destra l’edificio che un tempo aveva ospitato il piccolo supermercato locale. Quello, ahimè, non aveva resistito al degradante abbandono del paese: i più giovani se ne erano andati, i più anziani erano morti. Diede uno sguardo alla vecchia insegna, ormai sbiadita e scattò una foto: “se devo passare da turista, almeno faccio davvero finta di esserlo”.

Che tuffo al cuore ripassare per tutte le viuzze della sua giovinezza, rubatagli troppo presto, troppo in fretta.

Arrivò davanti al portone del grande palazzo senza neanche accorgersene. Sospirò ma non esitò. Attese che qualcuno uscisse: non voleva annunciarsi al citofono. Per fortuna il viavai di saluti a un moribondo è fluente, là dove ci si conosce tutti e non si sa come trascorrere il tempo. Approfittò dell’uscita della sua ormai anziana maestra, che lo lasciò entrare senza fare domande. Suonò alla porta della sua vecchia casa e gli aprì la madre: con lei il tempo non era stato clemente. Si chiese se gli era mancata ma non volle darsi una risposta. “È già morto?” furono le prime parole che le rivolse dopo tanti anni. “Sarà contento di vederti”, rispose lei piangendo e visibilmente commossa. Il padre giaceva sul letto, sofferente. Appena lo vide le lacrime gli rigarono il viso: “Lei non c’è? Non mi ha perdonato?”.

“Sono venuto per questo, non volevo che tu morissi senza saperlo. Non ha retto l’umiliazione e il dolore, e a quello è succeduta la depressione e poi la pazzia. Si è tolta la vita anni fa, lasciando a me il frutto della tua violenza: tuo nipote o tuo figlio, scegli tu come chiamarlo. Madre – disse poi rivolgendosi alla donna – restare al suo fianco ti ha reso complice e ugualmente carnefice e ora non avrai nessuno con cui dividere questo peso”.

Se ne andò, così come era arrivato, con un carico di ricordi e di dolore di cui non si era alleggerito e una nuova consapevolezza: far del male non lo faceva stare meglio.