La vedeva ogni mattina sull’autobus con cui andava in ufficio: saliva alla stessa sua fermata e scendeva in quella in cui scendeva lui. Così un giorno s’era fatto coraggio e, in modo piuttosto impacciato e maldestro, le aveva chiesto se aveva voglia di andare a prendere un caffè. Lei era molto bella: pareva una delicata bambola di vetro. E s’era girata dall’altra parte, andandosene senza degnarlo d’una risposta.

Lui non era tipo da insistere: un po’ per amor proprio, un po’ perché in fondo assai meno disinvolto di quanto poteva far pensare il suo aspetto atletico ed aitante, aveva bocciato l’idea di provarci una seconda volta. Tanto lei era stata gelida e scostante.

Poi però il destino aveva tramato contro quella sua decisione. Un tardo pomeriggio, mentre aspettava l’ascensore per salire in casa, se l’era vista comparire accanto. Non era sola, con lei c’era un bambino. Aveva così dedotto che abitava proprio in quell’alveare umano dove lui aveva trovato un appartamentino in affitto. Per un breve secondo aveva pensato d’ignorarla, memore di quel rifiuto di lei. Poi però, non essendo capace di comportarsi in modo poco cortese, quando la porta dell’ascensore s’era aperta, aveva cortesemente ceduto il passo e lei aveva accennato un mezzo sorriso nel pronunciare un sommesso «Grazie».

«A che piano va?» le aveva chiesto. Al dodicesimo, aveva risposto la ragazza e lui aveva premuto il bottone del quarto, ch’era il suo piano, commentando: «Allora scendo prima io».

Dopo quella ovvietà, giusto per riempire l’imbarazzo di quei quattro piani da aspettare insieme e visto che il bambino stringeva tra le mani un orsacchiotto piuttosto malandato, aveva chiesto: «Ha un nome il tuo amico?». Il bimbo aveva guardato esitante la ragazza e lei, con un sorriso assolutamente materno, lo aveva incitato: «Su tesoro della mamma, dì al signore come si chiama il tuo orsacchiotto!». C’era stata un’altra esitazione, poi il bimbo aveva mormorato uno stentato: «Yoghi…» e lui aveva commentato con un entusiasmo alquanto banale: «Bellissimo nome!», mentre si aprivano le porte dell’ascensore.

Negli occhi di lei aveva letto una specie di sospiro liberatorio, non sapeva se per il commento al nome dell’orso o per il fatto ch’erano giunti al piano in cui dovevano separarsi. Ancora più “liberatorio” gli era poi parso il buonasera con cui aveva risposto al suo saluto, pure se accompagnato da un mezzo sorriso, difficile però da decifrare: poteva, in fondo, far parte integrante del sollievo derivante dalle porte dell’ascensore che mettevano fine a quel loro inatteso incontro ravvicinato.

Dopo quell’episodio, avevano continuato ad incrociarsi sull’autobus la mattina, ma niente pareva fosse cambiato nell’atteggiamento di lei. E lui d’altra parte non aveva cercato minimamente di verificare s’era possibile far fruttare in qualche modo l’inattesa e brevissima parentesi dell’ascensore.

Questo fino alla volta in cui, sempre di pomeriggio e di nuovo rientrando in casa, quasi per magia se l’era trovata accanto, all’ascensore, proprio come la volta precedente. Solo che stavolta era sola, senza il bambino. Ed aveva una strano modo di guardarlo dopo aver risposto all’educato “Buonasera” con cui lui l’aveva salutata. Era bellissima e, nel cederle il passo quando le porte dell’ascensore s’erano aperte lei lo aveva quasi sfiorato, tanto quanto bastava perché il suo profumo gli arrivasse, lieve ed invitante. «Mi pare dodicesimo… se non ricordo male». Lei era parsa esitare un brevissimo attimo prima di rispondere, poi, guardandolo fisso negli occhi: «Quarto andrà benissimo… se non ricordo male».

Consumarono con violenza la loro prima volta, pochi minuti dopo, come due drogati in astinenza. Nella penombra della stanza di lui, sul grande specchio che occupava quasi una parete, ebbe appena il tempo di ammirare le sue curve perfette mentre la spogliava freneticamente, prima di dimenticare tutto e tutti e perdersi nell’afrore della ragazza. Poi, mentre guardava il soffitto ed ascoltava il respiro tenue, quasi addormentato, di lei che poggiava i capelli nell’incavo della sua spalla, sentì il bisogno urgente di sapere qualcosa di più di quella bellissima donna che aveva tanto desiderato e che ora era appena stata sua, quasi come in un sogno. Cosa mai poteva essere stato a farle cambiare atteggiamento?

«Come sta Yoghi?» Fu l’unica cosa che gli venne in mente istintivamente di sussurrare, non senza un piccolo senso di trionfo. Ma proprio come quando le aveva offerto di prendere assieme un caffè, lei non si degnò di rispondere. Ma forse stavolta dipese dal fatto che la sua bocca era già impegnata a far rinascere in lui il desiderio. Non fu un’impresa difficile.