Viveva ormai solo del mio respiro.
Mi attendeva per ore, tormentandosi nell’incertezza, irrequieto come un cane alla catena che aspetta l’arrivo del padrone, solo per avere da lui una carezza distratta.
O una pedata cattiva.
Completamente travolto dai sensi e sfiancato dalla difficile attesa, accettava qualsiasi cosa odorasse della mia presenza.
Rinnegava la natura del lupo per sottostare all’umiliazione del mio piede sulla sua schiena.
Rifiutando l’affrancamento dal collare, implorava che io non abdicassi al mio diritto di possesso.
Senza la mia mano a tirare il guinzaglio lui non aveva più alcun senso.
Legato mani e piedi si consegnava, smarrito e disperato, alla mia indifferenza.
Reclamandola come un dono.
Ma, quelle emozioni che io avevo scoperto all’inizio della mia storia con lui, erano ormai troppo note ed usurate.
Non urgevano più nel mio ventre e nella mia testa.
Scene già provate di un copione difficilmente riscrivibile, dopo che l’attore e l’uomo si erano indissolubilmente fusi in una unica identità.
All’inizio, quando ancora non era stato toccato dalla dipendenza dell’amore, era un sublime apostolo alla ricerca del piacere.
Ed io lo assecondavo.
Mi nutrivo dei suoi tremiti e dei suoi battiti.
Le sue braccia erano le ali di una gigantesca farfalla priva di mani.
Mi eccitavo della sua eccitazione cieca.
Quel suo brancolare alla ricerca del mio odore ed il farfugliamento, ossessivo ed impotente, col quale m’ implorava nel delirio di una febbre che rifiutava la cura.
Incrudelivo il gioco.
Decidevo i tempi ed i ritmi.
Mi nutrivo delle sue emozioni.
Lo portavo al limite.
Lo lasciavo in attesa.
Lo provocavo.
Lo eccitavo.
Lo prendevo di nuovo.
Lo illudevo.
Lo stordivo.
Lo respingevo.
E l’apostolo muoveva le labbra mute.
Mai del tutto appagato.
Sempre in attesa.
Esausto.
Sfinito dal gioco.
E dagli abusi del gioco.