Simona non aveva paura, non più almeno, non ora che era lontana da casa.

Erano passati anni dall’alluvione e lei, decorata dalle cicatrici colorate dei suoi tatuaggi, si era costruita la propria corazza, una scorza di metallo che l’aveva resa silenziosa come pietra. Sola. Indifferente.

Sapeva di essere cresciuta bene, di essersi preparata degnamente per affrontare ogni dolore, per seppellire ogni sofferenza. Non si sarebbe più inginocchiata, non avrebbe chinato il capo né chiesto perdono. Non aveva colpe, ora.

Ora era diversa, ora si sentiva una sacerdotessa, l’inquisitrice di una volontà superiore, sempre giusta e sempre corretta: la propria volontà, l’unica che veramente contava.

I giorni del buio non la spaventavano più, ora il buio era lei. Era diventata un’ombra, un’ombra sottile, silenziosa, tatuata di colori sgargianti per sfuggire alla vita, all’inesorabile morbo del niente.

Guardandosi allo specchio, nuda, nelle tenebre di quel mattino, pensava a quanto fosse triste quella sua perfezione sciupata, immolata solo alla propria anima distruttiva.

Perfetta e imperfetta, come la materia stessa di cui sono fatti gli angeli. Perfetta e imperfetta, dentro e fuori, debole e forte.

Si toccò i fianchi, quei fianchi fragili e freddi, poi il ventre, abbracciato dalla carezza dei suoi tatuaggi ed infine si cercò il cuore, frugandosi nel petto, quasi disperatamente.

– Sei tanto confusa che non capisci neppure se sei viva o se sei morta, bambina mia… – sussurrò, – oppure stai cercando solo una scusa per scappare un’altra volta…

Avrebbe voluto mordersi il polso, strapparsi le vene con la ferocia di un cane rabbioso e morire dissanguata come era successo su quel tappeto, mentre l’alluvione batteva alle finestre ed il buio le entrava dentro, ma sapeva che sarebbe stato troppo facile e che lei, in fondo, non aveva abbastanza coraggio per sanguinare come una cagna.

Respirò profondamente e prese a rivestirsi, con la stessa fredda calma di cinque anni prima, quando aveva deciso di abbandonare la tana di suo padre.

Simona aprì la porta del Cordoba con un sospiro, lo stesso di ogni giorno.

A quell’ora quel posto era suo. Un regno lungo un’ora, avrebbe potuto definirlo, ma pur sempre un regno che vale l’amore della sua regina.

Lasciando scivolare una mano lungo il bancone andò ad accendere le luci, una dopo l’altra, illuminando prima la sala e poi il bancone.

Dopo aver preparato la macchina del caffè e aver infornato la prima teglia di brioches, andò a sollevare le saracinesche e a fumare la prima, meritata, sigaretta.

– Scusi, signorina, ha da accendere? – Le domandò un ragazzo alto e magro con i vestiti stropicciati.

Simona si tastò velocemente le tasche dei jeans.

– È nella tasca del grembiule signorina – disse un ragazzino biondo, spuntando da dietro le spalle del ragazzo stropicciato.

Simona infilò una mano nella grande tasca del suo grembiule porpora e sorrise: – Sì, è vero, è proprio qui, grazie…

– Mi chiamo Rio – si presentò, allungando una mano.

– Piacere, io sono Simona.

– È un bel nome – rispose Rio. – Lo sai che questa notte ti ho sognata? Mi ricordo per quel piercing lì, brillava come una stella.

Simona si toccò una guancia: – Dici davvero? – lo assecondò.

Il Nero rise, accendendosi una sigaretta di tabacco rollato: – È questa la signorina del cappuccino? – domandò sghignazzando.

Rio fece vigorosamente segno di sì con la testa.

– Piacere – si presentò, – io sono il Nero.

– Siamo tipo un marinaio ed il suo pappagallo – rise Rio.

– Ma che marinaio, io semmai sono un grande pirata! – rispose il Nero.

– Ed io chi sono?

– Sempre il pappagallo. Insomma Rio, quante volte te lo devo spiegare che devi crescere prima di poter diventare un personaggio principale! Le storie sono strutturate così, ci sono i protagonisti, i personaggi principali, i personaggi secondari e le comparse, tu sei ancora un personaggio secondario, te lo metti in testa si o no?

– Ma uffi! Anch’io voglio diventare un personaggio principale!

– Quando sarà il tuo tempo lo diventerai anche tu, per ora attieniti ai ruoli della storia e resta al tuo posto, io sono il pirata e tu sei il pappagallo.

– Va bene, va bene, ma uffi… – sbuffò, contrariato, Rio.

Simona rise di gusto a questa piccola scenetta. Erano strani ed adorabili, una coppia di teneri giullari zingari che girano per il mondo convinti di vivere in un romanzo di Salgari.

– Comunque sono stanco di fare il pappagallo! Non dico secondo ufficiale, ma almeno il mozzo!

– Quando compirai quattordici anni! Per ora resti pappagallo e limitati a spappagallare bene – il Nero rimase qualche istante in silenzio. – E poi non esiste il secondo ufficiale, al massimo è il primo ufficiale.

– È lo stesso, io voglio fare l’ufficiale.

– Ma fate sempre così, voi? – domandò Simona, oramai completamente dimentica di bar e accendino.

– Quasi sempre – sorrise Rio.

– Ma ancora di più quando qualcuno ci offre colazione – continuò il Nero.

– Soprattutto se a farlo sono le belle ragazze che fumano fuori dai bar –precisò Rio.

– Già, con lo stomaco pieno facciamo anche più ridere – annuì il Nero.

Questa volta Simona esplose in una fragorosa risata: – Entrate, rischio qualcosa ma ve lo siete meritati, non ho mai visto due scrocconi più professionisti di voi.

– E il meglio deve ancora venire – sorrise il Nero, aspirando l’ultima boccata di fumo dalla propria sigaretta, – finora hai solo letto l’indice.

Capitolo tre: Walking like a dream – 3 – Storia di due pirati