Il tram era gremito di cittadini impeccabili, signori in giacca elegante, muniti di biglietto, carta d’identità e cittadinanza del mondo ordinario.

Cittadini normali, esattamente come gli avvocati, i medici o gli impiegati. Schierati in fila come soldatini in attesa di salire al fronte.

Come suo padre.

Sulle loro spalle si basava il “gioco”, su quella classe media che di medio, oramai, aveva molto poco.

Simona li guardava dal basso, lei una casa non ce l’aveva più e anche la famiglia se l’era dimenticata. Per lei la mediocrità era finita, dopo l’alluvione, dopo che il buio aveva sfrattato i suoi sogni portandole via tutto, Saturnia compresa.

“L’affitto è in nero, tutti i mesi, in contanti, comprese le spese”. Le aveva detto il padrone di casa. E lei sapeva che era un furto, un ricatto basato sulla disperazione, ma non le restava che chinare la testa ed accettare, per l’ennesima volta.

In breve si era resa conto che avrebbe voluto essere come loro, vivere in quell’ordine perfetto che li costringe a litigare sui mezzi pubblici, a rompere i coglioni per ogni singola cazzata.

Li odiava eppure li invidiava, subendoli in ogni dove come aveva subito suo padre.

In realtà non era mai stata forte come credeva, si era limitata a chinare i capo e a diventare un’ombra, un angelo, la principessa di un mondo interrato fatto di topi e tappi di bottiglia.

Così si lasciava cadere nel buio, nell’esaurirsi di tutte le forze, nella piacevole sensazione che lasciava il silenzio quando viene rotto. Rimase immbole, imbambolta, lasciandosi sopraffare dal flusso dondolante di quella classe media, sul tram, mentre i suoi pensieri esploravano sensazioni nuove, le costellazioni di sentimenti sconosciuti che aveva scorto tra le braccia del Nero.

Prima era stata straniera in terra straniera per scelta, sopravvissuta all’alluvione si era rifugiata in quel triangolo perfetto che si concludeva con le luci gialle del Cordoba, preparando brioches ai pendolari del mattino e tramezzini per il pranzo degli universitari. Un triangolo che la proteggeva, che la difendeva dal dolore, che le infondeva calma e sicurezza.

Eppure quel giorno tutto era diverso, apriva il locale con un’insolita velocità, una specie di ansia, il desiderio morboso di rifugiarvisi dentro, mentre la pelle iniziava ad emanare una diffusa gioia, come il calore della febbre, capace di farla arrossire fino a scottarla.

Perché si era concessa così? Da quant’era che non si toglieva la sua armatura? Che non dimenticava quella vecchia polaroid?

Si segregò dietro il bancone. “Un’ora” pensò. “Il mio regno dura un’ora”.

Preparò la macchina del caffè ed infornò le brioches, strappandosi di dosso i pensieri come foglie morte in autunno. Lucidò il bancone, preparò i tavoli ordinando le sedie e quando tutto fu pronto aprì completamente le serrande.

Quando ebbe finito sospirò e decise di concedersi la sua meritata sigaretta.

La routine, per quello amava il Cordoba, per i suoi obblighi così regolari che le impedivano di pensare, di riflettere sul vuoto della vita. E se ogni tanto le capitava di rubare qualcosa dalla cassa lo faceva esclusivamente per necessità, perché con la miseria oraria di quel secondo schiavismo non avrebbe potuto che vivere sotto un ponte. Lo faceva ogni mattina, senza cattiveria, senza rimorsi, occultando i furti senza battere gli scontrini.

Quella mattina pensò al Nero, ancora nel suo letto, poi a Rio: doveva comprare da mangiare per tre persone, quel giorno.

– Ciao Simona, come va oggi? – domandò il Primo Stronzo, costringendola a chiudere la cassa.

Così come ogni mattina era uguale, lo era anche la puntualità del Primo Stronzo: medesime ore nei medesimi giorni, giusto una manciata di parole, poi se ne andava, anonimo come era venuto, ma non per questo piacevole.

– Cosa abbiamo per colazione, Simona?

Lei neppure sapeva come avesse fatto a conoscere il suo nome, lo aveva scoperto e basta. Sembrava quasi che si divertisse, a scandirlo ogni mattina. Dal suo canto, Simona se ne infischiava di che nome avesse il Primo Stronzo, per lei era solo uno stronzo qualsiasi, uno dei tanti avventori che passavano per il suo regno, ma lui gli era particolarmente sgradito. Figlio viziato della borghesia, cresciuto in un benessere caldo e scontato che non conosce difficoltà o disagi, viscido nell’aspetto e nei modi di fare.

– Bene Simona, io direi cappuccio, brioche al cioccolato e spremuta di arancia…

Sorrideva, come sempre, un sorriso bianco e perfetto come i lineamenti del suo volto, come quei pettorali che mostrava con tanta disinvoltura attraverso la camicia.

Forse lo invidiava, per questo lo detestava tanto, forse avrebbe preferito essere a suo posto, crescere in una famiglia che la amasse, che gli desse tutto ciò che non aveva mai posseduto. E Saturnia, soprattutto lei.

Si scrollò di dosso quei pensieri e tornò a lavoro, all’abitudinarietà, a quella routine che insegue routine capace di proteggerle la testa con la stessa solidità delle alte mura di un castello.

Abitudine era l’ancora di salvezza che le permetteva di non impazzire, di non esplodere. Fuori il mondo era un avversario ostile, un nemico temibile, ma dentro, tra un cappuccino ed una manciata di sorrisi ipocriti, mentre le luci gialle si riflettevano sul bancone di marmo lucido, non faceva tanta paura. Da lì, da quella sua postazione privilegiata, poteva sempre mandarlo via, poteva respingerlo, distanziarlo. Così scompariva il suo nome scandito da quel tizio viscido, così se ne andava lo sguardo di quel cinquantenne arrapato che gioca alle macchinette, così si eclissava ogni malizioso doppiosenso del capo o dei rappresentanti.

Regina, nel suo regno di poche ore.

Rio aprì la porta con un sorriso complice e due borse della spesa tra le mani.

– Ciao! – disse, trotterellando verso il bancone.

Simona aggrottò le sopracciglia e si guardò attorno, era già metà mattina e il bar era semi deserto.

– Cosa ci fai qui? – domandò.

– Il Nero mi ha mandato a fare un po’ di “compere” – disse, sollevando le borse, – queste le manda un nostro amico del mercato, è solo verdura, ma è un bel po’ – sghignazzò.

Simona lanciò uno sguardo alle borse, poi guardò la cassa e sorrise: non avrebbe rubato più del solito, oggi.

– E tu sei venuto qui a farmi vedere tutto questo per…?

– Colazione…? – suggerì Rio.

Simona gli mise un piattino di fronte agli occhi: – Tra un’ora arrivano i miei titolari, mangia e sparisci – bisbigliò.

Rio sorrise, arrampicandosi su uno sgabello: – Farò veloce come la luce!