Era di un rosa blando, smorto, scolorita da un tempo indefinibile, dal tempo di un’estate lontana, di un’infanzia sconosciuta. Non bisognava per forza avere l’intuito di un detective per collegare i pezzi, per unire le linee di quel disegno.

Era una ragazza sorridente impressa sulla superficie sgualcita della vecchia polaroid, ritta in piedi, nella luce di un campo di grano. Guardava controvento, con i capelli mossi dall’aria ed un vecchio cappello di paglia, tenuto elegantemente da una mano aggraziata e gentile. Nella mano libera stringeva un mazzo di fiori, forse dei papaveri rossi, poggiati contro il fianco.

Il Nero aveva sempre pensato che le foto fossero una cosa strana, una specie di maschera di luce capace di renderci anonimi, distanti. Lui non sopportava le foto, odiava farsi fotografare, in fondo a lui bastavano i ricordi, foto meno ingombranti e sicuramente più complete.

“Che foto potrebbe portarsi dietro, uno come me?” si domandò, ridacchiando. Di sicuro non erano foto di vita, di sorrisi sfumati e bellezze immerse nell’agitarsi di capelli lisci e puliti.

Il vestito, lo stesso abito a fiori che Simona accudiva maniacalmente, le si schiacciava contro il corpo esile, giovane e perfetto. Non doveva avere più di vent’anni, all’epoca, e una serie di sogni a portata di mano.

– Chissà che fine avrà fatto…? – si domandò, guardando il vestito, abbracciato in qualche modo dalla stessa luce rosa di quella foto. – Chissà chi era questa ragazza…? – si chiese, accantonando subito pensiero.

– Sei sicuro di voler andare? – lo interruppe Rio, comparendo sulla porta.

Il Nero lo guardò negli occhi e si domandò fin dove arrivasse la sua consapevolezza delle cose.

– Secondo te cosa dovremmo fare?

– Non lo so. Mi mancherà questa casa.

Comprese che aveva capito tutto, ogni intreccio possibile, ogni finale alternativo. Tutto.

– Credi che dovrei scriverle qualcosa?

– Forse sarebbe giusto.

– Forse non è una risposta.

– Sai cosa scriverle?

– Che ho sbagliato a farla entrare nel nostro mondo e che dovrebbe starne lontana.

Rio si massaggiò i polsi, lo faceva sempre quando era nervoso: – Pensi che abbiamo veramente sbagliato così tanto? Io l’ho sognata…

Il Nero riguardò la foto: – Tu non hai sbagliato niente, sono io che non sono mai capace di fare le cose giuste.

– Io vorrei continuare solo a stare con lei.

– Anch’io lo vorrei tanto, ma non possiamo – sorrise amaramente il Nero.

– Perché no? Per ieri sera? Simona non si è arrabbiata, poi è molto gentile e ti vuole molto bene.

– Me ne sono accorto, è per questo….

– Anche tu le vuoi bene come te ne vuole lei, si vede.

Il Nero guardò un’altra volta la foto cercando di immaginare i lineamenti di quella ragazza, il colore dei suoi occhi, la forma del suo naso.

– Non lo so – rispose, – se le volessi bene cercherei di stare con lei, non ti pare?

– Tu ti vergogni di noi, ma io ho capito che lei ci vuole bene per come siamo fatti e non le interessa da dove veniamo.

Il Nero guardò Rio e sentì un nodo chiudergli la gola.

– Lei non è come noi – rispose, – non voglio che finisca in mezzo ai nostri problemi.

Rio rimase qualche istante in silenzio: – Mi mancherà, ero felice con lei.

Il Nero guardò Rio e per la prima volta si sorprese nel vederlo così maturo. Sembrava che una luce nuova gli illuminasse il volto facendogli brillare occhi e capelli sotto un’espressione grave, seria. In un attimo Rio era diventato adulto, balzando da un gradino all’altro come un grillo.

– Bene, fratellino – sorrise. – Sembra che qualche grado pirata tu stia iniziando a meritartelo.

Rio sorrise, e fu di nuovo il volto di un bambino: – Sto crescendo anch’io.

– Giusto – rispose il Nero, accarezzandogli la testa, – dovrò iniziare a ricordarmelo. Forza, andiamo ora, si sta facendo tardi.