Simona salì sull’autobus con il calore di quell’abbraccio nascosto sotto il giubbotto, tra il filo bianco delle cuffie e il ricordo dolce delle sensazioni di quella notte, di quel vorticare di sogni e pensieri come lucciole in un bosco. Non era mai stata così, non era mai stata così con nessuno, nessun’altra volta, in nessun altro tempo e in nessun altra vita, mai.

Con un sorriso si richiuse nel giubbotto, mentre il tram sobbalzava lentamente all’altezza di un semaforo e un giovane universitario attraversava la strada, correndo, con i libri di scuola sotto braccio e un’espressione tanto preoccupata da sembrare stupida.

Sentiva il calore di lui ma in realtà era l’estate di quand’era piccola e sua sorella aveva solo quattordici anni. La ricordava con quel suo vestito azzurro ed il cappello di paglia da contadina mentre, immersa nei soffioni fino alle ginocchia, le lanciava addosso petali bianchi.

“Mi vanno negli occhi!” protestava, una Simona bambina dai capelli corti e le ginocchia ossute.

“Ti lamenti solo perché non sei capace a difenderti” rideva Saturnia, prendendola per mano. “Vieni, facciamo il girotondo come quando eravamo bambine”.

Aveva sempre avuto una gran voglia di rimanere bambina, con i suoi occhi verdi e quei capelli rossi come il rame e lisci come la seta, così belli che persino il vento d’estate rallentava per poterglieli accarezzare. Eppure era sempre stata così donna, Saturnia, fin da bambina, con i suoi sguardi maturi e le braccia sempre pronte a proteggerla da tutto.

Ogni tanto, quando il papà tornava a casa ubriaco era Saturnia a difenderla, a mandarlo in camera ed era sempre lei che, dopo un’ora, si infilava nel suo letto per abbracciarla, per farla sentire al sicuro da ogni cosa. Qualche volta cantava, stringendosela al petto, ed erano sempre canzoni tristi, anche quando i testi erano felici, anche quando parlavano d’amore. Saturnia gliele sussurrava all’orecchio e la sua voce imbastiva una melodia strana, strappata al silenzio della notte, alla solitudine dei loro sogni.

Simona ricordava l’odore del suo sudore, sotto il tessuto sottile del pigiama, quell’odore caldo e familiare che la accompagnava al sonno, quell’odore caldo e familiare che era un secondo abbraccio e la faceva sentire al sicuro.

Il Nero aveva lo stesso odore, quando dormiva con lei, quando la abbracciava sotto le coperte, quando la baciava sulla fronte prima di addormentarsi e lui, come Saturnia, sapeva come calmarla.

E poi c’era quella nuova sensazione, quel brivido intenso che smuoveva il vuoto, che germogliava mondi e sogni come fossero campi incontaminati. Ora che sapeva non capiva come poteva essersi sdegnata tanto, la sera prima, di fronte a quel foglio di carta stagnola bruciacchiata, ora che capiva si rendeva conto di quanto fossero inutili i mille anni di una vita spesi senza quell’emozione.

“Non voglio che tu lo faccia” le aveva detto il Nero, sedendosi accanto a lei.

“Sono io che voglio ” aveva risposto lei.

“Tu dovresti sbatterci fuori casa e dimenticarti di noi”.

“Oramai non posso farlo” aveva risposto, “e comunque è una cosa che farei in ogni caso”

Il Nero aveva abbassato lo sguardo ma non aveva detto altro, forse sapeva che sarebbe stato inutile.

Dopo aver fumato non sentì nulla, tanto che sospettò di aver sbagliato qualcosa, ma poi era iniziato e di colpo era di nuovo in quel campo e in quell’infanzia, con quella stessa sorella di fronte, i petali dei soffioni che vorticavano nell’aria e la linea delle nuvole, frastagliata di luce, alle sue spalle.

Sua sorella era a due passi dal paradiso ed allungava le braccia, sorridendo, attendendo quell’abbraccio di addio che non si erano date mai.

“Cosa c’è? Non hai voglia di cantare?” sorrideva.

E Simona avrebbe voluto risponderle di si, avrebbe voluto correrle incontro e fiondarsi sotto le coperte di quelle notti, quando papà era ubriaco e loro dormivano insieme.

D’un tratto era tra il calore del suo seno e Saturnia si era trasformata in una madonna dal petto grande e il sorriso buono, capace di portare la pace e la serenità anche in quel disordine.

“Non è la dea Kalì, quella che devi ascoltare” diceva Rio, dall’alto di una nuvola. Fumava da un’elegante pipa e il suo fumo bianco si trasformava in un giorno di sole. “È il sogno, la cosa importante, non la vita, l’importante è vivere il sogno, questo sogno, questo tempo, questi istinti che ci fanno sentire vivi.”

“Sei stata tanto sola, bambina mia” la guardava Kalì, portandole un seno alla bocca.

“Siamo questo, noi?” domandava Simona, confusa. “Un sogno che diviene realtà?”

“Siamo un sogno morbido, amore mio” rispondeva il Nero, sollevandola al cielo. “E anche questo azzurro che vedi è reale come un fantarospo proprio perché non ha ragione di essere reale.”

“Non capisco…” meditava Simona, scivolando verso un mare caldo. Ma una volta toccata la superficie non ebbe più bisogno di capire, si ritrovò immobile, sepolta dal calore del Nero, distesa sul suo petto. Aveva pianto, era stata lontana, ma si era sentita di nuovo bene, di nuovo al sicuro, di nuovo certa di ogni cosa.

Avrebbe vissuto il sogno, pensò, sollevando le saracinesche del Cordoba e guardando la città scendere dal letto. Avrebbe vissuto il sogno e tutta la vita ad esso legata, giorno dopo giorno, non importava quanto sarebbe durato, quanto tempo ci avrebbe messo ne se sarebbe mai più riuscita a tornare indietro, ma mille anni di ordinarietà e di fatica non valevano niente di fronte al piacere immenso che le dava l’idea di raggiungere l’abbraccio di Saturnia.