Gli si era formata la pelle d’oca, ma allo stesso tempo avevo riconosciuto il suo sguardo: memoria annullata e paura del nuovo, involontariamente tuffato nel mondo dello sconosciuto.

«Hai sete? Vado a prenderti un bicchiere d’acqua», mi affrettai a chiedergli sorridendo, cercando di apparirgli del tutto normale. Sarebbe passato, bastava solo che riuscissi a parlargli mantenendo la calma, intrattenere il cervello per non farlo spaventare. Il panico era pericoloso: in quel caso avrebbe avuto una crisi.

Respirai e ricordai le parole del dottore: «lo tratti come un bambino, gli spieghi le cose con pazienza ma anche con il sorriso. Gli deve infondere sicurezza e pian piano non solo avrà la sua attenzione, ma lo aiuterà a tornare in sé. È una sindrome strana, sarà come occuparsi a intermittenza di un bambino di tre anni: la prenda per il verso giusto o se ne farà una malattia anche lei».

«Quanto possono durare queste “assenze”?» avevo chiesto.

«È una sindrome rara e ci sono ancora pochi studi a riguardo. Difficile da dire: varia da persona a persona. Possono essere pochi minuti come qualche ora…o giorni».

Giorni, avevo ripetuto io quasi automaticamente. Quanto può essere breve una parola che contiene così tanto tempo in sé? Come intrattenerlo per giorni senza perdere la pazienza?

«Senta, – aveva interrotto il dottore i miei pensieri – è una grande sfida per lei ma lo è anche per lui. Immagini come potrebbe sentirsi se tornando in sé si rendesse conto che lei lo sta trattando come un bambino, che il vostro rapporto non è più moglie-marito ma quasi madre-figlio? Si abbatterebbe, glielo dico io. E un paziente demotivato è un paziente doppiamente malato. Ce la può fare. E, forse, potrà trovarci la parte, non voglio dire divertente, ma interessante anche per lei. È un’insegnante, giusto? Lui è il suo nuovo allievo: dovrà reinsegnargli la vita».

«E se non mi riconoscesse? Se non fossi in grado? Se avesse paura anche di me? Se…». Non avevo avuto il coraggio di continuare, pensando alle precedenti crisi.

Il dottore aveva abbassato il capo e respirato profondamente prima di rispondere: «Come le dicevo, ne sappiamo ancora troppo poco per fare delle previsioni. Normalmente è come se scegliessero una persona di riferimento, una sorta di collegamento con la vita normale. Lui ha scelto lei. Non si fasci la testa prima di essersela rotta e cerchi di lasciarlo il minor tempo possibile da solo. E non si dimentichi che lui sa tutto».

 

«Unbicchieredacqua?», ripetè lui con la faccia a punto interrogativo, pronunciando le parole proprio così, tutte attaccate. Da lì capii che non aveva idea di cosa fosse un bicchiere e cosa fosse l’acqua. Aveva dimenticato anche questo. Ma almeno sapevo che la sua parte la stava facendo.

Gli sorrisi, cercando di ricordarmi come facevo con nostro figlio ormai troppi anni fa. Mi ero persino andata a rivedere tutti i video per cercare l’intonazione giusta, quella che viene naturale da mamma, ma risulta forzata e a tratti pietosa, se rivolta a un adulto.

Mi sedetti accanto a lui: «L’acqua è difficile da spiegare a parole – cominciai – Non ha colore, non ha sapore, eppure contiene la vita».

Non stava funzionando: il punto interrogativo non era scomparso dalla sua testa. Gli presi le mani nelle mie e me le portai alla pancia: «Prova a chiudere gli occhi e immaginare di stare ancora nel grembo materno. Prova la sensazione di non avere peso e sentirti sempre supportato, sostenuto e anche cullato. Quella è l’acqua che per prima hai conosciuto, il tuo riparo e la tua tana. Però, ecco, non è che voglio darti da bere la tua tana, eh». Sorrise: il senso dell’umorismo pareva non essere stato intaccato dalla malattia. Come era bello, quando sorrideva!, mi sorpresi a pensare.

Questo mi diede anche la forza di continuare: «L’acqua è un liquido, qualcosa che puoi toccare e bagnarti ma alla quale non puoi dare forma, perché è in eterno movimento. L’acqua scorre nei fiumi, si agita nel mare, si placa nei laghi. L’acqua ti cade addosso rinfrescandoti o bagnandoti a seconda che la pioggia ti sorprenda d’estate o d’inverno. Estate-pioggia: wow! Inverno-pioggia: brrr!».

«Brrr!» ripetè lui.

«L’acqua è qualcosa di cui senti il bisogno quando la gola si fa secca, e quando la bevi senti un dolce refrigerio scenderti per la gola e rigenerare tutto il corpo. Ma attento, l’acqua del mare è molto salata, non puoi berla senza tossire». Ridemmo per la mia imitazione da tosse salata.

«Quel sale però ti permette di stare a galla e sentirti libero e leggero. L’acqua che si beve, invece, è pura, di fonte, ma dalla fonte non puoi trattenerla se non la imprigioni in qualcosa di solido, rigido, privo di feritoie. Se provi a intrappolare l’acqua nei palmi delle tue mani, mettendoli così, a coppetta, troverà sempre un modo per sgusciare via».

Imitò i miei gesti formando egli stesso con le mani una coppetta e cercando, incuriosito, di chiudere le brecce fra i palmi accostati e fra le dita.

«Il bicchiere è la trappola dell’acqua ma anche il tuo modo per contenerla. È qualcosa di chiuso in basso e ai lati ma aperto in alto, in modo che tu possa accedere al suo contenuto. Lo avvicini alla bocca e lasci scorrere lentamente l’acqua dentro di te. Può essere di vetro, di plastica o anche a volte di legno, ma io te lo consiglio in vetro, che non altera il sapore dell’acqua. Lo so, ti ho detto che non ha sapore. Ho mentito. L’acqua sa di vita, di fresco, di rugiada, di pioggia, di neve sciolta».

«Boia quanto parla, professorè! Me lo vuol dare o no, ‘sto bicchiere d’acqua?», disse abbracciandomi e stampandomi un bacio sulla guancia. «Ma non salata, mi raccomando, sennò tosse! E inverno brrr!» disse, strofinandosi le braccia incrociate e facendomi il verso. Era tornato.