Il vento s’insinuava tra i germogli teneri degli alberi da frutto, accarezzava le fronde delicate e le faceva ondeggiare con dolcezza, sfiorava appena l’erba lussureggiante degli orti incolti increspandola come l’acqua verde di un mare piatto ma inquieto.
La natura respirava e cresceva rigogliosa e incontrollata mentre regalava allo sguardo la sua straordinaria bellezza.
La primavera si muoveva leggera in cerca di avventure e di compagni di gioco, come una fanciulla scanzonata e magica.
Gli animali – in mezzo a quel prodigio quasi selvaggio – vivevano gioiosi e indisturbati, stupiti e ammaliati da quella pace inaspettata.
Costruivano i nidi in luoghi impensati, si accoppiavano e si riproducevano come prima non avevano mai fatto.
In contrasto con questo splendido scenario, l’umanità intera sembrava fosse stata inghiottita dalle case per opera di un malefico sortilegio e le strade deserte mostravano un aspetto pressoché spettrale.
In mezzo a quel silenzio quasi tangibile, gli edifici parevano pavoneggiarsi per mettere in mostra la loro architettura armonica e i monumenti ostentavano la loro bellezza dalla quale trapelavano frammenti di storia.
Le abitudini quotidiane si erano interrotte e modificate e un senso di angoscia e di impotenza strisciava attraverso l’aria immobile e si propagava all’infinito, donando al paese un aspetto lugubre.

Mentre riflettevo sulla drammatica situazione, tormentata da mille pensieri, elaborando le mie teorie e analizzando le mie sensazioni, provavo un’angoscia infinita.
Ero spaventata e preoccupata – sì, molto – ma non per me, per le persone che amo.
Nonostante fossi consapevole che era una reazione naturale, non mi riconoscevo in quello stato d’animo, non ero la persona positiva di sempre.
Osservavo il fluire di quella pellicola straordinaria quasi senza vederla e non riuscivo ad apprezzare le meraviglie che si sviluppavano davanti ai miei occhi.
Nelle cose che facevo mi mancava la passione, non ci mettevo il cuore.
A volte, il tempo sembrava essersi fermato e – nel frattempo – che fuggisse troppo veloce.
Stavo vivendo in una sorta di incubo.
Che avessi bisogno di tempo, lo capivo, lo suggeriva il mio buonsenso.
La consapevolezza di dover assimilare, con fiducia, i cambiamenti a cui tutti eravamo sottoposti, vinse sul senso di inquietudine che paralizzava la mia mente e mi soffocava.
Si susseguirono notti insonni a pensare.
Non mi sentivo più sicura di nulla e mi ponevo dei dilemmi che fino ad allora non avevano mai sfiorato la mia mente.
La negatività che stavo vivendo era principalmente frutto delle mie paure – lo sapevo bene – e l’unico modo che avevo per combatterla e calmarmi, era osservare la situazione da un punto di vista esterno, era saper cogliere la positività e abbandonare il pessimismo.

Il mio spirito di osservatrice attenta ebbe il sopravvento, lo usai come una sorta di difesa, forse per non lasciarmi abbattere dall’ansia o forse ancora, per contrastare il senso di oppressione e di solitudine che mi attanagliavano lo stomaco.
Nell’irreale silenzio che mi circondava, mi appigliai a qualche cosa di positivo e mi misi ad osservare i colori e ad ascoltare i suoni che mi stavano intorno, proprio con il cuore.
Riacquistai quella gioia che mi permette – di solito – di vedere il bicchiere mezzo pieno, di andare avanti con il sorriso anche quando c’è poco da sorridere.

Vidi che in quel breve lasso di tempo, la natura aveva riconquistato i propri spazi, gli animali si erano avvicinati alle case indisturbati e sembravano stupiti dalla pace che regnava ovunque.
Le piante erano cresciute dove prima regnava l’asfalto.
Un muretto in pietra era stato quasi inghiottito da una pianta di edera che si espandeva rigogliosa e invadente.
Ciuffi d’erba origliavano tra le fessure delle mattonelle dei marciapiedi con aria curiosa.
La natura rivendicava la propria libertà e si era estesa, forte e spontanea, senza paura di essere imprigionata dall’uomo che la obbligava con la forza – da sempre – a rispettare confini ben definiti ed era esplosa in un tripudio di colori.
Sullo sfondo, il mare rumoreggiava tranquillo.
Una massa blu cobalto, abbandonata e vuota, sovrastata da un cielo tanto azzurro che pareva ancora più immenso.
Mi accorsi che intorno a me si stava celebrando una grande festa di colori e di suoni che di solito erano coperti dal frastuono della vita quotidiana.
Fu allora che immaginai di avere davanti un palcoscenico sul quale si muovevano innumerevoli attori e comparse in attesa di iniziare uno spettacolo, con il caratteristico brusio sommesso dell’attesa.
Ammirai con occhi nuovi i frutti di quella pausa inconsueta, con lo stesso stupore che manifesta un bambino davanti alla strabiliante destrezza di un abile prestigiatore che ne cattura l’attenzione e lo fa assistere, attonito, al suo spettacolo, magico e inesplicabile.
Ricordai una frase di J. B. Shaw che avevo letto non ricordo quando:
“Le persone non smettono di giocare perché invecchiano, ma invecchiano perché smettono di giocare”. Mi lasciai coinvolgere dalle cose positive che la natura mi offriva e ritrovai, un poco per volta, la pace e il mio equilibrio interiore.

I giardini e gli orti si erano colorati con il vivace turchese dei fiordalisi, con il bianco immacolato delle margherite di prato. Il rosso smagliante di turgidi papaveri macchiava con bagliori di fuoco il verde brillante e variegato dell’erba come un inspiegabile e meraviglioso miracolo.
Piante e animali festeggiavano allegramente quella maledetta primavera, sedotti dalla pace che li circondava.
Quando i raggi del Sole coloravano appena il cielo con tinte rossastre, ricevevo il buongiorno dal canto armonioso di un merlo che veniva a salutarmi appollaiato sul cornicione sopra la finestra della mia stanza da letto, lasciando fluire nell’aria una melodia modulata da fare invidia a un maestro di flauto.
Decisi di chiamarlo Caruso, come il famoso tenore.
Chissà, forse ero io che mi illudevo che il volatile cantasse per me mentre stava semplicemente corteggiando e salutando la sua nuova compagna.
Mi piaceva – tuttavia – credere che fosse la mia sveglia mattutina.
Gli facevano da cornice un coro di allodole e di piccioni che tubavano dolcemente innamorati.
Il garrire allegro delle rondini rompeva la monotonia canora e le osservavo volteggiare mentre solcavano agili il cielo, radenti ai tetti delle case, in formazione, con piroette perfette e spettacolari da fare invidia a uno stormo di aerei acrobatici.
I gabbiani – invece – volavano in alto, lasciando nell’aria i loro caratteristici stridii.
Li aspettavo, li ascoltavo, mi rallegravo, mi emozionavo.
Una famiglia di gazze, raffinate nel loro piumaggio nero e bianco, si era stabilita sulla grande quercia frondosa, oramai centenaria, che abbellisce la facciata della chiesa del paese, di fronte al mio terrazzo.
Erano indaffarate e chiassose come una famiglia allegra e vivace.
Genitori e figli discutevano e bisticciavano da mattina a sera, si rabbonivano per poi ricominciare a litigare.
Mamma e papà erano oberati dall’impegno di allevare una schiera di figli mattacchioni e disobbedienti.
Il tetto della casa bassa che si trova tra la chiesa e il mio palazzo, era diventato la loro palestra di volo e di giochi.
La coppia ne aveva acquisito l’esclusiva, scacciando a colpi di becco, i piccioni e le allodole che si avventuravano da quelle parti.
I piccoli si rincorrevano tra i rami della quercia come monelli di un allegro condominio aereo per poi addormentarsi, la sera, quando arrivava la notte ad accendere il silenzio e a spegnere il cinguettio sommesso tra i rami.
Su quel palcoscenico naturale, il direttore d’orchestra era il Sole che scandiva i tempi e i ritmi della giornata.
Con i primi raggi del mattino, come un bravo maestro, dava il via al canto di merli e cingallegre.
Poi, intervenivano i coristi: le eleganti tortore con collare e le timide allodole, accompagnate dall’assolo di un gallo di un pollaio o dall’abbaiare di un cane.
Nel pomeriggio entravano in scena le cicale con il loro frinire insistente e componevano la loro ritmata base musicale.
Il verso particolare di alcune ghiandaie si univa, a tratti, donando armonia alla performance canora.
All’imbrunire, quando calava una luce rosata che sembrava ammorbidire il paesaggio da farlo sembrare quasi fragile, le campane della chiesa – libere dalle restrizioni sociali – intrecciavano nell’aria i rintocchi dell’Ave Maria di Lourdes che si propagavano per le vie con il loro suono catartico e consolatorio.
Un suono antico che confortava il cuore come un messaggio di speranza.
Scendeva la sera e la natura si placava, avanzavano ombre lunghe sulle case e la notte era pronta per iniziare una suggestiva serenata.
Dentro le case c’era vita: vedevo le luci accese e il tricolore che sventolava appeso ad alcune finestre.
Nelle vicinanze, un ignoto e solitario musicista improvvisava, con leggerezza, una musica allegra e coinvolgente.
La Luna – misteriosa e affascinante come sempre – si levava nel cielo buio sonnecchiando tra le nuvole e riusciva a creare un’atmosfera suggestiva mentre spargeva la sua luce argentea.
Guardavo i contorni scuri delle colline disegnate nitidamente contro il cielo stellato e ascoltavo.
Il coro delle cicale inventava melodie rap, rese ancora più suggestive dal verso solitario di una civetta o di un allocco che sbocciava all’improvviso.
Il buio era punteggiato da lucciole fluorescenti, che volavano leggere tra le piante, come fugaci e silenziose guardiane della notte, magici folletti della natura.

E poi – finalmente – il sipario calava sul palcoscenico, il silenzio si spandeva ad inghiottire la natura, mentre la Luna tramontava e scompariva dietro le colline, prima dell’arrivo dell’alba di un nuovo giorno.