In quella lontana sera di metà ottobre, avevamo inviato a cena i nostri amici più cari, Daniela, Riccardo e Lorenzo, sui quali potevamo contare sempre e non avremmo fatto a meno di loro per nulla al mondo.
Eravamo una compagnia ben assortita: mio marito amava le escursioni a piedi; Riccardo era un provetto pescatore; Daniela una cuoca eccezionale; Lorenzo ed io gli artisti: lui fotografava ed io dipingevo.
Le foto più espressive e belle della mia famiglia sono opera sua.
Avevamo una cosa in comune: eravamo dei buongustai, andavamo d’accordo e ci amavamo come fratelli.
Daniela e Riccardo possedevano una casa in un piccolo e grazioso paesino in Toscana, nella quale andavamo in vacanza durante le estati, un paio di settimane ogni anno, con ragazzi e animali, in assoluta libertà e spensieratezza.
Quell’anno l’estate sembrava non avere fine.
Nuotate al mare e serate intense con gli amici ma soprattutto il caldo eccessivo mi aveva affaticato e non ero pronta ad affrontare l’arrivo dell’inverno.
Durante la serata, tra una portata e l’altra, dopo una serie infinita di bicchieri di buon vino, l’atmosfera si fece allegra e i nostri amici c’invitarono a trascorrere un fine settimana nella casa in campagna, una breve vacanza prima dell’inizio delle scuole e della routine lavorativa.
Ne fui entusiasta, non ero mai stata in quel luogo in autunno e avevo la necessità pressante di ricaricarmi.
Lorenzo era in cerca di soggetti nuovi per le sue foto artistiche.
Il programma prevedeva che Daniela, Lorenzo ed io saremmo partiti il mercoledì successivo, mentre gli altri due ci avrebbero raggiunto il venerdì sera per passare insieme il week-end.
«Comprate la carne, preparate l’impasto per la pizza e accendete il forno», dissero i nostri mariti.
«Cucineremo noi», si proposero.
Il giorno della partenza, Lorenzo, famoso per i suoi ritardi agli appuntamenti, ci stupì quando arrivò puntuale e questo ci parve di buon auspicio.
Il viaggio fu scorrevole e, arrivati nel paese, dopo aver comprato alcune specialità locali, raggiungemmo il gruppo di case della piccola frazione dov’era ubicata la casa, sulle colline, a circa quattrocento metri di altezza, in mezzo ai boschi, immersa nella tranquillità più assoluta.
L’aria era pulita, frizzante e sapeva di buono.
Mentre Lorenzo scaricava i bagagli, spalancammo le finestre per arieggiare la casa, poi ci sistemammo nelle stanze.
Ce n’erano tre, grandi e luminose e, mentre Lorenzo dava un’occhiata in giro, noi preparammo una cena veloce, a base di formaggio e salsicce locali.
Durante la cena, che consumammo nel grande salone, Lorenzo accese il caminetto:
«Per creare l’atmosfera giusta», disse.
In realtà, era per stemperare l’aria fresca della sera e, soprattutto, perché per lui era una novità.
Per il giorno dopo, Daniela propose di andare a visitare un paese, a una cinquantina di chilometri di distanza, molto grazioso e abbarbicato in cima a una vetta, a quasi mille metri di altezza, costruito sulla roccia, quasi appeso alla montagna come il nido di un’aquila.
Ero quello che pensai appena lo vidi da lontano.
Più tardi, uscimmo a fare una passeggiata lungo la strada illuminata da rari e distanziati lampioni, al limitare di boschi bui e silenziosi, in quella tiepida sera che profumava di uva matura, di frutti autunnali e di pace.
In giro non c’era anima viva, gli abitanti seguivano il ritmo regolare del sole, si coricavano all’imbrunire e si alzavano all’alba.
La manciata di vecchie case che costituiva il nucleo del piccolo borgo, era abitata da cinque famiglie; il resto dei vecchi edifici, era adibito a magazzino per il fieno, ricovero per gli animali da cortile e per gli attrezzi da lavoro; al centro, una grande chiesa, troneggiava imponente come una sovrana.
Il silenzio era totale, interrotto a tratti dallo squittio di una civetta e l’ululare di un cane innamorato della luna.
Il cielo, costellato di stelle luminose, offriva uno spettacolo da mozzare il fiato.
Anche le case, addormentate e buie, sembravano respirare appena.
Salimmo in cima a una piccola collina che sovrastava la vallata e ammirammo le luci dei paesini della valle sottostante che, da quella distanza, sembravano irreali.

Il mattino successivo, quando ci svegliammo, trovammo ad aspettarci un sole splendente che campeggia in un cielo limpido, di un azzurro così intenso da sembrare un dipinto.
Spalancai la finestra della mia stanza respirando l’aria pura e fresca del mattino con la gioia nel cuore e con la determinazione di godere fino in fondo di quella breve vacanza improvvisata.
Caricammo l’auto con le nostre cose e partimmo.
Ci inoltrammo nella vallata per una strada in salita, tutte curve, circondata da boschi di faggi che si presentarono ai nostri occhi come uno scenario incantevole e pittoresco.
Le foglie degli alberi stavano cambiando colore, preludio dell’autunno in arrivo e macchiavano la natura di giallo, rosso, marrone con sfumature variegate e, tra il verde ancora intatto, mostravano all’occhio uno spettacolare quadro naturale simile a un dipinto impressionista.
Massi rocciosi spuntavano qua e là insieme a solitari e graziosi cascinali.
Lorenzo era affascinato da tanta bellezza, fermò l’auto per immortalare quegli scorci fantastici ed era palese quanto fosse soddisfatto.
Anch’io rimasi incantata e sorpresa e assaporai estasiata il noto paesaggio toscano in versione autunnale che fu poi spunto di tanti miei dipinti.
Quando raggiungemmo la nostra meta, era quasi mezzogiorno, facemmo un giro nel grazioso paesino, in parte appoggiato sulla roccia della montagna.
Trovammo un posto tranquillo all’ombra dei faggi e pranzammo mentre intorno a noi ronzavano api, volavano mosconi e diafane farfalle.
La natura sembrava aver organizzato una grande festa di colori solo per noi.
Verso sera, rientrammo con dentro gli occhi, il bagliore acceso dei boschi, la serenità nel cuore e una fame da lupi.
Cenammo commentando la giornata e, seduti davanti al camino, pianificammo il programma per il giorno successivo.
Decidemmo di andare a fare un’altra escursione nelle vicinanze e, al ritorno, di fermarci presso una famosa macelleria a comprare la carne per la cena della sera dopo.
Ci coricammo felici protetti da un meraviglioso cielo sereno e stellato che sembrava un dipinto di Van Gogh.

L’indomani mattina, mi svegliai presto e un picchiettio sospetto mi fece balzare fuori dal letto.
Aprii la persiana e, non appena vidi che stava piovendo a dirotto e una spessa coltre di nebbia offuscava il paesaggio circostante, la delusione mi assalì cancellando parte del mio entusiasmo.
Guardai con preoccupazione i banchi di nebbia immobili nell’aria: sembravano batuffoli di rada bambagia che galleggiavano appesi a fili invisibili.
Anche la temperatura si era abbassata e rabbrividii indossando un maglione.
Pensai:
«Addio gita, l‘estate è finita».
Più tardi, uscimmo mogi, sotto la pioggia e, di malumore, decidemmo di fare un giro nella cittadina più vicina per fare la spesa.
Le strade erano piene di pozzanghere e, muniti di giganteschi ombrelli forniti da Lorenzo, uno rosso e due gialli, camminammo in fila, rasente ai palazzi, per evitare le raffiche di pioggia che arrivavano di traverso.
Tornammo a casa, fradici e nervosi.
Nel primo pomeriggio ci mettemmo al lavoro nonostante le condizioni climatiche avverse.
Mentre Daniela impastava la pizza, Lorenzo uscì, sotto il gigantesco ombrello rosso, intenzionato a fare le foto, nonostante il tempo.
Mentre si allontanava, lo osservai dalla finestra del salone e pensai curiosa:
«Dove avrà preso questi ombrelli a due piazze?».
Lo seguii con lo sguardo mentre si allontanava e lo vidi sparire inghiottito dalla nebbia come un grande fungo rosso e velenoso e mi venne da ridere.
Il mio compito era di accendere e scaldare il forno, che si trovava a una ventina di metri dalla casa, dentro il cortile, sotto una tettoia, presso un rudere che Riccardo aveva iniziato a ristrutturare tempo prima e che, come diceva sempre Daniela:
«Chissà quando e se mai lo finirà».
Indossai un paio di vecchi e larghi jeans che trovai in cantina, li legai con uno spago a mo’ di cintura; un maglione taglia extralarge abbandonato su una sedia, una giacca a vento blu, con le maniche così lunghe che dovetti arrotolare più volte.
Mi calai sulla fronte un capello nero impermeabile a falda larga, indossai un paio di stivali di gomma pesanti e di almeno sei misure più grandi dei miei piedi, un paio di guanti da lavoro spessi e grandi quanto due racchette da tennis e, così conciata, mi avviai verso il forno.

La situazione si rivelò più complicata del previsto.
Gli stivali erano troppo grandi, ad ogni passo, con un sistematico, “flop flop”, i piedi scivolavano all’interno, si portarono dietro le calze che si arrotolarono e scesero fino ad accartocciarsi sulla punta.
Mentre camminavo con le movenze di un robot, presi un puntapiedi in una sporgenza dell’acciottolato irregolare del cortile, il piede destro uscì dallo stivale e, per evitare di cadere, lo appoggiai dentro a una pozzanghera, inzuppando i pantaloni fino al polpaccio.
Un vero piacere!
Imprecai fra i denti, maledissi il tempo traditore, chi aveva avuto la brillante idea della pizza (cioè noi), Lorenzo che era andato a scattare le sue patetiche foto con effetti speciali (come affermava lui) e, abbastanza stizzita, mi accinsi ad accendere il maledetto forno.
Tanto per rendere più difficile l’impresa, la pioggia aveva bagnato la legna posta sotto la breve tettoia, i legnetti e la paglia umidi non si accesero e il forno produsse un fumo mortale che uscì come una nube tossica dall’apertura a mezzaluna, mi accecò facendomi lacrimare gli occhi.
Fui costretta a indietreggiare tossendo.
Poco dopo, naturalmente, mi ritrovai bagnata dalla testa ai piedi, sotto una pioggia insistente che aveva deciso di non concedere tregue.
Frustrata, mi diressi in cantina in cerca dei giornali che avevo visto in un angolo per creare almeno una parvenza di fiamma.
Mentre stavo borbottando da sola, Daniela arrivò in mio aiuto:
«Aspetta, vado a vedere se la vicina mi regala un po’ di legna asciutta», mi disse guardandomi con aria preoccupata.
Ero conciata da fare paura e incominciavo a sentire freddo.
Con la legna giusta e tanta pazienza, riuscii nell’impresa e, più tardi, un fuoco scoppiettante mi sorrise allegro dalla bocca spalancata del forno.
«Era ora, maledetto», lo insultai a voce alta.
Daniela impastò la pizza, conciò la carne con erbe e spezie e cercò di incoraggiarmi finché non arrivò Lorenzo, che esclamò euforico:
«Ho scattato delle foto fantastiche, con effetti speciali straordinari, sono soddisfatto …», affermò.
Trovai la sua euforia fuori luogo, lo incenerii con uno sguardo e lui ammutolì quando mi vide: dovevo sembrare uno spaventapasseri.
«Beato te», risposi sarcastica starnutendo, «io, invece, ho lottato fino adesso con il forno, sono distrutta, congelata e con un raffreddore in arrivo!».
Fummo interrotti dalle voci allegre dei nuovi arrivati:
«Ehilà, gente!».
«Eccoci!», esclamarono all’improvviso Riccardo e Gerardo entrando nel cortile sorridendo.
«A che punto siamo, donne».
«Non entriamo nei dettagli, ragazzi, adesso siamo a posto, ma è stata una bella impresa», risposi sollevata, aggiustando le braci scoppiettanti, munita di una lunga pertica.
Riccardo prese in mano la situazione forno, Gerardo scaricò il bagaglio e una quantità di bottiglie di vino che trovai esagerata e pensai che fosse pazzo.
Passate le consegne, mi avviai verso la casa trascinando gli enormi stivali o forse erano loro che trascinavano me.
Zoppicando, salii faticosamente i gradini che portavano al piano di sopra e, con una serie di flop, flop, flop, sparii nel bagno.
Avevo i capelli bagnati, arruffati e appiccicati al cranio, gli occhi arrossati e, soprattutto, puzzavo come la carcassa di una capra affumicata, morta da parecchi giorni.
Impacchettai gli indumenti da “mendicante” in una busta di plastica e m’infilai sotto la doccia bollente.
Poi, rinvigorita e, soprattutto profumata, indossai un’accogliente tuta blu e gialla, scesi nel salone e mi apprestai ad apparecchiare.
Mi raggiunse Lorenzo, mi porse una tisana bollente e, mentre mi sistemava su una poltrona davanti al caminetto scoppiettante e mi avvolgeva in una soffice coperta, molto galantemente, disse:
«Scaldati, apparecchio io, oggi ha fatto abbastanza signora», disse scherzando.
Lo ringraziai ma non potei trattenermi dal pensare:
«Che gentilezza, forse ti senti in colpa perché te la sei svignata quando avevo bisogno di te?», ma gli sorrisi con affetto, senza fare commenti.

Più tardi, seduti intorno al pesante tavolo di noce apparecchiato, davanti al fuoco del camino, chiacchierammo allegramente, commentammo le nostre disavventure con ironia, gustando il cibo con la spensieratezza e l’allegria di sempre.
Ho sempre pensato che non sia importante il luogo dove ti trovi per sentirti bene, quando sei in buona compagnia, ogni cosa diventa speciale.
L’avventura terminò con un poderoso raffreddore per me, la brusca fine di quella lunga e calda estate e diventò parte dei ricordi più belli della nostra vita.