A te sorridevo come a nessuno, nel cortile degli oleandri in quella piazzetta accosto gli antichi lavatoi con le fontane funzionanti, coperti dai portici di legno cedro.
Ricordo quella giornata di primo autunno, quando una refola di vento aggomitoló le foglie secche nella sua corsa leggera e finì ai nostri piedi a pieno carico. Sapevi che adoravo calpestarle, quelle foglie, golosa della croccantezza di quel suono.
E per vedermi sorridere mi regalasti le tue, quelle che coprivano le tue scarpe, con un colpetto di punta e una piccola spinta verso le mie.
“Un palleggio perfetto!” ti dissi non deludendo le tue aspettative, e cominciai a saltarci sopra divertendomi come una bambina.
Rotolavano i tuoi sorrisi sui campi verdi dei miei occhi e si fermavano solo quando li trattenevo, concedendo loro una breve tregua.
Adoravo la tua presenza perché quello stare vicino a me era come soffiare insieme in un respiro, era una comunanza di gesti, una partecipazione di pensieri, un rispetto di silenzi.
Ogni cosa dentro e fuori di noi era come se fosse legata dal gambo di un’edera e lei si sa, dove s’attacca muore.
Come quella che amavamo guardare e avanzare da quel portone lucidato a verde lungo la ringhiera dei tre scalini fino al terrazzino, anch’esso tessuto di trame. E sul suo davanzale geranei rosso corallo sempre floridi.
Sante mani quelle che se ne prendevano cura.
Belle mani le tue, che a ogni tocco improntavano di eternità.
‘Sono una donna fortunata’ mi ripetevo spesso godendomi quella felicità.

Poi l’imprevedibilità ci tese un agguato e, in sella al diavolo, ci stordì predandoci prima l’anima e poi, a te, la vita.
Come un cecchino mirò e si prese anche la mia.
Non ho sentito piú il sole scaldarmi, non ho sentito più la pioggia bagnarmi, non ho sentito più il tempo trascorrere.

Poi, non so dirti quanto poi ti ho sentito, ma non era credibile perché non potevo né vederti né toccarti. Ipotizzavo l’idea di essere suggestionata convincendomi che sarebbe tutto passato ma i segnali si facevano sempre più evidenti, la tua essenza persisteva e mi accarezzava.
Io conoscevo il tuo odore, riconoscevo la  tua voce.
Una volta, affacciandomi dal balcone della nostra camera mi facesti trovare sul prato del giardino il numero nove disegnato con le foglie disidratate.
Il nove ottobre ci eravamo conosciuti, cadevano le foglie lente lente e io me la spassavo a farle scrocchiare.
Quindi tu c’eri e io ti sentivo.

Anche oggi, nel disordine illogico di un dolore ormai consolidato, trattengo con tutte le mie forze la certezza che tu sia presente ovunque.
Ci sei nella bollatura di ogni mia lacrima, nella pulsione del mio cuore, nella direzione dei miei passi, nell’esitazione della tentazione, nella rabbia del mio pugno.
Ma anche nel mio risveglio.
E ogni volta che apro il cartone del latte penso alle nostre colazioni davanti al finestrone della cucina a commentare il cielo, grigio o azzurro che fosse.
In queste memorie t’incontro e il bianco e nero s’evolve in immagini a colori.
Ho ricominciato a sorridere perché non sarai mai sepolto nel mio cuore.
Mi piace credere che quando lo faccio tu ti colori di felicità e riesco anche a vedere le sue tinte nel tuo viso mentre tutto ciò accade.