Sono Ubaldo e voglio raccontarvi la mia fine.
Tutto è cominciato dalla separazione con mia moglie Elisa.
Un calvario con un avvocato che mi ha spillato pure il sangue. I pochi risparmi bruciati burocraticamente.
A Elisa vennero affidati i nostri bambini a lei fu assegnata la casa, lei non lavorava era senza un reddito, era tutto suo. A quei tempi lavoravo con una cooperativa che si occupava di mense scolastiche. Lo stipendio non era un gran che e dovevo passare un cospicuo mantenimento per i miei figli. Così mi sono ritrovato senza una casa, e con pochi soldi per prenderne una in affitto. Decisi allora di tornare da mia madre Andreina. Lei aveva appena ottant’anni, da quando mio padre era venuto a mancare per un malaccio, era rimasta da sola nel piccolo appartamentino in affitto dove sono nato, nella periferia della città. Mi disse:”Ubaldo qui puoi rimanere quanto vuoi, questa è la tua casa”. Era felice della mia presenza, la solitudine l’aveva psicologicamente provata. Si occupava di me come se fossi un bambino, la mattina pronta con la colazione e la sera tornavo dal lavoro e trovavo la cena. Vivevamo con la sua pensioncina e quel poco che mi rimaneva dello stipendio. Un giorno però arrivò la seconda mazzata della mia vita: la cooperativa dove lavoravo ci mise in cassa integrazione, i soldi non bastavano più e quei pochi servivano per i miei bambini, ormai mi manteneva mia madre. Un giorno mamma Andreina era uscita per la solita spesa e ancora non faceva ritorno, incominciai a preoccuparmi lei era molto svizzera con gli orari. Decisi di uscire e andare a cercarla. Arrivai dal fornaio dove lei si recava tutte le mattine.”È andata via da un’oretta” mi disse Gino “l’ho vista andare verso i giardini”. Mi precipitai lì e la trovai su di una panchina con lo sguardo assente. “Mamma!” la chiamai e lei mi rispose qualcosa che io non riuscì nemmeno a capire. In silenzio tornammo a casa, lei cominciò a trafficare in cucina, però mi accorsi che non riusciva a fare le cose come le altre volte e raccontava tutte cose di anni passati. Il giorno dopo chiamai il medico, gli prescrisse vari esami e visite neurologiche. Il medico aveva già capito, cominciava ad avere il morbo di Alzheimer e mi disse: “È una fatale malattia del cervello che rallenta le capacità di memoria, del pensare e di ragionare”. Da quel giorno altro calvario, tra esami e medicinali.

Andreina ormai era nella fase peggiore, aveva bisogno di aiuto in tutto. Ubaldo non poteva permettersi economicamente un aiuto in casa. Decise di lincenziarsi e occuparsi lui della mamma. Senza più un suo reddito non assicurava più nemmeno alimenti ai figlioli. Elisa si rimboccò le maniche e trovò piccoli lavori da fare, ma i suoi bimbi non potevano più vedere il papà. Con il cuore a pezzi Ubaldo andò avanti con il sussidio d’invalidità che spettava ad Andreina, per ben sei anni. Andreina ormai era arrivata al punto di essere un vegetale: dipendeva in tutto e per tutto da Ubaldo. Lui però tenne duro fino alla fine, la mamma lo aveva fatto rinascere di nuovo da quando lo aveva accolto in casa e lui gli doveva questo ed altro. A metà novembre Andreina cessò di vivere. Ubaldo si trovò in una situazione non bella, ormai non poteva permettersi quasi più di pagare l’affitto, aveva già lo sfratto in atto, vagava in città alla ricerca di lavoro, ma non trovava  nulla. La sera mangiava alla caritas, dove fare la fila era un impresa: extracomunitari, barboni sudici e lui come tanti altri.

“Questa è la mia vita ormai” mi dicevo da solo. Senza più una casa mi ritrovai a vagare per la città, a coprirmi con cartoni, sudicio e affamato. La strada è la mia casa, sono un clochard, anzi uno dei tanti barboni che incontrate sui marciapiedi.