Ci fermammo a Stalingrado.

Non avrei mai creduto che le nostre divisioni, coi loro invincibili Panzer e il loro perfetto addestramento, si sarebbero impantanate in una Rattenkrieg nelle rovine della città, senza riuscire a ricacciare i sovietici nel Volga.

Eppure eravamo lì, a combattere casa per casa contro un esercito di fantasmi che appariva soprattutto di notte e colpiva per poi subito fuggire. Non si dormiva mai, e presto capimmo che  l’inverno ci avrebbe sorpresi ancora dentro la città. Il terribile inverno russo.

Ma eravamo fiduciosi: il generale Paulus non aveva dubbi sulla vittoria finale, e anche il Fuhrer ci mandava i suoi incoraggiamenti. Diceva che stavamo facendo la Storia, e aveva ragione, ma non nel senso che credeva lui.

A novembre, sputando sangue, arrivammo a ridurre agli estremi la 62° Armata del generale Čuikov, ma proprio quando, stravolti dalla fatica e dalle perdite, credevamo di poterci finalmente assestare sul fronte del fiume, arrivò la notizia dell’attacco sovietico sull’altro fronte, l’Operazione Urano, e in breve da assedianti diventammo assediati.

Non mi metterò a raccontare la storia, che ormai è scritta sui libri. Fummo deliberatamente sacrificati sull’altare della propaganda e – dicevano – per impegnare le truppe russe su quel fronte, ma io conobbi solo la fame e la disperazione. Eppure continuammo a combattere, prima credendo nell’arrivo dei rinforzi di von Mainstein che non giunsero mai, poi per la forza dell’abitudine, trascinandosi di casa in casa mentre i russi, ormai meglio nutriti e organizzati di noi, ci martellavano con l’artiglieria pesante e venivano a stanarci casa per casa.

Adesso i ratti eravamo noi.

Fu negli ultimi giorni dell’assedio che morii. Stravolto dalla fame e dal freddo raggiunsi un soldato nemico colpito da un cecchino e, febbrilmente, lo spogliai e mi vestii con i suoi caldi indumenti. Aveva un lungo pastrano ben imbottito, morbidi guanti e stivali ancora intatti. Trovai anche un involto con del cibo nelle tasche, che misi in bocca senza neanche guardare.

Indugiai solo un attimo quando, voltando il cadavere, vidi gli occhi chiari di quel ragazzo sbarrati nella morte, le labbra esangui. Fu quell’esitazione a perdermi: la bomba mi colpì mentre cercavo di raggiungere il riparo, e tutto finì in un inferno di fuoco.

Ma avevo i vestiti del russo, così quando i suoi compagni ritrovarono le mie spoglie, non potendomi identificare mi scambiarono per uno dei loro, e mi seppellirono in un ordinato cimitero militare, una stele tra tante, più di un milione.

Così anche io ho vinto la guerra, anche io faccio parte della terra dei vincitori, ed in verità è giusto così perché in tanti siamo morti in questa assurda, inumana guerra, e tutti eravamo giovani e innocenti, tutti eravamo uguali e tutti volevamo soltanto vivere.

ADN-ZB/Tass/ II. Weltkrieg 1939-45 Die Stalingrader Schlacht begann im Juli 1942. In erbitterten, beiderseits verlustreichen Kämpfen wehrte die Rote Armee das weitere Vordringen der faschistischen Truppen ab. Während der sowjetischen Gegenoffensive im November 1942 wurden über 300 000 Mann eingeschlossen. Die Reste dieser Verbände, etwa 91 000 Mann, kapitulierten am 31.1. und 2.2.1943 Stalingrad im Januar 1943 – um jede Ruine müssen die sowjetischen Soldaten erbittert kämpfen.