Le luci dell’alba di un nuovo giorno di questo 2019 filtra attraverso una specie di finestra del mio misero alloggio, illuminandolo quanto basta per vederci chiaro. Abito in una baracca, una delle tante di questa zona di Veio, in provincia di Roma. Gli altri tre ragazzi, nigeriani come me, con cui divido la stanza, dormono ancora. Invece io, come ogni mattina, mi lavo come meglio posso, a causa delle circostanze precarie in cui vivo. Poi indosso la mia tuta e la felpa e nello squallido ingresso della mia abitazione preparo la mia borsa con i ferri del mestiere, perché sono venditore ambulante. In essa metto tovaglie per la tavola, strofinacci, asciugamani, fazzoletti di carta, accendini, calzini e qualche maglietta. Poi mi carico il borsone in spalla e prendo una miriade di autobus per raggiungere il centro di Roma e la sua periferia, perché Veio si trova tra la via Cassia Nuova e Corso Francia. Proprio lì, dove le due vie si fondono.

Come già ho accennato sono nigeriano, precisamente di Benin City e ho ventotto anni. A casa ho lasciato mia madre vedova e due fratelli più grandi sistemati, da un punto di vista lavorativo, nel campo edilizio. Invece io, dopo la morte di mio padre avvenuta tre anni fa, ho cercato la mia strada qui in Italia, ma per il momento non ho trovato niente di meglio da fare che il vù cumprà, come mi chiamano quelli che mi denigrano. Quando le vendite vanno bene riesco a pagare la mia quota per la stanza dove vivo, mando anche qualche soldo a mia madre e riesco un po’ a sopravvivere. Ma quando vanno male, la vita è dura.

In genere non sono molto felice della mia vita, anche perché qui in Italia c’è tanto razzismo. Quando sono alle prese con le vendite dei miei articoli le signore hanno sempre fretta, gli uomini e gli anziani mi guardano con disprezzo e mi dicono di tornare al paese mio, solo i giovani mi ascoltano con interesse. In genere ho l’incubo di imbattermi in gruppi di naziskin che ti urlano dietro: “Ma levati dalle palle, brutto stronzo. Sporco negro, noi quelli come te li bruciamo, siete una razza inferiore!”.

Tutto questo quando va bene, perché questi delinquenti non si fanno scrupolo di alzare anche le mani e di picchiarti senza pietà.

Un giorno, difatti, mi trovavo in via della Bufalotta. In strada non c’era nessuno ma ad un tratto sono stato circondato da un gruppo di questi teppisti che hanno iniziato a insultarmi e a picchiarmi anche con delle cinte di cuoio. Dal dolore mi sono accasciato a terra e ho iniziato a piangere. Loro sono scappati e mi hanno lasciato lì, mentre io non sapevo bene cosa fare. Ma ad un tratto sono stato soccorso da una ragazza che mi ha aiutato ad alzarmi.

Nonostante fossi tutto acciaccato restai abbagliato dalla sua bellezza. Era alta, magra, aveva i capelli lunghi rosso rame e gli occhi verdi. Mi accompagnò alla fontanella e mi aiutò a pulire il mio viso sporco di sangue. Poi mi chiese:

“Come ti senti?”

“Mi sembra che non è successo nulla di gravissimo” le risposi.

“Di questi tempi non devi girare per le strade deserte. Vuoi venire a riposare un poco a casa mia? Abito proprio qui vicino, a via Monte Cervialto. Sono con i miei, ma non spaventarti, siamo di sinistra e i miei genitori sono molto democratici.”.

Mi ispirò fiducia come dovevo avergliela ispirata io, così accettai e la seguii in macchina, una Panda rossa. Facemmo pochi metri e arrivammo alla sua abitazione presso un condominio molto grande, circondato da un bel giardino. Salimmo al quarto piano e ad aprire la porta di casa fu il padre.

“Ciao pà”

Un signore alto, magro, con folti capelli bianchi e la barba anch’essa candida.

Allarmato disse: “Cosa è successo?”.

Arrivò poi una signora molto distinta, anche lei con i capelli rossi, che impaurita aggiunse: “Che ti è successo?”.

La ragazza spiegò a lei e al padre quello che mi era successo. Loro mi accolsero a braccia aperte cercando di consolarmi. Mi fecero accomodare in un soggiorno le cui paresti erano state occupate da librerie e mi offrirono anche un dolce fatto in casa e un succo di frutta. Poi ripresero le loro occupazioni, e a me e alla figlia ci lasciarano soli.

La ragazza mi domandò: “Come ti chiami?”.

“Rahid, e tu?” le domandai a mia volta.

“Luana.”.

“Cosa fai?” domandai incuriosito.

“Mi sto laureando in storia dell’arte. Ho seguito le orme dei miei genitori. Mio padre insegna ancora filosofia, mia madre lettere. Ma tu, da dove vieni?”.

“Da Benin City, in Nigeria.”.

“Parli bene l’italiano.”.

“Si, me la cavo”, le risposi sorridendo.

“Ma adesso, dove abiti?” incalzò.

“A Veio, in provincia di Roma.”, dissi alzando gli occhi al cielo.

“È un viaggio, ma questa sera non te lo faccio fare da solo. Ti accompagno.”.

Accettai molto volentieri perché dopo l’esperienza fatta ero esausto. Mentre lei guidava mi parlava di sé e io delle mie vicissitudini. Quando arrivammo ci scambiamo i nostri numeri di telefono.

Nei giorni seguenti abbiamo iniziato chiamarci e a frequentarci e io finalmente mi sono sentito al settimo cielo. Per me Luana era l’unica cosa bella dell’Italia. Mi piaceva molto perché era intelligente e piena di brio. E sentivo di non essergli indifferente. Dopo qualche mese che ci frequentavamo, una domenica, anche per ricambiare la sua ospitalità della prima volta in cui ci siamo incontrati, la invitai a pranzo a casa mia. Quando arrivò mi vergognai un po’ delle mie condizioni abitative, ma lei sembrò muoversi a suo agio tra le pareti della mia baracca. E gradì molto il mio piatto nigeriano. Una zuppa di verdure accompagnata da vari tipi di garri e fufu che si consumano usando le mani e fanno da “pane”. Dopo aver mangiato misi la musica e ballammo al ritmo delle canzoni di Bob Marley.

Tra un passo e l’altro ci abbracciammo e ci baciammo. Dal momento che non c’erano i miei amici la condussi nella stanza e facemmo l’amore con tanta tenerezza. Quando ci lasciammo ci ripromettemmo di sentirci al più presto.

 

Invece i giorni passano e non ho più sentito Luana.

Penso che forse è molto impegnata nello studio.

Vado in un bar della mia zona per prendere un cappuccino e l’occhio mi va sulla prima pagina di un quotidiano dove c’è… la sua foto. Fatico a leggere quello che è fin troppo evidente.

“E’ morta sabato scorso, a soli venticinque anni, Luana Farza a causa di un gravissimo incidente stradale sulla via Trionfale. Domani ci saranno i funerali nella Parrocchia Santissimo Redentore a Val Melaina.”.

Non riesco a leggere oltre perché ho gli occhi pieni di lacrime. Mi sento distrutto e inizio a prendere a pugni il tavolo urlando. “No, no, non è possibile!”.

Il barista arrabbiato mi alza di peso dalla sedia e mi butta fuori dal bar. Io torno alla mia baracca e trascorro tutto il giorno a letto a piangere. L’indomani vado ai funerali. La chiesa è gremita di gente, tutti amici di Luana. Quando vedo i genitori ci abbracciamo affranti.

 

Da quel giorno la mia vita non è stata più la stessa, così ho deciso di tornare a Benin City. Quando raggiungo la mia abitazione in Nigeria, mia madre mi dice: “Allora figliolo come va la vita fuori casa?”.

“Male mamma, molto male. Poi ti racconto.”.