“Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo;
di colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose”

(Proemio dell’Epopea o ‘Canto’ di Gilgameš)

 Giunto sotto le mura il viaggiatore tirò un sospiro e si deterse la fronte: dunque era quella Uruk, la meta del suo viaggio!
Alzò il capo verso la sommità delle mura e il suo sguardo quasi si perse nel cielo, voltò il capo a destra e a sinistra e vide le pareti stendersi a perdita d’occhio, intervallate da torri di guardia da cui si alzavano fili di fumo che salivano dritti come fusi fino alla dimora degli dei.

Dunque è questa la dimora del Grande Re pensò, è qui che comincia e finisce il mondo.

Lungo la strada polverosa si muovevano carri carichi di viveri e merci guidati da contadini che sonnecchiavano al lento ritmo dei buoi, e pellegrini macilenti che si trascinavano a fatica. Gli uni e gli altri lo guardavano senza curiosità, sfiorandolo nel passaggio. Il sole infuocato splendeva ancora nel cielo, ma era prossimo a terminare la sua corsa ad occidente.

Ramsat si riscosse. Le guardie all’ingresso lo stavano guardando con malcelata diffidenza. Erano vestiti con leggere armature di pelle ricoperte sul torace da scaglie metalliche e in testa portavano un elmo piumato che arrivava a stento a coprigli le orecchie. Erano armati di giavellotti che sembravano usare più che altro come appoggio, e di corte spade che pendevano dal cinturone borchiato che stringeva le corte tuniche, da cui spuntavano robuste gambe abbronzate che terminavano in calzari militari.

Almeno quelli hanno qualcosa di marziale, si disse mentre li sorpassava entrando in città, e no, quelli non erano sguardi diffidenti ma semplicemente stanchi, stanchi di montare la guardia a quella pianura assolata di pietre e radi alberi spogli, stanchi di guardare il niente.

La città, vista dall’interno, perdeva quell’aria di imponente magnificenza che le davano la cinta di mura alta dodici piedi. Addossate alle pareti esterne, le case in legno degli artigiani formavano una barriera di operosa attività, in cui suoni ed odori rimbalzavano da una parte all’altra, confondendosi in un caos animato che aveva qualcosa di allegro. Solitamente le varie gilde si suddividevano gli spazi, formando veri e propri quartieri riservati alle corporazioni, da una parte i fabbri, dall’altra i conciatori, dall’altra ancora i sarti, ma lì sembrava che tutto fosse mischiato. Caotico, appunto.

La città però sembrava ben organizzata: le strade erano lastricate con larghi lastroni di pietra e ai bordi non scorrevano rigagnoli con le acque di scolo, segno che doveva esistere un qualche sistema di fognatura che evitava ai cittadini di camminare nella merda. Torme di ragazzini si inseguivano urlando, mentre le prostitute occhieggiavano impudiche dalle finestre, in attesa del calare del buio per iniziare la loro attività. Come fu giunto in una piazzetta, Ramsat fermò un cittadino e chiese di una locanda per la notte. Quello non sembrò stupito della richiesta, segno che i visitatori non dovevano essere rari, e gli indicò una via che si apriva sulla destra, vicino ad un truogolo. La strada era stretta e tenuta meno bene della principale, ma terminava poche decine di metri dopo davanti all’ingresso di un locale ai cui lati ardevano delle torce che sembravano attirare le falene nella penombra della sera che già stava scendendo. Come fu vicino alla porta, fece per spingere il battente di bronzo, ma questa si spalancò all’improvviso e due robusti uomini ne gettarono fuori un terzo che stramazzò nella polvere. L’uscio rimase aperto, e qualche istante dopo uno dei due lanciò in mezzo alla via uno strumento musicale, che l’uomo si affrettò a raccogliere.

«Mi pare che la serata cominci male, amico!» disse Ramsat, aiutandolo ad alzarsi.
L’altro alzò le spalle, esaminando lo strumento.
«Non sembra rotto» osservò ancora Ramsat.
«No, pare di no».

Ci furono alcuni attimi di silenzio, poi il suonatore si rivolse a cplui che lo aveva aiutato.
«Perdonami» disse, tendendo la mano «il mio nome è Niso e come vedi sono un cantore».
«Ramsat» rispose, stringendo la mano «e devo dire che la tua arte non sembra riscuotere grande successo là dentro».
«Una semplice discussione su certi conti arretrati» rispose Niso «niente a che vedere con il mio canto, che invece è molto apprezzato».

«Sarà» rise Ramsat «allora non ci sono problemi se ti invito dentro e ti offro da bere».
Niso sembrò esitare, poi si decise. Avvolse il lacero mantello che indossava sullo strumento, in modo di nasconderlo completamente.
«Sono pronto» disse.
Ramsat scuotè la testa e lo precedette all’interno.

Il locale era piccolo, con il soffitto basso e permeato da una spessa coltre di fumo in cui si confondevano gli odori della legna che ardeva nel camino con quelli della cucina.
«Una volta che sei dentro ci fai l’abitudine» disse Niso,  precedendo il suo nuovo amico e sedendosi ad un tavolo addossato ad una parete. «Il padrone è tirchio e non vuole far riparare il camino, per questo c’è tanto fumo, ma non tutto il male viene per nuocere».
«No?» domandò stupito Ramsat.
«Almeno vedo meno la sua brutta faccia» rispose Niso. «Ah, eccolo che viene!».

In effetti un uomo alto e con una enorme pancia si stava avvicinando al loro tavolo.

«Cosa ci fai ancore qui, brutto…» esordi minaccioso, guardando Niso.
«Calma, uomo» lo fermò Ramsat «è ospite mio e…» aggiunse estraendo una borsa e facendola tintinnare «io posso pagare per tutti e due».
Il locandiere cambiò immediatamente espressione.
«Ma certo, signore» disse «cosa desidera che le porti?».
Ramsat lanciò un’occhiata al lercio grembiule che indossava l’oste e si voltò verso Niso.
«Lo stufato si può mangiare» rispose questi «e il vino va giù come quello delle altre parti» rispose lui.
«Vada per lo stufato, allora», disse Ramsat «e una caraffa di vino».
Il locandiere raccolse l’ordinazione e si allontanò soddisfatto.
«Cosa c’è che non va?» chiese Ramsat, avendo intravisto una espressione preoccupata negli occhi del suo compagno.
«Io starei più attento a mostrare i tuoi soldi» rispose Niso «qui dentro è pieno di gente che non esiterebbe ad aspettarti fuori per tagliarti la gola».
«E mal gliene incoglierebbe» rise Ramsat, scostando la tunica e mostrando la spada che portava al fianco «la guerra è appunto il mio mestiere!».
«Un mercenario!» esclamò Niso, sgranando gli occhi.
«Un soldato» precisò Ramsat, «io sono solo un soldato che vuole spendere in pace la sua mercede».
«E cosa ti porta ad Uruk?».
Ramsat si appoggiò allo schienale, allungando le gambe sotto il tavolo.
«Non lo so. Non è forse Uruk il centro del mondo? Non è la dimora del Grande Re?»
«È tutte queste cose» confermò Niso, guardandosi intorno «ma non è prudente pronunciare ad alta voce il nome del Grande Re».
«Quante cose che non è prudente fare in questa bettola!» esclamò Ramsat, gioviale «fino ad un attimo fa credevo fosse piena di lupi ed ora scopro che sono invece pecore pronte a belare!».
«Scherza pure quanto vuoi, ma non dimenticare quello che ti ho detto».
«Non lo dimentico, infatti» disse Ramsat, facendosi serio «per questo mi serve qualcuno che mi possa edurre sugli usi di questa città».
«E questa persona dovrei essere io?».
«Perché no? Vuoi guadagnarti in qualche modo la cena?».
«Ecco!» sospirò Niso «lo sapevo che c’era il trucco».
«Come credi» disse Ramsat, indicando il locandiere che stava sopraggiungendo con dei piatti di metallo e un pentolino in una mano e due bicchieri e una brocca nell’altro «allora dirò al nostro amico che mi sono sbagliato e che pagherò soltanto per me».
Nico gemette e abbassò il capo, fingendo di essere disperato, ma si affrettò a cominciare lo stufato, nel timore che il suo ospite cambiasse idea.

«Egli è l’eccellente tra i re, egli è il toro che sbuffa potente,
Figlio di Lugalbanda, figlio dell’augusta giovenca Rimat-Ninsun,
Lui che aprì i passi delle montagne, lui che scavò l’Oceano,
Lui che esplorò le ragioni del mondo che cercò dappertutto l’immortalità…»

 «Be’, andiamo?» disse Niso a Ramsat, che si era fermato a guardare l’assembramento di gente intorno al banditore.
«Guardavo. Cosa sta facendo?».
«Secondo te? Sta narrando le lodi del Grande Re, è pagato per questo».
Ramsat sgranò gli occhi.
«E perché la gente lo ascolta?».
Niso ebbe un gesto di stizza: «Le donne lo ascoltano perché canta bene, gli schiavi perché nessun padrone oserebbe portarli via mentre ascoltano le lodi al Grande Re, gli uomini liberi perché non è prudente andarsene e per prendere a bastonate gli schiavi subito dopo, i ladri perché tra tanta gente hanno del lavoro da fare…».
«Balle!».
«Come sarebbe a dire?».
Ramast rise: «La verità è che siete tutti innamorati di Gilgamesh, qui ad Urik, lo si vede da ogni pietra della strada».
«Shhh! Non pronunciare il Suo nome!».
«E perché? Non mi dirai che…».

Ramsat si interruppe perché il suo amico era sparito improvvisamente. In compenso si stavano avvicinando a lui due guardie che armate sembravano avere pessime intenzioni.
«Fermo lì, straniero!» disse una delle due.
«Parli con me?» chiese Ramsat.
«Proprio con te!» sbraitò la guardia.
«Perché? Cosa ho fatto?».
«Hai osato insultare in pubblico il Grande Re».
Ramsat spalancò gli occhi: «Io? E quando mai?».
«Hai pronunciato ad alta voce il suo nome. Sei in arresto!».
«No, no e poi no» protestò «io non ho insultato proprio nessuno, ci deve essere un errore».
«Nessun errore. Se tu non sai…».
«No, siete voi che non sapete. Aspettate un attimo!» esclamò Ramsat facendo un passo indietro e portandosi fuori dal raggio d’azione delle spade sguainate dei due «se io avessi detto che Gilgamesh è un caprone che si rotola nella merda avreste ragione. E anche se avessi urlato che somiglia ad un maiale che si ingozza di ghiande avreste ragione. E anche se…».
«Adesso basta, vieni con noi!».

Nel frattempo molte delle persone che ascoltavano il banditore si erano avvicinate al terzetto, ascoltando il diverbio con discrezione, anche se qualche prudente risata cominciava a serpeggiare all’indirizzo delle guardie.

Ramsat si tirò ancora indietro.
«E se non volessi venire?» chiese.

Esasperata, la guardia che aveva parlato fino a poco prima sollevò la spada e fece per calarla sul capo dell’avversario, ma questi si spostò agilmente di lato, evitando il colpo. Furente, la guardia si avventò ancora contro di lui, ma Ramsat  mandò a vuoto l’affondo e lo sgambettò, facendolo finire nella polvere. L’altra guardia si lanciò a sua volta all’assalto, e dopo pochi istanti fece la fine del compagno.

«Vedete» disse Ramsat giocherellando con la spada che aveva estratto dal fodero «non mi serve neanche questa per battervi, ma…» e li redarguì puntandola verso i loro volti «adesso piantatela perché la prossima volta farò sul serio!».

Le due guardie guardavano con occhi di fuoco l’uomo che si prendeva così gioco di loro, e lanciavano occhiate omicide anche alla folla che non voleva perdersi lo spettacolo.
Tutti erano così impegnati che nessuno si accorse del carro che si era fermato dietro di loro finché una voce tonante non gelo il sangue di tutti.

«Cosa significa questa gazzarra? È così che il mio popolo passa il suo tempo invece di lavorare?».

Con fare ieratico, ma nello stesso tempo possente, Gilgamesh avanzava giganteggiando tra la folla che si spostava intimorita al suo passaggio. Le sue guardie del corpo, sorprese dalla mossa fulminea del loro sovrano, erano rimaste indietro e ora faticavano a farsi largo, tanto che Gilgamesh piombò sul luogo dello scontro prima di tutti e si rese immediatamente conto di quello che era successo,

«Ah, Ramsat!» esclamò, scoppiando in una fragorosa risata «vecchio bastardo figlio di una scrofa, soltanto tu potevi combinare un simile caos!».
Ramsat allargò le braccia e accennò un inchino, rimettendo la spada nel fodero : «Sono lieto di vederti vecchio mio, e ancora di più di sapere che sei in buona salute e hai fatto fortuna! Ne è passato di tempo da quando combattemmo insieme i ghals alle pendici delle montagne del cielo».

Gilgamesh si accarezzò il pizzo quadrato che gli scendeva dal mento.

«È vero, come potrei dimenticare quei giorni? Ma ora io sono il re di Uruk, l’ovile, e tutti mi portano rispetto».

Ramsat mostrò di avere capito l’antifona: «Hai ragione e mi scuso profondamente» disse, inchinandosi fino a terra «per un istante avevo dimenticato di essere di fronte  al Grande re,  il toro che sbuffa potente, Figlio di Lugalbanda, figlio dell’augusta giovenca Rimat-Ninsun, Lui che aprì i passi delle montagne, lui che scavò l’Oceano…».

Gilgamesh spazzò l’aria con un gesto della mano: «Con te non c’è proprio niente da fare!» esclamò «piantala con queste pagliacciate e dimmi perché sei venuto fin qui».
«Ma come! Ho rischiato la vita con questi tuoi prodi guerrieri» rispose Ramsat, indicando le due guardie ancora sedute nella polvere «e mi sono fatto mangiare vivo dalle pulci di una miserabile locanda e non mi offri neanche un pasto e un bagno?».
«La cosa è così grave?» chiese Gilgamesh.
Ramsat si fece serio: «Lo è. Meglio parlarne in privato».
Gilgamesh si voltò verso la scorta che era rimasta dietro di lui, pietrificata, e gli fece cenno di sgombrare la strada.

«Andiamo» disse, indicando la carrozza che spuntava oltre la folla «forse la tua idea di un bagno non è così stupida: puzzi come una capra!».

* * *

Uno shar è la città, uno shar i giardini,
uno shar le cave d’argilla;
mezzo shar il tempio di Ishtar:
per tre shar e mezzo Uruk si estende!
Chi è, tra le numerose genti,
che con lui può essere paragonato in regalità
e che come Gilgamesh può dire: “Io sono re”?

 «Certo che li hai ammaestrati bene» fece Ramsat, sbocconcellando un grappolo di uva nera.
«Sono le prerogative di chi detiene il potere» rispose Gilgamesh, osservando il vino roteare nel boccale d’argento.
«Balle! Sai meglio di me che il potere dei re è costruito sulla sabbia».
«Adesso non esagerare! Solo perché siamo amici da… quanto? vent’anni? Non puoi venire qui ad insultarmi!».
Ramsat si guardò intorno con ostentazione: «Perché? Chi c’è qui che può ascoltarci? E quindi che differenza c’è con quando ci dividevamo l’ultima fiasca d’acqua nel deserto di Turk?».
Gilgamesh rabbrividì al ricordo: «Che tempi! Ricordo ancora i granelli di sabbia che mi riempivano la bocca!».
«E gli scorpioni che uscivano la notte da sotto le pietre?».
«Forse quelli li ricordi meglio tu perché è te che hanno morso!» rise il re.
«Vedo che ti è tornato il buonumore. Non c’è niente come le disgrazie degli altri che ci fanno divertire!» sbottò Ramsat.
«Be’, vedo che sei ancora qui, quindi eri più velenoso tu di quegli scorpioni!».

I due amici risero insieme, brindando con l’aspro vino delle montagne.

«Cosa avevi di tanto importante da dirmi?» chiese Gilgamesh, fattosi improvvisamente serio.
Ramsat non si scompose, ma si scostò la veste e ne tirò fuori un rotolo di pergamena consunto dall’uso.

«Cosa è?» chiese il re, sporgendosi per vedere meglio.
«Una cosa che i tuoi araldi non cantano».
«Fammi vedere!».

Ramsat tirò indietro la mano: «No, no, non voglio che tu la strappi prima di aver finito di leggere. Stai a sentire».

E così dicendo srotolò la pergamena, mettendo un paio di passi tra sé e il re.

 Vengono angustiati i giovani di Uruk
«Gilgamesh non lascia andare il figlio da suo padre.
Giorno e notte è prepotente …
Gilgamesh non lascia andare la ragazza dal suo innamorato».

Gilgamesh alzò le spalle possenti: «Tutto qui? Puttanate!».
«Aspetta di sentire il seguito!».

Gli dei del cielo dissero: «Del signore di Uruk sono diventati avversari
la figlia del guerriero, la moglie del giovane.
I loro lamenti udirono gli dei.
Non sei tu che hai creato un toro selvaggio che incorna, o Aruru?
Non ha rivale e le sue armi sono sempre pronte;
attorno a lui sono pronti i suoi amici.
Gilgamesh non lascia andare il figlio da suo padre.
Giorno e notte è prepotente …
Egli è il pastore di Uruk, l’ovile;

 «Questa parte è più interessante, vero?» disse Ramsat strizzando l’occhio.
«Vai avanti».

il loro lamento udì più volte Anu.
Convocarono Aruru, la grande:
«Poiché tu, Aruru, lo hai creato,
crea ora la sua controparte:
possa essergli eguale nel giorno del suo ardore!
Che combattano l’uno l’altro, così che Uruk possa esere pacificata!».
Quando Aruru udì questa cosa,
l’immagine di Anu concepì nel suo cuore.
Aruru lavò le sue mani,
prese un grumo di argilla, lo gettò nella steppa.
Essa creò un uomo primordiale, Enkidu, il guerriero,
progenie del silenzio, potenza di Ninurta.
Tutto il suo corpo era coperto di peli;
i capelli erano come quelli di una donna,
il suo ciuffo cresceva abbondantemente come grano.
Non conosceva la gente e il Paese;
era vestito con una veste come quella di Shakkan.
Con le gazzelle mangia l’erba,
con gli animali selvaggi all’abbeverata si sazia,
con le bestie il suo cuore si è soddisfatto d’acqua.

 «Ti basta?».

Gilgamesh era sbiancato in volto.

«Come ti sei procurato questo canto?» chiese all’amico.
Ramsat fece un gesto vago.
«Diciamo che l’ho trovato nella biblioteca di un villaggio abbandonato».
«I villaggi non hanno biblioteche!».
«Allora forse non era un villaggio, e forse non era neanche abbandonato. Gilgamesh, io sono un guerriero, e ho il diritto di saccheggio!».

Il re si calmò.

«C’è del vero in quello scritto?».
«Sì».
«Come fai ad esserne così sicuro?».

Ramsat posò la pergamena e guardò il re fisso negli occhi.

«Perché io Enkidu ’ho visto, Gilgamesh!».