Giovanni aveva indossato la sua solita camicia a quadri, quella sul blu. La usava tutti i mercoledì in cui era impegnato con l’associazione nell’attività di volontariato all’ospedale. Quei mercoledì lo dilaniavano, gli riportavano alla mente il giorno in cui passeggiando con suo zio sul ciglio della strada, erano stati entrambi investiti. Suo zio non era morto ma non era nemmeno riuscito a proteggerlo. Giovanni zoppicava un po’ e aveva dei tic imbarazzanti. Quando arrivava all’ospedale, il mercoledì, molti infermieri gli riservavano uno sguardo pieno di pietà.
Quel giorno c’era un’aria davvero particolare in reparto e si capiva bene che non era colpa della primavera. In genere c’era quel fermento quando entrava un nuovo paziente. Magari uno che aveva bisogno di una lunga riabilitazione. Giovanni l’aveva capito subito ma cercò di non darlo a vedere, per quanto fosse possibile. Il suo occhio sinistro continuava a strizzarsi con movimenti ripetuti e involontari. Tra un battito di palpebre e l’altro vide una ragazza distesa molto carina. Non era intubata, era lei quella nuova. Aveva giusto il polso gessato e una feritina sul sopracciglio. Sembrava serena ma vicino a lei non c’era nessuno. Giovanni sentì una fitta sullo sterno. Si fece coraggio e andò verso il suo letto. Prima che potesse arrivare a destinazione, l’infermiere di turno lo salutò con una vigorosa pacca sulla spalla.
“Ciao Giovà, che si dice?”
“Ciao! È questa la ragazza nuova?”
“Bella eh?”
“No dicevo se era quella nuova, incidente stradale o in moto?”
“Mamma mia Giovà come arriva una ragazza, subito a tremila…”
“Vabbè, almeno sai come si chiama…”
“L’hanno portata venerdì sera in ambulanza. L’hanno dovuta tenere in coma due giorni. Era con lo scooter, sembra ma non portava i documenti, né i suoi né quelli del motorino. Nessuno l’ha cercata e non si riesce a capire chi sia.”
“Ma dai! Nel 2017 è ancora possibile che ci siano dei malati sconosciuti?”
“Guarda, la prima cosa che abbiamo fatto è vedere se c’aveva un cellulare, magari aveva Facebook, che ne so? Ci credi che niente… chissà dov’è volata tutta la roba che si portava dietro. Comunque adesso parla, dice qualcosa. Ripete sempre le stesse cose. Secondo me abitava vicino al posto dove l’hanno investita, magari da sola.”
“Che cosa curiosa… una ragazza così…”
“Così bella! Sì Giovà, una ragazza così bella che non viene cercata da nessuno. È incredibile no?”
Giovanni si liberò dell’infermierino e continuò il suo viaggio verso la ragazza del mistero. Le sorrise, quando era vicinissimo a lei. Le avevano fatto fare una doccia. Era pulita a profumava un po’ di ospedale e un po’ di shampoo alla camomilla.
“Ciao! Sono Giovanni, un volontario dell’Associazione… vabbè, Giovanni. Tu come di chiami? Sei nuova del reparto?”
La ragazza continuava a guardarlo con uno sguardo tenero ma non sembrava che sentisse le parole di Giovanni. Allora lui si avvicinò di più e adesso poteva sentire benissimo l’odore di camomilla provenire dai suoi capelli ricci e puliti e l’odore di ospedale che trasudava dalle lenzuola verdastre.
“Ciao sono Giovanni.”
“Occhi belli…”
“Grazie, anche tu sei molto carina, come ti chiami?”
“Occhi belli, bimba cammina. Occhi belli, belli…”
“Vuoi alzarti e camminare? Facciamo una passeggiata, ce la fai?”
“Occhi belli, bimba cammina, Occhi belli, belli…”
“Vedi? Ripete soltanto questa frase, da quattro giorni.” l’infermiere era di nuovo accanto a Giovanni.
“Hai una bambina? No non è possibile, è così giovane…”
“Se fosse stata una mamma, qualcuno l’avrebbe cercata. Poi sì, è giovane.”
“E allora?”
Giovanni provò a parlarle per un’ora, cercando di capire a chi appartenessero gli occhi belli e di chi fosse la bambina. Ormai in questi affari aveva sviluppato un sesto senso e sapeva che se avesse sciolto il rebus, avrebbe anche restituito l’identità alla ragazza misteriosa. La Riccia, così aveva deciso di chiamarla, non disse altro. Continuò a guardarlo con un occhi teneri ma non disse altro.
Giovanni tornò a casa un po’ inquieto. Raccontò tutto ai suoi genitori che provarono a sminuire l’accaduto. Ogni volta che prendeva a cuore il caso di un paziente di quel maledetto ospedale, finiva per andare in depressione. Finiva per distruggersi e morire un po’.
Il giorno dopo Giovanni indossò di nuovo la camicia a quadri dell’associazione e disse ai suoi genitori che avrebbe fatto tardi.
“Mica vai di nuovo da quella ragazza?”
“No, state tranquilli.”
“E allora perché hai messo la camicia dell’associazione?”
“Perché mi piace e poi non avevo voglia di cercarne un’altra.”
Giovanni uscì dopo aver fatto la solita colazione. Nella borsa, quella che usava per l’università, mise un quaderno da disegno e dei colori. Arrivò in ospedale appena dopo la visita del primario. I pazienti avevano fatto colazione e avevano anche fatto la prima riabilitazione. L’infermierino non c’era, per cui Giovanni tirò dritto fino al letto della Riccia.
“Buongiorno Riccia.” Lei sorrise, con il solito sguardo amorevole che tradiva se non un senso di maternità, quanto meno il desiderio di avere dei bambini. “Ti piace il nome Riccia? Sai, oggi ho portato album e colori.
Mise tutto l’occorrente per i disegni sulle gambe della Riccia.
“Occhi belli, belli” le disse.
“Bimba cammina!” ripetè la ragazza e iniziò ad applaudire. Sembrava voler festeggiare. Giovanni provò ad aiutarla a ricordare.
“Sì, che bello! Ha iniziato a camminare la bimba… e come si chiama la bimba?”
“Occhi belli belli!” fu la sola risposta della Riccia. Giovanni doveva capire di chi fosse quella bimba e di chi fossero quegli occhi. Era bravo nel disegno. Disegnò una donna che teneva le braccia di una bambina intenta a muovere i primi passi. Le mostrò il disegno ma la Riccia fece un’espressione strana. Giovanni provò a disegnare un uomo che teneva la piccola. La Riccia sembrò soddisfatta ma non disse altro.
Il giorno dopo Giovanni tornò da lei. A casa aveva fatto un disegno più grande. In evidenza c’erano gli occhi della bimba felici. La Riccia sembrava felice di vedere il suo amico pieno di tic. Prese il disegno e lo guardò. Girava in continuazione l’album. Se lo portò fin sotto il naso arricciando le sopracciglia.
“Bello disegno, occhi belli belli.”
“Ti piace il mio disegno?” la ragazza riprese a guardare l’opera di Giovanni come se stesse valutando un Picasso. Giovanni pensò che fosse straniera, perché davvero quel modo di parlare le sembrava assurdo. Purtroppo per tutto il pomeriggio, ancora una volta, a parlare fu soltanto Giovanni. Le raccontò del suo incidente e le chiede ripetutamente il suo nome. Lei però rispondeva con il sorriso: “Riccia.”
Sembrava le piacesse il gioco dei disegni e ogni giorno Giovanni si sentiva più vicino alla soluzione del mistero. Gli sembrava davvero incredibile che una ragazza così bella e profumata non la cercasse nessuno. Non un fidanzato, non un genitore, non un’amica. Fece mille pensieri e congetture sulla Riccia. Quel giorno le lasciò l’album promettendole che sarebbe tornato l’indomani.
Tornò a casa e senza cenare andò in camera sua, annotando sull’agenda i nuovi particolari. Aveva detto di apprezzare il soprannome Riccia, magari qualcun altro glielo aveva attribuito. Aveva detto che gli era piaciuto il disegno, probabilmente le ricordava un episodio piacevole. Magari aveva conservato memoria dei suoi primi passi e dimenticato tutto il resto. Non sarebbe stato facile aiutarla. Il giorno dopo Giovanni ricordò di avere l’esonero di inglese, andò all’università, cercando di sbrigarsi con quell’inutile farsa. Gli avevano detto che quell’esonero lo passavano tutti e che la parte veramente difficile era l’orale. Peccato che avessero trascurato di dirgli che era un esonero molto affollato. Quando riuscì a liberarsi dall’impiccio universitario, ormai, erano le 18 e l’orario di visita era finito. Magari c’era l’infermierino di turno e avrebbe ottenuto di entrare ma non sopportava le sue battutine a doppio senso. Decise di tornarsene a casa. Si sarebbe svegliato prestissimo per andare dalla Riccia.
Quando arrivò all’ospedale la ragazza non era nel letto. Gli si strinse il cuore. In una frazione di secondo pensò tutto: che l’avessero dimessa, che fosse peggiorata, che qualcuno l’avesse cercata e che non avesse più l’opportunità di vederla. Doveva essere felice, invece era rattristato per non aver salutato la Riccia. Andò a controllare il suo letto. Era rifatto alla perfezione però notò subito che nei cassetti di lato c’erano i colori e l’album da disegno. Era stata proprio una cattiveria quella di non farle portare nemmeno queste poche cose. Pensò a come l’avrebbero vestita per le dimissioni. Sperò ci fosse l’infermierino per scucirgli qualche informazione indiscreta. Allora gli venne voglia di riprendersi tutto.
Raccolse i colori e poi l’album. C’erano dei fogli staccati e poi infilati dentro l’album. La curiosità era troppa per aspettare di arrivare a casa. Allora si sedette sul letto della Riccia. Aprì l’album e vide che anche la Riccia si era messa a disegnare. Aveva ritratto un uomo, molto più anziano di quello che aveva fatto lui, che teneva una bambina per la mano. Il nonno, ormai era chiaro che fosse il nonno, passeggiava con una bambina, la nipotina, su un viale pieno di oleandri e papaveri. Quei fiori rossi potevano essere soltanto papaveri. Sugli oleandri aveva dei dubbi. Non era un esperto di botanica. Tra l’altro in città di quegli arbusti lì non se ne vedevano molti. Provò a fare mente locale ma rinunciò immediatamente. Forse era soltanto un ricordo della gioventù della Riccia in chissà quale città d’Italia, in chissà quale parte del mondo. Che poi a pensarci bene, la ragazza aveva dei tratti somatici molto particolari. Sembrava una ragazza dell’est, anche se non era affatto bionda.
Sfogliò ancora l’album e vide qualcosa come trenta o quaranta occhi disegnati. Tutti diversi, tutti grandi. Ogni occhio aveva un’espressione felice. Uno solo degli occhi aveva le pupille colorate di azzurro e verde. In tutti gli altri si capiva che erano occhi chiari. C’erano delle rughe intorno.
Stava andando via, non poteva conoscere altro di quella donna misteriosa. Corse a casa e si rinchiuse davanti al computer. Era sicuro che l’infermierino gli avesse detto che la Riccia era arrivata in ospedale venerdì. Allora cercò nei quartieri vicino all’ospedale delle notizie che riguardavano un incidente nel quale fosse coinvolta una donna. Ci volle un po’ ma la notizia venne fuori. L’incidente era avvenuto all’angolo tra la via Danimarca e via Gran Bretagna. Scese in fretta e chiamò un taxi. Si fece portare sul posto dell’incidente. Non c’erano bar, era un incrocio nel nulla. Anche piuttosto brutto. Pagò il taxi e si guardò intorno.
Iniziò a passeggiare sul ciglio della strada e sentì una fitta al cuore. Davanti a lui vide un uomo anziano con una bambina per mano. Gli sembrò che la piccola lasciasse all’improvviso la mano del nonno per camminare da sola. Sentì le sue gambe irrigidirsi e bloccarsi. Poi iniziò a correre e più correva più gli sembrava di avvicinarsi ad una frenata sull’asfalto. Per un attimo morì. Poi inciampò. Non passava nessuno. Si rialzò e toccandosi con la mano l’angolo della bocca, capì che sanguinava. Guardò l’incrocio. Il nonno con la piccola non c’erano più. Si voltò a destra e poi a sinistra. Fece un giro di trecentosessanta gradi con gli occhi fuori dalle orbite. Non era sicuro di essere arrivato nel posto giusto. Non era sicuro che la Riccia fosse stata lì. Oltre l’incrocio, più avanti, vide una svolta stretta verso una strada sterrata. Una strada che iniziava sterrata ma era asfaltata per il resto. Lo spartitraffico era pieno di oleandri e tra gli arbusti potati crescevano una miriade di papaveri.
Guardò il viale e in lontananza vide di nuovo il nonno con la sua piccola. Come avevano fatto ad arrivare fin là? Possibile che non si fossero accorti che Giovanni li stava seguendo? Ricominciò a correre. Stavolta sperava davvero di raggiungerli prima che sparissero di nuovo. Mentre correva si chiedeva quanto tempo fosse rimasto a terra prima. E quanto tempo aveva dovuto aspettare la Riccia per essere soccorsa in quella landa desolata? Il nonno, ne era certo, sapeva chi fosse la ragazza misteriosa. Corse fino all’incrocio. Sentì sotto i suoi piedi il terriccio e vide il nonno girarsi. Riconobbe quello sguardo, era identico al disegno che aveva fatto la Riccia. Aveva gli occhi azzurri e teneri. Inciampò correndo sull’asfalto. Quella dannata gamba resa più corta dall’incidente! Era il suo punto debole. Stavolta si era sbucciato un ginocchio. Si pulì della polvere e alzò lo sguardo verso il vecchio. Possibile che non si fosse accorto che lo stava inseguendo? Lo vide entrare in un cortile, preceduto dalla piccola. Provò a raggiungerli ma gli sembrò di avere davanti tutti cortili uguali di palazzi gemelli. Era tardi, magari sarebbe dovuto tornare il giorno dopo.
Si alzò prestissimo, aveva riposato male: gli faceva male il ginocchio e quella ferita sul labbro gli tirava parecchio. Indossò la camicia azzurra e provo a passare all’ospedale. L’infermierino la salutò e notando che zoppicava più del solito, s’informò dei suoi acciacchi. Giovanni non riuscì a portare il discorso fino alla Riccia e così la prese alla larga.
“Ma secondo te posso essere utile nel reparto di riabilitazione?”
“Dì un po’, ti sarai mica innamorato della Riccia?”
“La Riccia? Perché non l’hanno dimessa? Quando ero venuto ieri, non c’era.” Lo disse tutto d’un fiato, forse un po’ troppo veloce.
“Macché dimessa. Non si sa ancora chi sia. Assurdo come nessuno l’abbia cercata. Posso capire che non avesse un fidanzato ma che non avesse nemmeno un’amica mi sembra assurdo.”
L’infermierino continuò con una serie di frasi fatte fino a che qualcuno lo chiamò, liberando Giovanni. Respirò a fondo, distese le spalle contratte e scese in riabilitazione. Andò nel reparto femminile. In servizio c’erano soltanto medici che non conosceva e che sembravano non conoscere nemmeno la sua associazione. Per fortuna vide in lontananza la ragazza. Stava camminando piano e teneva per mano un medico canuto. Ebbe una fitta allo sterno e sussurrò strozzato:
“Riccia…”
La ragazza si girò e sembrò molto felice di vederlo. Sembrava avesse fatto degli enormi progressi. Giovanni gli raccontò tutto quello che aveva visto all’incrocio. Provò a chiederle se abitava lì o se quei posti le risultassero famigliari. Le disse anche che nel pomeriggio ci sarebbe andato di nuovo. La Riccia sembrava affascinata, lo fece parlare, ascoltava quei racconti in silenzio. Vide che Giovanni aveva l’album e lo prese con un po’ di insolenza e intraprendenza. Giovanni fu sorpreso ma la lasciò fare. La Riccia iniziò a disegnare e poi disse piano, staccando una parola dall’altra:
“Il nonno di Silvia era felice perché la bimba aveva iniziato a camminare. Mi ha guardato. Piangeva con gli occhi belli.”
Giovanni rimase a bocca aperta. Era stato soltanto due giorni lontano dalla ragazza misteriosa e la ritrovata quasi guarita.
“E tu ti ricordi come ti chiami?”
“Piangeva perché Silvia ha iniziato a camminare.”
Giovanni la lasciò disegnare. Non si dissero altro. Era mezzogiorno quando andò via. Chiamò un taxi per tornare dove il giorno prima aveva visto il nonno con la bambina. Suonò a tutti i campanelli chiedendo di una bambina di nome Silvia e di suo nonno. Nessuno sembrava conoscerli. Aveva battuto tutto il quartiere. Ormai i palazzi gli sembrano uguali. Tutti i campanelli sembravano restituire la stessa voce storpiata. Non era più sicuro di aver seguito la pista giusta. Il quartiere era anonimo. Si ricordò dei papaveri. Cercò di capire se fossero anche altrove. C’era un vicolo cieco in fondo alla strada degli oleandri. Era sicuro che gli rimaneva da controllare soltanto quel gruppo di case.
Fu preso da un’altra fitta allo sterno. Dovette fermarsi, respirare e sedere. Bevve dell’acqua tiepida e si sciacquò i capelli con una mano inumidita. Arrivò in fondo alla strada. Si sentiva soffocare dall’ansia. Iniziò a suonare ad ogni campanello. Non gli rispondeva nessuno. Iniziò a sbattere i pugni contro il citofono condominiale. Si sentì preso per le spalle. Qualcuno lo scaraventò indietro. Giovanni si chiuse a riccio, accovacciandosi a terra. Sentì forti i calci nelle costole e i pugni sulla testa. Urlò, pianse mentre i suoi aggressori ripetevano che era per quello che aveva fatto a Lucia. Si alzò senza sapere che ora fosse, soltanto quando fu certo che se ne erano andati. Era tumefatto. Si trascinò fino allo zaino. Voleva chiamare casa. Vide tutti i disegni strappati e una scritta rossa: Sei un cazzo di pirata. Aveva gli occhi chiusi dalle botte e dalle lacrime. Chiamò un taxi e si fece portare in ospedale. Al pronto soccorso c’era l’infermierino. Lo medicarono, gli misero tre punti sul sopracciglio. Per fortuna aveva una pellaccia: nessuna costola rotta e nessuna emorragia. Poteva andarsene.
“Ragazzo, te la sei vista brutta!” Giovanni non rispose. Non riusciva nemmeno a muoversi.
“Ah, la Riccia è andata via oggi… finalmente sono venuti a cercarla. Avevano i suoi documenti. Mi pare si chiamasse Lucilla o Ludmilla.”
“Lucia…”