Si è fatto tardi e a quest’ora mi si smuove un doloroso appetito. Come al solito in casa non ho niente (d’altronde sarebbe troppo complicato) e dovrò uscire per procurami la cena.
Parcheggio affianco alla tangenziale, scendo dall’auto e per un attimo mi scorgo nel vetro del finestrino: pallido, sofferente, solo… Accompagnato dal malessere tipico di queste mie dannate crisi mi incammino verso il viale centrale. Qui incrocio anime e pensieri che dovrebbero distrarmi: tre donne con le buste della spesa, una coppia che fuma davanti a una gelateria, un nonnetto che si fa portare a spasso dal suo cane. Le vetrine illuminate occhieggiano e incantano e il viavai tranquillo delle auto mi trasmette un’atmosfera di pace che non vorrei turbare, Dio sa che non lo vorrei; così mi sale su l’angoscia.
Affamato inizio ad annusare il percorso e mi inebrio degli effluvi delle serate d’estate, con gli ormoni giovanili che profumano magliette e canotte. Ogni persona ha il suo odore, ogni categoria, ogni età e io li riconosco anche chiudendo gli occhi, e passo tra di loro come un fantasma, come un’ombra. Mi trascino con il mio tormento e con la fame, la fame…
Da un vicolo sento vociare, faccio un passo indietro e butto lo sguardo nella penombra: tre giovanotti hanno bloccato una tizia con la schiena alla saracinesca chiusa di un locale. Ridacchiano, bulleggiano e sento l’odore della paura che avvolge la vittima. È un odore forte e muschiato, misto al suo sudore adolescente e caldo. Mi avvicino e sento i battiti dei loro cuori eccitati e la vena del collo della giovane che pulsa e mi invita.
Due di loro mi affrontano a muso duro mentre il terzo la tiene stretta per un braccio, non la vedo in volto ma la sento gridare. Allora digrigno i denti, come solo io so fare e puff, i due già sono fuori portata, il terzo si gira, mi guarda (probabilmente mi classifica come un povero tossico, scialbo e innocuo) poi vede i compari correre e ci ripensa, così li insegue senza un fiato. Lei mi punta in faccia due occhi teneri che mi trafiggono.
«Ti hanno fatto del male?»
È confusa, mi scruta ancora tesa come la corda di un violino, fa cenno di no con la testa mentre si massaggia il polso.
«Andiamo via da qui, ti accompagno.»
«Grazie, io… non vorrei…»
Basterebbe poco adesso, così poco, se solo abbassasse lo sguardo; maledirei poi il cielo per la mia condanna, per la mia fame atavica.
«Tranquilla, in questi casi è meglio camminare dove c’è gente. Vuoi denunciare l’aggressione alla polizia?»
«No, non fa niente. Io qui ci vengo di rado e non li conosco. Gli avevo soltanto chiesto una sigaretta.»
Cammina al mio fianco con il respiro che si fa regolare, come una melodia, e il cuore che non scalpita più.
«Possibile che ogni volta che mi muovo da sola corro il rischio di incontrare qualche pazzo?» fa lei.
«Il mondo è pieno di pazzi» rispondo «Forse bisognerebbe evitare i vicoli bui.»
Mi guarda ancora e accenna un sorriso. Ha labbra rosate e carnose, la pelle liscia sotto il vestitino, che è attillato e segue le curve del corpo, e si muove con loro in un ondeggiare sensuale e profumato. Allora alzo gli occhi al cielo perché prorompe di nuovo quell’odore che emana il suo collo bianco, che mi invita a…
«Ecco, mia zia abita qui, sono arrivata. Sei stato gentile, davvero.»
«Figurati» e si infila in un portone.
Resto lì come un fesso, impalato, a guardare l’uscio chiudersi, a sentire il suo aroma svanire via.

 

Il cameriere si avvicina al mio tavolo.
Finalmente sono rilassato, l’ambiente mi accoglie sempre bene, mi fa sentire così umano e… anche per questa sera non soffrirò di sensi di colpa.
«Ha scelto signore?»
«Il solito, andrà bene.»
«Chianina?»
«Al sangue, grazie.»