«Me l’ero trovato davanti al supermercato, due persone prima di me. Allora non ci avevo fatto caso, era una persona normalissima. Sembrava una persona normale. Troppo normale, adesso che ci penso, avete presente un tipo senza caratteri distintivi? Altezza media, capelli castani, un po’ stempiato. Pelle chiara, naso nella norma… una persona che se la incontri te la dimentichi subito, eppure lui non l’avevo dimenticato. Per niente: era troppo normale, quindi era strano. Non l’ho guardato negli occhi, ma sono sicuro che anche quelli li aveva del tipo più comune, castani, e lo sguardo, indecifrabile.
Comunque il tizio ha pagato, ha preso la sua roba e se ne è andato. La cassiera non gli ha neanche chiesto se voleva i bollini premio, o se comprava un gratta e vinci: non è strano anche questo?
L’ho rivisto alla partita, due giorni dopo. Due persone che s’incontrano in mezzo a quarantamila, normale, vero? Era lì, ma non faceva il tifo per la nostra squadra. Cioè, si alzava in piedi e gridava, ma quando lo facevano gli altri, mai che orendesse un’iniziativa. E mi guardava. Ogni tanto, quando pensava che io non lo vedessi.
La terza volta è stata al lavoro. Come le ho spiegato io faccio l’impiegato in una grande ditta, sì, l’INPS, gliel’avevo già detto. Lì passa un mucchio di gente che viene a fare pratiche o a chiedere informazioni, ma nella parte riservata al pubblico. Lui invece l’ho visto che saliva lo scalone, tranquillo, e nessuno lo notava, nonostante fosse l’unico senza cartellino. Quell’uomo passa inosservato, glielo giuro, signor ispettore.»
Noto che l’ispettore dall’altra parte della scrivania è imbarazzato.
«Quell’uomo è pericoloso!» rincaro la dose «sono certo che vuole qualcosa da me. Vuole farmi del male!».
Adesso l’ispettore ha un moto d’impazienza.
«Ma cosa vuole che faccia, signor…Marini» dice, sbirciando la firma in calce alla mia denuncia «quell’uomo non le ha fatto niente, vi siete solo incontrati per caso qualche volta…».
«Per caso?» mi alzo in piedi e mi sporgo verso di lui.
Si irrigidisce.
«Stia calmo, signor Marini!» mi dice, e nel suo tono vedo una minaccia.
Mi tiro indietro.
«Sì, mi scusi, è che sono tanto nervoso che non riesco a controllarmi. Mi perdoni».
«Non c’è problema, ma si sieda. Come le dicevo, signor Marini, noi non possiamo fare niente se non c’è un reato o il chiaro indizio che stia per essere commesso».
«Ma allora devo aspettare che mi ammazzi e poi venire a denunciarlo? E chi mi protegge?».
«Signor Marini, nessuno la minaccia!».
«Questo lo dice lei!».
«Lo dico io e lo dicono i fatti. Quando mi porterà qualcosa di concreto vedremo come agire, ma per ora…».
È un commiato. Non mi alzo, ma lui fa un cenno al piantone che introduce un’altra persona. Rimangono lì in piedi qualche istante, poi mi decido ad andarmene.

Scendo le scale della caserma e per un attimo lo vedo passare in auto. È solo un flash ma è chiarissimo: mi ha guardato e ha sorriso.

Il dottore mi ha dato due settimane di mutua: sindrome depressiva ansiosa. Non me la sentivo di andare a lavorare, avevo paura di incontrarlo ancora, ma mi rendo conto che così è ancora peggio: non so dove andare, ho terrore di tutto e mi tappo in casa a guardare la televisione. Mi aspetto di vederlo anche lì, ma per fortuna non compare. Almeno, per ora.
Vorrei rientrare al lavoro, ma mi rendo conto che dopo due giorni di malattia sarei ridicolo. Almeno venisse il medico di controllo, avrei qualcuno con cui parlare. Ma io sono uno a cui è sempre piaciuto stare da solo, non ho amici con cui mi frequento, a cui raccontare questa storia.
Cosa posso fare? Stordirmi, che altro? Comincio a prendere delle pastiglie, Lexotan, Flunox per dormire, Mutabon forte. Dormo, quasi sempre. Ogni tanto mi sveglio per mangiare, andare al cesso e farmi una doccia. Mi trascino per casa come uno zombie, ma almeno adesso non ho più paura, sento che ogni cosa mi scivola addosso, mi sembra di camminare sospeso su una nuvola.

Dopo le due settimane sono quasi a posto. Certo, continuo con le medicine, tre Lexotan al giorno e un Flunox la sera, altrimenti ho gli occhi che paiono due fanali, ma in compenso le mie paure sono passate. Che stupido sono stato! Mi devo essere sognato tutto, un’autentica mania di persecuzione. Lo credo che quel povero ispettore… Ripenso alla scena e mi vergogno, ma sono consapevole che non c’ero con la testa, doveva averlo capito anche lui.

Decido di uscire, ma prima mi preparo. Faccio un doccia, la barba che è cresciuta all’inverosimile, mi metto una camicia e un paio di pantaloni puliti. Fuori c’è un bel sole, la temperatura deve essere mite. Esco e quasi saluto la mia coinquilina del piano di sotto. Quasi, non prendo abbastanza medicina da farmela apparire meno stronza, ma almeno non mi viene la tentazione di farla ruzzolare dalle scale come al solito. Arrivato nell’androne apro il portone e sento l’aria fresca sul viso. Finalmente! Sono cosciente di non essere perfettamente sveglio, per cui lascio stare il motorino in garage e prendo l’autobus per andare in centro. Lo so che proprio oggi, l’ultimo giorno, arriverà il medico di controllo, ma a fanculo pure lui! Rido tra me. Quasi.
Scendo dal bus in centro, attraverso la piazza e mi godo il passaggio della gente indaffarata. Bello essere liberi. Mi siedo sul bordo della fontana e osservo. È quasi ora di pranzo, anzi, decisamente lo è. Vedo le segretarie uscire dagli uffici, in tiro: tacchi alti e calze velate. Minigonne, quelle che sanno di potersele permettere e anche quelle che non potrebbero farlo ma lo fanno lo stesso. Scuoto la testa. Poi vedo delle ragazzine passare, le gambe nude sotto i grembiuli, e sento qualcosa muoversi dentro di me…

«Posso?».
Mi volto di scatto.
È lui, l’uomo che mi perseguita. Di colpo sento ritornare il terrore, ma è filtrato, tenuto a bada dalle medicine. Non rispondo. Lui si siede vicino a me. Gli spruzzi della fontana, portati dal vento, ogni tanto giungono fino a noi.
Faccio per alzarmi, ma non ci riesco.
«Chi è lei?» chiedo «Da dove esce? Cosa vuole da me?».
Lui alza una mano, come per fermarmi.
«Quante domande!».
«Senta, io non voglio parlare con lei! Non…».
Scrolla la testa.
«Temo che dovrà farlo, invece. Sono venuto da molto lontano proprio per questo».
Non capisco, forse sono le medicine, ma tutto mi sfugge.
«Da molto lontano?» ripeto.
«In un certo modo sì, e dovevo incontrare proprio lei».
«Io?».
«Credo che dovrò cominciare dall’inizio» sospira.
«Sarà meglio» trovo la forza di rispondere.
«Bene, diciamo che io non sono di questo mondo, non proprio».
«Cosa è? Un extraterrestre? Un angelo?» chiedo, ironico.
«No, no, sono umano proprio come lei!» si schernisce «solo che vengo dal futuro».

Lo squadro: non ha proprio l’aria del viaggiatore temporale. Lui capisce e sorride, questa volta sul serio.
«Capirà che venendo nel passato dobbiamo cercare di non farci notare» dice «ecco perché ho questo aspetto dimesso».
«Non è questo il suo vero aspetto?».
«No, ma non mi chieda di mostrarglielo, siamo in mezzo alla gente. La prego di credermi sulla parola, avrò modo di dimostrarle che dico la verità».
Alzo le spalle.
«Guardi» gli confesso «lei è riuscito a terrorizzarmi per quasi un mese, proprio per la sua aria indefinibile. Adesso mi rendo conto che è solo un povero squilibrato. Mi lasci andare e non chiamerò la polizia».
«Purtroppo questo non è possibile» mi risponde, con l’aria quasi contrita.
«E perché no?».
«Perché lei non riesce a muoversi, non lo vede?».
Ha ragione, e sento un rivolo di sudore freddo colarmi lungo la schiena. Ho in bocca un sapore cattivo, non so se siano le medicine o la paura.

Quest’uomo tranquillo mi terrorizza. Mi osserva quieto e sembra avere tutto il tempo del mondo, mentre la gente attorno a noi ci sfiora inconsapevole. Non riesco a capire cosa voglia da me, ma è facile intuire che nelle sue intenzioni non c’é niente di buono. Ho paura a chiederglielo, prendo tempo.
«Quindi lei è venuto dal futuro come Michael J. Fox?» chiedo. Lo vedo interdetto.
«Ritorno al futuro, quel film…».
Resta un attimo in silenzio, poi sorride. Quasi.
«Ha consultato un database!» lo accuso.
«Lei è sveglio. Sì. Non ho mai visto quesi film ma ho capito di cosa si trata. E no, non è possibile andare avanti e indietro nel tempo».
«Ma allora cosa…?».
«Non è possibile viaggiare nel tempo fisicamente. È solo la configurazione energetica che viaggia. Questo lo sapevate anche voi».
Scuoto la testa.
«No, guardi che noi proprio…».
«Ma sì, l’entanglement quantistico! Cosa credevate che fosse?».
Non ribatto, giocherei fuori campo.
«Quindi lei è… una specie di fantasma?».
«No, no, non ha capito! Io vengo dal futuro, lo spirito, diciamo, mentre il mio corpo è stato creato qui e fatto crescere artificialmente. Poi il mio schema mentale ne ha preso possesso. Semplice, no?».
«Se lo dice lei. Immagino che ci sarà voluto un sacco di tempo».
«Un po’ sì» ammette. «Per costruire un corpo in età adulta una vasca di clonazione ci mette circa un anno. Bisogna programmare in anticipo».
Mentalmente mi dico che questo è proprio pazzo, Se non fosse pericoloso e non mi tenesse blòoccato in chissà quale modo ci sarebbe da ridere, ma così non trovo più le parole.
«Ha altre domande?» mi chiede «No? Immagino che fatichi a realizzare la situazione, succede sempre così, è normale. Immagino si chiederà cosa sono venuto a fare qui».
Lo guardo senza parlare, ma la mia espressione è già una risposta.
«Sono venuto per fermarla» dice, con la massima tranquillità.
«Fermarmi? Ma cosa ho fatto che devo essere fermato?».
«Non cosa ha fatto, cosa farà».
Davvero non capisco.
«E cosa farei? Come fa a sapere cosa farò in futuro?».
«Dimentica che io vengo proprio da lì. Tutto quello che succede è registrato – bé, quasi tutto – e noi sappiamo quello che lei farà nei prossimi anni».
«Non mi ha risposto» lo interrompo.
«Ci stavo arivando» fa lui con pazienza. «Lei, signor Marini, è un pedofilo…».
A questo punto mi inalbero.
«Pedofilo io? Ma come si permette? Io non ho mai…».
«Si calmi, la prego. Sì, tecnicamente ha ragione lei: non ha mai fatto nulla, quindi non la si può accusare di niente, ma lei è malato e lo sa, o perlomeno lo intuisce».
«Malato? Io…».
«Psicologicamente disturbato, se preferisce. Ho visto come guardava quelle ragazzine che passavano e…».
«Adesso non mi dica che legge nel pensiero!».
«No, no, ma le assicuro che conoscendo quello che farà non era davvero difficile capire cosa doveva pensare».
«Io non pensavo proprio niente!» grido.
«Lei sta cercando di nascondersi quello che sente dentro, ma non è colpa sua» mi dice, come per tranquillizzarmi, «probabilmente ha alle spalle una storia di violenza infantile o qualcosa del genere, non siamo riusciti ad arrivarci, altrimenti non sarei qui da lei».
Rabbrividisco. A volte sento un qualcosa stringermi la gola, un fantasma che ho rimosso, non so. Forse si riferisce proprio a questo?
«Vedo che comincia a capire» mi dice, paziente.
«Ma cosa c’entra questo con quello che dovrei fare?».
«Quello che farà» puntualizza «se non la fermo ovviamente, ma sono qui proprio per questo».
Fermarmi! Ma questo vuole dire…
«Lei mi vuole uccidere!» lo accuso, inorridito. Adesso sono veramente arrivato al punto.
Lui allarga le palme delle mani, come a dire: hai capito, finalmente.

Vedo girare la piazza intorno a me. I palazzi, la fontana, la gente che cammina, le macchine, tutto. Non è possibile che davvero la mia vita stia per finire! E perché, poi?
«Adesso lei si starà chiedendo perché» fa lui. «In realtà è semplice: nei prossimi anni, non sappiamo per quale motivo, lei vincerà la resistenza che la blocca, impedendole di portare alla luce della sua coscienza i suoi desideri repressi. Compirà una serie di aggressioni sessuali, una lunga serie prima di essere scoperto…».
«Ma io non sono un mostro!» protesto, quasi piangendo.
«Lei è un uomo malato, ma non ucciderà nessuno, stia tranquillo. Però le sue azioni provocheranno traumi profondi nelle bambine che aggredirà, le quali a loro volta avranno nella maggior parte dei casi una sessualità disturbata che le porterà a ricreare situazioni analoghe all’interno delle proprie famiglie. Un virus che si diffonde, capisce?».
«Se è un virus, è vecchio come il mondo!».
«Sì, è vecchio come il mondo. Per questo noi cerchiamo di rimediare nell’unico modo possibile: fermando i vettori della malattia».
«Ma non è possibile!» lo prendo per il bavero della giacca. Lui non reagisce.
«Se sono malato, mi curi!»,
«Le assicuro che se fosse possibile l’avremmo fatto» mi dice, e so dice la verità.
«Allora…».
«Mi dispiace, signor Marini».
«Intende uccidermi adesso? E come?».
«Sicuro di volerlo sapere? In fondo nessuno sa quando e come morirà, eppure la morte è l’unica certezza della vita. Per tutti».
«Me lo dica! Un incidente? Uno sconosciuto che mi sparerà in una strada buia?».
Lui alza le spalle.
«Come preferisce. Niente di così drammatico e doloroso: un semplice aneurisma».
Fa il gesto di uno che soffia via i petali da un fiore.

Faccio per alzarmi, inorridito, e mi rendo conto che ci riesco. Indietreggio di un paio di passi e di colpo mi ritrovo immerso nel flusso della gente, mentre lui è rimasto là, seduto sul bordo della fontana, grigio su grigio. Mi volto e cammino lungo la via in discesa che mi porta verso il mare. Vorrei correre ma riesco a mantenermi abbastanza calmo da evitare. Chissà perché mi viene il pensiero che se corressi lui mi inseguirebbe, come farebbe un cane feroce. Dopo qualche minuto mi volto, ma lui non c’è. Né dietro né davanti. Da nessuno parte. Respiro affanosamente. Mi devo essere sognato tutto, sono diventatato paranoico. O forse sono le medicine, che mi hanno provocato una allucinazione.
Lentamente il cuore ritorna ad un battito normale. Continuo a camminare, attraverso un’altra piazza dove vedo anziani seduti su panchine verdi, sotto l’ombra dei platani. Più in là delle bambine giocano lanciandosi una palla… Mio dio!
Mi volto ancora. Nessuno alle mie spalle. Nessuno davanti.
Poi tutto diventa nero.