Il potente rombo della moto rimbalzò sui muri del vicolo, facendole sobbalzare il cuore come ogni volta che lo udiva.

No, non s’era ancora abituata e forse non ci sarebbe mai riuscita.

Tra poco suo padre sarebbe stato lì e la consueta scena si sarebbe probabilmente ripetuta tra urla e mani alzate a colpire.

La voce stridula, strozzata della madre si sarebbe mescolata a quella cupa ed impastata del padre in un crescendo sonoro che le incuteva così paura da sembrare non finire mai.

No, non erano quelli i volti di mamma e papà.

Quegli occhi dilatati, i visi aggrottati e quel gesticolare convulso sembravano generare un turbine, una tempesta tutt’intorno… no, non erano quelli, non li riconosceva.

Aspettava il silenzio pesante che sarebbe seguito e le bugie consolatorie di sua madre che, nonostante tutto, le avrebbe sorriso nascondendo le lacrime dicendole che non era stato niente, che era tutto passato.

Le faceva tenerezza quella mamma bugiarda dagli occhi lucidi e dalle guance arrossate perciò faceva finta di crederle, per non darle altro dolore.

Lei, Caterina, proprio non riusciva a capire perché facessero così ed avrebbe desiderato individuarne il motivo, trovare un colpevole, qualcuno da odiare.

Perché solo così non avrebbe più avuto il suo cuore diviso a metà.

Quel cuore che ogni volta sentiva bruciare dal dolore quando veniva spedita in cameretta e si infilava sotto il letto con le mani premute sulle orecchie per non ascoltare.

E pensava, ripetendolo come un mantra :«Gesù… Gesù, non mangerò più le caramelle ma falli finire».

Oppure: «Giuro che farò la buona e sarò ubbidiente così non darò più modo a nessuno di arrabbiarsi».

S’era infatti convinta di essere lei la colpevole di tutto ciò che avveniva, delle urla, dei segni sul volto della mamma, della puzza di alcool del babbo, delle sue brutte parole e di quelle orrende bestemmie.

Doveva essere così; perché sennò ogni volta la cacciavano via?

E poi… quella volta che aveva udito la mamma confidare alla nonna:

«Non ce la faccio più. Se non fosse per Caterina, per non toglierle il padre a cui è tanto affezionata, farei le valigie oggi stesso e me ne andrei».

Quelle parole l’avevano trafitta, caricata d’un peso morale troppo grande per le sue gracili spalle.

Quindi era tutta sua la colpa!

Già! Se non fosse esistita, la mamma non avrebbe dovuto sopportare quelle sfuriate, si sarebbe finalmente liberata invece di essere costretta a restare lì per lei.

E forse il babbo non si sarebbe arrabbiato più.

Ecco, doveva stare attenta, essere rispettosa, studiosa, muoversi come un’ombra in casa, non creare motivo di discussione, in altre parole: sparire.

Doveva, poi, rispondere in modo soddisfacente a tutte le loro aspettative; lo sentiva come un obbligo morale, era il prezzo da pagare per la sua colpa di esistere.

Caterina deve essere brava a scuola? E allora Caterina studierà tanto.

Caterina deve essere ordinata? E allora Caterina riordinerà a perfezione la sua cameretta.

Certo, loro erano soddisfatti ed orgogliosi di lei ma lei, anziché esserne rassicurata, sentiva addosso tutta l’angoscia di dover mantenere quella stima sennò si sarebbero di nuovo arrabbiati ed avrebbero ricominciato a litigare tra loro.

Ad un certo punto, strane e pericolose idee avevano iniziato a frullarle in testa, tipo:

« Gesù ha versato il suo sangue in redenzione del mondo quindi se ne versassi anche solo una goccia del mio, potrei forse aggiustare le cose tra il babbo e la mamma…».

E così ci provò una volta, una sola, perché istintivamente capì che stava cadendo in un baratro, un buco nero che l’avrebbe inghiottita.

Allora ripiegò su mortificazioni più leggere, sui cosiddetti fioretti ma essi diventarono talmente tanti che la sua esistenza alla fine si trasformò in un triste e deprimente prato fiorito di piccole rinunce.

Si sentiva già vecchia ad otto anni, spenta, e ciò si rifletteva anche nei suoi rapporti con le amiche in quanto non riusciva a sciogliere i suoi nodi dentro ed a partecipare ai loro giochi con quella leggerezza, fantasia e quel pizzico d’incoscienza tipici della sua età.

La trovavano noiosa e pesante, quindi poco gradita, e questo suo sentirsi diversa, estranea, la spingeva di nuovo a rintanarsi in casa tra le sue angosce irrisolte.

Quella sera, però, dopo il rombo della moto nel vicolo, il babbo entrò in casa senza sbraitare e stranamente non puzzava di alcool, non prese a brutte parole la mamma.

Anzi, fu gentilissimo; aveva addirittura comperata un’ enorme vaschetta di gelato di cui lei ricevette una doppia porzione.

Cenarono tranquillamente, raccontarono ciascuno la propria giornata, commentarono ed addirittura risero di un tipo che faceva lo scemo in tv.

Caterina si sentiva leggera come mai le era accaduto, il suo cuore era unito, non era più spezzato a metà.

Silenziosa come sempre , osservava com’erano belli adesso i suoi genitori mentre qualcosa dentro, qualcosa di caldo stemperava piano, piano le sue ferite fino a non sentirle più.

Sì, era felice.

Chiuse gli occhi un attimo.

Voleva fissare bene nella mente quel magico ed inaspettato momento, assaporarlo fino in fondo.

Un fotogramma piccolo, piccolo, da serbare gelosamente come testimonianza che il sole esiste sempre nonostante tutto, anche dietro al peggior temporale.

Ma quella sera passò e passarono gli anni.

Quella figura di padre torreggiò a lungo sulla sua vita, lo vide riflesso in tanti spacconi che le si accostavano.

E scappava, si turava le orecchie, negava alle sue pulsioni l’abbandono e al suo corpo di farsi dono.

Ancora una fuga e poi un’altra e un’altra ancora finché non arrivò il giorno in cui dentro di sé ‘uccise’ suo padre ed iniziò a vivere, a perdonarsi per quel che di grande o di piccolo era, a volersi bene.

Ed oggi, ormai adulta, oggi che la sua infanzia è una lontana memoria nascosta tra dolenti cicatrici dell’anima, quell’unico piccolo frammento di luce in quella sera lontana seguita a risplendere e a riscaldarla ancora.

Sa che è lì, dietro a ogni temporale.

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