Il porto di Livorno è silenzioso stasera, il mare calmo. Luci fredde si specchiano sulle acque oleose, un traghetto è fermo vicino al molo.
«Proprio come quella sera», mi dice.
Io la guardo impacciato, senza sapere cosa fare.
«Oh, Miran» mi fa, con il suo leggero accento romano «non è che ti ho portato qui per fare delle riprese!».
Io abbozzo. Mi levo la telecamera di spalla e la tengo per la maniglia. Pesa.
«Non mi hai ancora detto perché sei voluta venire fin qui».
Lei non risponde, continua a fissare il mare, come se volesse rievocare nella mente la scena di quella notte maledetta.
Guardo anche io, ma vedo solo buio. Alcune navi ormeggiate al largo, fiori dal porto. Attendono il loro turno di entrare.
Sai che palle, penso, ma so che i marinai sono pazienti, è la loro vita, fatta di lunghe attese, in terra o in mare.

È assorta, vedo che le sue labbra dicono qualcosa, ma dalla bocca non escono suoni. I capelli biondi si muovono lentamente, scossi dalla brezza. È aprile, come quella volta, ma di notte è freddo. Mi gratto la barba, pensoso. Lei fa alcuni passi sul molo, ritorna indietro.
«Vedi» mi dice «il Moby Prince veniva da quella parte, la petroliera invece incrociava là. La terza nave…».
«Quale terza nave?» chiedo. Devo essermi distratto.
«Non hai sentito le registrazioni radio?».
«Quelle che volevano secretare?».
«Sì. C’era una terza nave, è stata rilevata dai radar. Rispondeva con il nome in codice di Theresa…».
Ora ricordo: «La nave che non esiste».
«Già. Non era né la Gallant II né la Margareth Likes, una era ancorata e l’altra ha rischiato di scontrarcisi».
«Strano che entrambi quella navi fossero militarizzate», osservo.
«No, il porto di Livorno è sempre stato pieno di navi americane. Siamo vicini a Camp Darby».

La guardo. Ilaria sembra sicura: quando fa così è perché ha già in testa la visione di quello che è successo, la conosco bene. Poi si metterà in cerca dei particolari, delle prove, e mi porterà in giro per il mondo.
Ma a me piace.
«Dai, dimmi secondo te cosa è successo» la incalzo. So che ora ha voglia di parlare.
Lei si volta ancora verso il mare, fa dei gesti indicando l’oscurità.
«Vedi» mi dice «le posizioni della Moby Prince e della Agip Abruzzo erano note, ma la stazione radar di Valle Benedetta ha rilevato diverse imbarcazioni che si incrociavano freneticamente quella notte..».
«Uno era la Theresa» dico.
«Sì, ma non era l’unica, Comunque lei e le altre dopo l’incidente si sono allontanate senza prestare soccorso e sono sparite nel nulla».
«Forse non volevano mettersi a rischio, visto che comunque stavano arrivando i soccorsi da Livorno».
Lei mi fissa, lo sguardo duro. Quando fa così mi piace. Quasi.
«Cazzate!» mi dice «non dire queste puttanate che stupido non lo sei!».

Non reagisco, abbiamo fatto centinaia di volte questa scena: io che faccio le osservazioni più banali e lei che le smonta da incazzata. È il nostro brainstorming.
Un attimo dopo è già calma.
«Perché quelle navi si sono allontanate?» mi chiede e si chiede.
«Perché avevano qualcosa da nascondere» rispondo. Ovvio.
«Già, ma cosa?».
Restiamo in silenzio per qualche minuto. Si sentono in lontananza i rumori ritmici delle pompe.
«Un diversivo» dice.
«Nessuno fa saltare in aria una nave passeggeri per nascondere un carico di droga» ribatto.
Ci guardiamo. La risposta giunge per eliminazione. Sento il freddo scendermi lungo la spina dorsale.
«Un traffico d’armi!».

Non ricordo chi di noi due l’ha detto per primo, ma rammento benissimo la sensazione che ho provato.
«No, Ilaria!» l’ho implorata, sapendo perfettamente che sarebbe stato inutile.
«Siamo giornalisti, Miran, è nostro dovere fare luce su questa vicenda!».

Tu sei una giornalista, Ilaria, io sono solo un cineoperatore. Ti seguirò, oh se ti seguirò, come ti ho sempre seguita, anche se prima o poi questo tuo amore per il mestiere, questa tua curiosità che è anche sete di giustizia ci farà ammazzare. Ma fanculo! Ne vale la pena!

«E ora cosa facciamo?» le chiedo, anche se conosco benissimo la sua risposta.
«Seguiamo la traccia delle armi» risponde sicura.
Mi ricarico in spalla la telecamera.
«Quando partiamo?» chiedo.
«Il più presto possibile. Domani telefono in RAI e faccio staccare due biglietti per Mogadiscio. Tu preparati».
Scuoto la testa e le sorrido. Come no. Io sono sempre pronto!