Ero da poco in Aragona, al termine di uno dei miei tanti infruttuosi viaggi di lavoro di quel periodo.
Quando avevo accettato di prendere la rappresentanza di quella ditta di impianti antincendio avevo avuto il sospetto che qualcosa non andasse: alte provvigioni ma un fisso che copriva a malapena le spese mi avevano fatto pensare a un azzardo più che ad un lavoro regolare, ma dopo anni passati a viaggiare in lungo e in largo non era che potessi permettermi di fare delle scelte e avevo un disperato bisogno di soldi. E poi, chissà che quella fosse l’opportunità che mi serviva? Agente per tutta la Spagna Orientale, cosa volevo di più?

Quello che non sapevo e avrei dovuto prevedere prima di accettare l’incarico era che tutta la zona era ampiamente coperta dalla concorrenza, e non è che le aziende siano solite cambiare le dotazioni di sicurezza da un giorno all’altro, come ho avuto modo di scoprire a mie spese.
Sconfortato e in procinto di fare un mesto ritorno in Italia, dove sicuramente la Direzione Commerciale mi avrebbe revocato il mandato, decisi di concedermi almeno un giorno di vacanza per visitare Teruel, la capitale dell’arte mudéjar, i progenitori dei moriscos, dove c’era la splendida Torre di San Martin.

Era metà luglio, e non avevo tenuto conto (quando mai io tenevo conto di qualcosa?) delle temperature di quelle zone interne della Spagna, così, accaldato e a digiuno avendo saltato il pranzo, avevo provvisoriamente rinunciato al mio giro turistico per rifugiarmi un santuario di pregevole fattura ma di dimensioni minori e più recente della cattedrale, la chiesa, come ho scoperto poi, di San Pedro in Teruel.
Appena fui entrato e percorsi parte dell’unica navata potei assaporare il fresco sentore di umidità delle grandi costruzioni ecclesiastiche, che sembrava riverberare dai marmi e dall’alta volta a croce. Rinfrancato da quell’atmosfera, ma anche coinvolto come sempre, spesso mio malgrado, dalla sacralità dell’ambiente, cominciai ad esplorare l’interno, scoprendo il dossale rinascimentale dell’altare maggiore e la composta ricchezza delle cappelle laterali. Una di queste, dalla parte dell’Epistola, era curiosamente denominata ‘la cappella degli Amanti’, e rimandava ad un piccolo mausoleo annesso alla struttura principale. Incuriosito, mi addentrai nel monumento sepolcrale e mi trovai di fronte ad un singolare complesso marmoreo: due sepolcri affiancati sormontati dalle figure distese di un uomo e una donna, la mano sinistra di lei che si appoggiava sulla destra abbandonata di lui.

«Non sono appoggiate» disse una voce al mio fianco, «se guardi bene le mani non si toccano.»
MI voltai e vidi un ragazzo che poteva avere quattordici come sedici anni, vestito degli indumenti di cuoio poveri e senza tempo dei pastori. Mi avvicinai e mi chinai, e vidi che effettivamente c’era un piccolo spazio che separava le due mani.
«Perché?» chiesi al ragazzo, inavvertitamente in italiano, poiché lui mi aveva parlato nella mia lingua.
«Separati in vita, uniti per l’eternità» disse.
Non capii, ma mi venne in mente una novella che avevo letto nel Decameron di Boccaccio.
«È una leggenda.»
«No.»
«Come no?»
Lui alzò gli occhi per guardarmi, era più basso di me di tutta la testa.
«Juan attraversò l’inferno per raggiungere Isabel.»
Avrei dovuto lasciar perdere e andarmene: c’è sempre qualche invasato in quei luoghi dove la fantasia si confonde con la storia, ma qualcosa, forse la noia, forse la curiosità, mi spinse ad insistere.
«Dove hai letto queste cose?» gli chiesi, con una punta di malizia. Chissà se quel ragazzo era capace di leggere!
Lui ritornò a guardare avanti. «Io c’ero.»
Invece di scoppiare a ridere di fronte a quell’assurdità, rimasi bloccato, e continuai a rimanerlo mentre lui raccontava la sua storia.
«Il mio nome è Chico Rodriguez» cominciò con voce piatta, «ero un servitore di casa Marcilla, facevo un po’ di tutto, dal badare alle bestie ad aiutare le donne a portare i panni al lavatoio. Ogni tanto accompagnavo il mio signore a caccia, ed erano i momenti più belli. Un giorno Juan Diego, all’uscita della messa, incontrò Isabel de Segura e tra loro scoccò subito la scintilla dell’amore. Io ero lì che tenevo il suo cavallo e vidi con i miei occhi quel momento, quando le loro movenze cominciarono immediatamente a mutarsi nella danza del corteggiamento. Nello stesso istante ebbi la precognizione della tragedia, perché don Pedro Segura era un uomo ricchissimo e Isabel la sua unica figlia, mentre Juan Diego Martinez de Marcilla, pur di nobile casata, era quasi povero.
Quando don Juan tornò da me e prese le redini che gli porgevo sembrava avesse delle stelle negli occhi.
«Hai visto, Chico, che angelo?»
Io cercai di farlo desistere. «Ma signore, don Pedro Segura non acconsentirà mai che lei e…»
Lui mi interruppe, anzi, non mi ascoltò neanche. «Si chiama Isabel, lo sapevo già. E mi ama! Ho visto che mi ama!»
Per tutto il viaggio fino al palazzo continuò a tessere le lodi di quella ragazza. Io avevo rinunciato a farlo ragionare. Non si dice forse che l’amore rende pazzi e ciechi? Certo, donna Isabel era bella, ma tra lei e don Juan non c’erano ostacoli, c’erano montagne. Si sa, gli innamorati hanno la testa dura, e a nulla servirono i ragionamenti di suo padre, che peraltro sarebbe stato ben contento del matrimonio che avrebbe potuto risollevare le finanze della famiglia, ma era consapevole della sua impossibilità.
«Isabel è promessa ad un nobile ricco e potente, figlio mio» gli diceva.
«Ma è vecchio! E poi lei non lo ama, lei ama me!» protestava il giovane, senza ascoltare i saggi suggerimenti del genitore.
Teruel è piccola ed allora lo era ancora di più. La notizia non ci mise molto a fare il giro del paese, e anche se i due innamorati furono molto attenti e rispettosi, presto furono l’oggetto dei pettegolezzi della domenica, finché don Pedro decise di farla finita e di dare Isabel in sposa al ricco pretendente.
Disperato, Juan andò in casa Segura e implorò tanto e così accoratamente don Pedro che questi si commosse, pur non volendo rinunciare ai suoi progetti.
«Ti do cinque anni di tempo» disse. «Se trascorso tale periodo ritornerai ricco come don Vitaliano, Isabel sarà tua sposa. È il massimo che posso fare per te.»
Don Juan non poté che accettare, e nonostante i pianti di Isabel e di sua sorella Fernanda decise di intraprendere l’unica impresa che avrebbe potuto farlo diventare ricco in così breve tempo: andare in guerra.
Proprio all’epoca era iniziata uno dei tanti conflitti contro i Mori, e così una mattina Juan Diego partì armato con le vecchie armi di famiglia, sull’unico cavallo che potesse dimostrare un minimo di dignità e con il solo scudiero che poteva permettersi, cioè io, che lo seguivo armato di un coltellaccio preso in cucina e su un ronzino che mi reggeva soltanto perché allora, come adesso, ero piccolo e magro.»
Il ragazzo fermò per un attimo il suo narrare, ma non per prendere fiato o vedere se lo seguissi con attenzione, ma per fissare qualcosa oltre i due sarcofaghi.
«Non starò a raccontare tutte le avventure a cui andammo incontro: quella guerra, come tutte le guerre, era fatta soprattutto di razzie ai danni della povera gente, e di sangue don Juan ne sparse molto, e anche ne diede, ma mai volle far uso del suo diritto allo stupro, anzi, si premurò di difendere le ragazze di cui aveva acquisito la proprietà per rivenderle integre alle famiglie, dapprima tra i lazzi dei suoi commilitoni ma poi, quando si era diffusa la storia del perché lo facesse, da sinceri sguardi di commiserazione. Da parte mia cercavo di non farmi tagliare il collo e mettere insieme qualcosa da mangiare per entrambi, che a dire il vero era di più di quello che avevamo a casa.»
Chico si prese un’altra pausa, mentre io vedevo nella mia mente le scene di battaglie, le urla dei feriti e il terrore dei popolani inseguiti dai soldati fino, e dentro, le loro case e spogliati di tutto. Donne violentate sulla soglia di casa, vecchi sgozzati, bambini e giovinette trascinati via per essere venduti come schiavi.
«Alla fine» riprese, «tra saccheggi, riscatti e furti ai danni dei Mori, don Juan raggiunse il suo scopo, e durante una tregua armata ottenne dal suo comandante il permesso di tornare a casa per impalmare la sua bella promessa. Eravamo però in Extremadura, e un conto era viaggiare al seguito di un esercito, sia pure raffazzonato come il nostro, e un altro attraversare il centro della Hispania da soli, io e lui e con un ingente tesoro al seguito.

Le disavventure che affrontammo durante il percorso non furono da meno di quelle vissute sui campi di battaglia, e la spada di Juan Diego si arrossò più volte del sangue dei briganti. Anche io fui costretto a combattere, non per difendere il bottino o l’onore, ma per salvarmi la vita. Intanto, tra scaramucce, inseguimenti, imboscate e fughe dai briganti che impestavano la zona più dei pidocchi che infestavano noi, il tempo passava.
Arrivammo infine a casa sani e salvi, ma eravamo in ritardo di alcuni mesi sul termine fissato. Io avevo un fosco presagio, ma don Juan era al settimo cielo e si fermò in un paese vicino per comprare armi e vestiti nuovi, in modo da fare una splendida figura al suo ritorno. Anche io ebbi nuovi indumenti, gli stessi che vedi ora.
Percorremmo la strada principale di Teruel come se fossimo noi i vincitori dei Mori, e devo confessare che per qualche istante anch’io mi sentii orgoglioso di essere al servizio di un cavaliere così valente.
Giungemmo davanti a casa Marcilla e il vecchio signore uscì ad abbracciare il figlio vincitore, mentre Fernanda, ormai diventata una vera donna, gli saltava intorno dalla felicità.
Una volta che tutta quella festa si fu calmata, Juan Diego aprì i bauli contenenti l’oro e i preziosi che con tanta fatica avevamo conquistato e con ancora più fatica difeso durante il viaggio, tra le grida di meraviglia di tutti i curiosi che erano accorsi, ma quando il ragazzo, ormai diventato uomo, disse che era tempo di andare a reclamare la mano di Isabel ci fu un momento di generale imbarazzo e il padre lo prese per un braccio e lo portò con lui oltre il portone.

Io non udii quello che padre e figlio si dissero, ma quando vidi il mio padrone uscire sconvolto, quasi incapace di reggersi in piedi, corsi a sostenerlo e lo accompagnai fino alla fontana, dove immerse tanto a lungo la testa nell’acqua che credevo sarebbe annegato.
Quando si riprese vidi che aveva negli occhi una luce nuova, e per un attimo temetti che volesse riprendere con la forza quello che gli era stato sottratto, ma invece riempì un bauletto di oggetti preziosi, collane di perle bianche come il latte, zaffiri del colore del cielo e oro, tanto oro sporco di sangue, e si recò da don Pedro, portando quel piccolo tesoro come segno di devozione e chiedendo udienza alla signora sua figlia per consegnarglielo personalmente. Il vecchio Segura non era affatto insensibile al denaro, e non se la sentì di rifiutare quel dono che andava ad aggiungersi alla parsimoniosa dote che aveva dato alla figlia, così concesse il suo permesso e i due innamorati s’incontrarono da soli nel salone del palazzo.
Quasi da soli, perché io ero presente: un nobile non si sarebbe mai sobbarcato l’onere di portare lui stesso il bauletto, così io l’avevo tra le mani e glielo consegnai di fronte alla sua promessa sposa, affinché potesse fare lui il gesto di offrirlo in dono ai suoi piedi.
Isabel era pallidissima, conscia della drammaticità del momento e di quello che avrebbe potuto essere e invece non era stato. Nei suoi occhi leggevo la pena per l’amore perduto, che mai si sarebbe realizzato. Lo stesso don Juan era consapevole dell’impossibilità di rabberciare quello che il destino aveva infranto, e non implorò alla sua amata l’impossibile. Le chiese soltanto un bacio.
«Isabel, vorresti darmi un primo ed ultimo bacio in memoria del nostro amore?»
Io seguivo la scena con trepidazione, e dietro di lei il valletto di casa Segura la osservava con curiosità.
Forse Isabel esitò, forse mille pensieri attraversarono in quel momento la sua mente, ma diverse furono le parole che uscirono dalla sua bocca.
‘No, Juan, la mia condizione attuale non me lo permette.’
C’era in quelle parole un significato celato, la prova che solo le circostanze le avevano imposto quella decisione impietosa, ma io vidi le spalle del mio padrone abbassarsi di colpo. Non pregò né disse altre parole, ma fece un leggero inchino e si voltò, dirigendosi verso l’uscita, e io dietro di lui.

Tornammo a casa nel silenzio più cupo, e don Juan si chiuse nelle sue stanze, rifiutando il cibo, l’acqua e le parole. Di lì a tre giorni morì senza che nessuno potesse farci niente, quasi che con l’amore anche la vita avesse abbandonato il suo corpo.
Il funerale fu celebrato nella cattedrale di Nuestra Señora de la Asunción, questa chiesa non era ancora stata costruita. La bara in cui era esposto il corpo del povero don Juan era posta su di un baldacchino in fondo alla navata centrale, tra due ali di fedeli intervenuti più per curiosità, una volta che la voce si era sparsa, che per autentica fede. Verso la fine della cerimonia, quando il prete si apprestava a dare l’ultima benedizione alla salma, le porte della chiesa si aprirono e il sole di mezzogiorno fece irruzione nell’austera penombra del santuario. Circondata da una luce accecante, una figura percorse a passi lenti tutta la navata, fino a rivelarsi nella sua realtà di donna coperta da un drappo nero come la notte. L’apparizione raggiunse nel silenzio generale la bara, si fermò davanti al cereo volto del morto e con un rapido gesto sollevò il velo. Un brusio percorse la chiesa quando apparve il volto pallidissimo di Isabel Segura, che si chinò a baciare le labbra del suo promesso sposo.
Non fu un lieve sfiorarsi, ma un bacio vero, in cui c’era tutta la disperazione e l’amore della giovane donna, un bacio lungo, al termine del quale lei piegò le ginocchia e si accasciò vicino alla bara. Per sempre.»

«Una historia muy triste» disse una voce alle mie spalle. MI riscossi e mi voltai. Dietro di me c’era un sacerdote che doveva avermi visto in raccoglimento davanti al monumento e aveva pensato che stessi leggendo l’iscrizione esplicativa. Mi girai dall’altra parte, ma Chico era sparito.
Il prete sorrise e mi parlò nella mia lingua, in qualche modo mi aveva riconosciuto come italiano.
«Ha visto Chico Rodriguez, vero?»
Lo guardai senza sapere cosa rispondere.
«È successo a molti» mi disse, «non a me, ma in molti raccontano di questo misterioso ragazzo che narra la storia dei due leggendari amanti.»
«È dunque una leggenda?» chiesi.
Lui allargò le braccia. «Chissà. Quello che è sicuro è che a metà del Cinquecento furono scoperte due mummie sepolte nella cappella dei santi Cosma e Damiano, e vicino ad esse, secondo la testimonianza del notaio Yagüe de Salas, comparve un antico documento che raccontava i fatti. Il monumento risale al 1955, mentre il mausoleo è stato edificato solo nel 2005. Sa, esigenze turistiche» concluse, quasi a scusarsi.
Non lo ascoltavo più, la mia attenzione era fissata su quelle due mani che si sfioravano senza mai riuscire a raggiungersi, e un nodo mi salì alla gola.
Capendo la mia emozione, silenziosamente il sacerdote si allontanò.