Quel giorno andai a lavorare molto soddisfatta, mi ero alzata più presto del solito per cucinare una torta al cioccolato.
Prima di uscire, la ammirai un’ultima volta fiera di me: era uno spettacolo per gli occhi e, dal profumo, lo sarebbe stata anche per il palato.
La lasciai in mezzo al tavolo da pranzo, coperta da un coperchio di plastica trasparente.
Me ne andai per prima e salutai nipote, figlia e cane correndo al lavoro.
Tornata a casa, mi aspettavano le solite incombenze: portare fuori il cane … mi correggo, farsi trascinare fuori dal cane, preparare il pranzo, apparecchiare, ecc.
Così, presi in mano il guinzaglio e chiamai:
«Andiamo, Manny?»
Mi guardai attorno: che strano, dell’animale nemmeno l’ombra. Lo cercai ovunque, lo chiamai ripetutamente ma niente.
Entrai in cucina e la prima cosa che mi cadde sotto gli occhi fu il coperchio di plastica appoggiato di lato al piatto vuoto e della torta nessuna traccia: sparita!
Notai affianco al tavolo una sedia scostata, dimenticata da mia figlia, che aveva dato la possibilità al piccolo delinquente di saltare dalla sedia al tavolo e farsi, indisturbato, una scorpacciata di quella delizia.
Mi prese un colpo, ricordai le parole di mia figlia:
«Niente cioccolato, la veterinaria dice che, per lui, è un veleno mortale!».
Primo pensiero:
«Oddio, ho ammazzato il cane!»
Lo chiamai ancora e, alla fine, lui spuntò con aria mogia da sotto un basso tavolino, posto in un angolo del salotto.
Mi guardava, con le orecchie all’ingiù, gli occhi contriti, l’aria colpevole.
Pensai sollevata:
«È ancora vivo!»
Cercando di entrare nella sua psicologia animale, riflettei che, in ogni caso, Manny era consapevole di aver fatto qualcosa di proibito e pensai pure che la sua coscienza canina gli avesse procurato lo stesso senso primordiale di rimorso tale e quale a Caino (il famoso Caino), quando commise il primo omicidio della storia dell’Umanità, uccidendo il fratello Abele e che poi cercò, invano, di nascondersi agli occhi di Dio.
Forse, il paragone era un po’ esagerato, lo ammetto, ma il senso era quello: era emerso il suo senso di colpa canina.
Comunque, lo invitai a uscire dal suo nascondiglio, lo accarezzai, lo portai fuori e devo dire che quel giorno non tirò più di tanto, era mogio e trotterellava appena:
«Ci credo», ricordo che pensai, «con la scorpacciata che ti sei fatto, chiunque si sentirebbe appesantito, o forse, sarebbe morto».
Saputa la notizia, all’inizio, mia figlia si preoccupò, lo tenne a dieta ferrea per due o tre giorni, e tutto si risolse con qualche evacuazione in più, magari al profumo di cioccolato, ma niente di più.
Dovetti cucinare un’altra torta e, questa volta, la chiusi a chiave nella credenza.
Sto diventando un’esperta e l’esperienza insegna!
Mai fidarsi dello sguardo innocente di un cane goloso che ti osserva indifferente (quasi) e ti saluta scodinzolando quando esci: sta complottando qualcosa!