Osvaldo

Da come si era presentato il mattino ci avrebbe scommesso che sarebbe stata una giornata da dimenticare.
Aveva dormito poco e male, si era alzato di cattivo umore e come buongiorno aveva sbattuto contro lo spigolo del comò. Se non fosse stato per la faccia severa di suo padre che lo guardava da una foto appoggiata sopra avrebbe pianto come un vitello. Ma quel cipiglio serio di chi lo aveva sempre considerato un pappamolle, gli aveva fatto stringere i denti e snocciolare un rosario di bestemmie. A suo padre sarebbe piaciuto.
Zoppicante aveva portato i suoi cinquantanni in cucina, sua madre aveva appena fatto il caffè, e il caffè di mamma non aveva eguali.

«Amore, ti ho fatto l’ovetto sbattuto come piace a te.»
« Non so… non vorrei mi facesse male. Sono troppo teso.»
Ma era così spumoso, profumato con una lacrima di marsala…
« Ma si, passamelo…»
Sua madre mentre glielo porgeva lo aveva rassicurato.
«Rilassati Osvaldo, vedrai, andrà tutto bene. Ti ho stirato la divisa e lucidato le scarpe. Sarai bellissimo. Come tuo padre e come suo padre prima di lui.»

“Già, come suo padre…” aveva pensato poco dopo mentre finiva di fare il nodo alla cravatta.
Era bravo suo padre, era il migliore. Ma lui non era suo padre. Suo padre era sicuro, brillante, non come lui. Maledetta timidezza!

Gli altri erano già in piazza quando era arrivato. Imbarazzato per il ritardo era diventato paonazzo e ad occhi bassi era andato nella sua postazione. Serena nella sua uniforme era bellissima. E come sempre non lo aveva degnato di uno sguardo. Primo clarino nella banda del paese, figuriamoci se guardava lui che suonava i piatti.

«I piatti sono importanti» gli diceva sempre mamma, «sottolineano i passaggi, danno forza alle melodie e mettono allegria.»
Sarà stato anche vero, ma intanto Serena sorrideva al trombettista.

A ridosso del municipio era stato allestito un palco. Una giuria di cinque esperti si era già accomodata sulle poltroncine di legno. Il sindaco con la fascia tricolore in centro.
Due le bande in lizza. La loro e quella di un paese vicino. La vincitrice sarebbe stata selezionata per partecipare alla gara nazionale.

Avevano già eseguito varie sinfonie, quelli di Montechiarino si trovavano in vantaggio di un punto. La partita si giocava su quell’ultima esibizione. E stava a loro.
Il mazziere, impettito, dritto come una candela aveva dato il via.

Nel brano che era stato scelto per il finale i piatti avevano un ruolo importante. La tensione lo stava logorando. “Doveva stare calmo, calmo!” Ma come? Cominciavano a sudargli le mani, il nodo della cravatta pareva un cappio, aveva guardato verso il cielo, una supplica muta a un intervento divino.

Più tardi si sarebbe ricordato di questo particolare e di quel vecchio detto che recita: “Bisogna stare attenti alle richieste che si fanno perché potrebbero essere esaudite”

Erano alle battute finali, a lui stava la chiusa e proprio nell’ultimo, ultimissimo contatto tra i piatti, un piccione staccatosi da un cornicione, con la precisione di un cecchino aveva centrato uno dei dischi di metallo che a contatto con l’altro aveva emesso un suono particolare. Quella sostanza fluida aveva prodotto una nota allungata, morbida. “Un mixage perfetto tra forza e delicatezza”, lo aveva definito il presidente della giuria assegnando alla loro formazione la vittoria. C’era stata una festa, Serena gli aveva fatto i complimenti e lui si era sentito sciogliere. Erano quelle dunque le farfalle nello stomaco? O l’ovetto che…