Non si può parlare di Buddhismo Zen

Parlare di Buddhismo Zen è impresa impossibile e al tempo stesso facilissima: impossibile perché è un mondo per noi completamente alieno: per definizione, infatti, lo Zen è

“la dottrina segreta trasmessa, al di fuori delle scritture, dallo stesso Buddha al suo discepolo Mahākāçyapa, introdotta in Cina verso il VI secolo da Bodhidharma e poi continuatasi attraverso una successione diretta di maestri e di «patriarchi» sia in Cina che in Giappone, ove la sua influenza perdura e lo Zen ha ancora oggi i suoi rappresentanti e il suo Zendo (Sale della Meditazione)”

facilissima perché l’esistenzialismo e la New Age hanno trovato in esso una vena surreale che sembrava avvicinarlo ad un certo modo di intendere la vita, svincolato dalle angosce dell’esistenza e libero da qualunque vincolo.

Tutto ciò è pura apparenza.

I Saggi sul Buddhismo Zen di Daisetz Teitaro Suzuki

Se andiamo ad analizzare quella che è la definizione riportata sopra, tratta dall’introduzione di Julius Evola al trittico Saggi sul Buddhismo Zen di Daisetz Teitaro Suzuki, vediamo che lo Zen è una dottrina segreta, non nel senso occidentale di nascosta, ma in quello di celata a chi non è in grado di comprenderla. Inoltre è trasmessa al di fuori delle scritture, quindi per trasmissione diretta, il che implica che non è possibile svelarne l’essenza senza la guida di un maestro e, aggiungiamo, non è possibile neanche farlo all’esterno di un monastero Zen (senza approfondire il fenomeno dei monaci itineranti, che comunque giravano da un monastero all’altro). Non mi metterò quindi a parlare di Buddhismo Zen ma dei libri di Suzuki citati sopra, a tutt’oggi la più completa introduzione a questo mondo tanto affascinante quanto impenetrabile.

Sebbene in questi ultimi anni, con il progressivo scemare dell’interesse nei confronti della spiritualità orientale, la ricerca abbia lasciato in gran parte il campo all’ideologia, con l’avvento di sette più aggressive ed organizzate che, pur richiamandosi a correnti marginali del Buddhismo – come la Soka Gakkai, che segue il buddismo secondo l’interpretazione di Nichiren Daishonin – sono arrivate a monopolizzare la scena in concorrenza ed in contrasto con le religioni monoteistiche tradizionali, la letteratura sull’argomento ha raggiunto dimensioni considerevoli.

Purtroppo questo fiorire non ha contribuito molto a fare chiarezza sull’argomento, perché in genere i testi affrontano lo Zen nei suoi aspetti più folkloristici o si limitano a proporre aforismi di origine zen, quando non veri e propri koan, che colpiscono il lettore per il loro aspetto poetico ma sono assolutamente inintellegibili nella loro essenza. Io mi spingo ad affermare che lo spirito Zen, essendo presente anche in queste brevi frasi, in qualche modo viene avvertito da chi le legge anche senza consapevolezza, ma al di fuori di quel ‘sentire’ vago, di quella percezione di un qualcosa che si agita nel profondo, non rimane niente.
In alcuni casi, poi, abbiamo a che fare con veri e propri falsi, come nel caso del famoso (e sia detto per inciso, bellissimo da leggere) ‘Lo Zen e il tiro con l’arco’, di Eugen Herrigel, che sebbene molto celebrato non corrisponde ad una reale esperienza dell’autore ma è stato inventato di sana pianta, attingendo alle sue conoscenze della disciplina giapponese.

D.T. Suzuki non fa niente di tutto questo: la sua esposizione parte da una accurata descrizione storica e filosofica dello Zen e ne mette in risalto gli aspetti peculiari, quelli che lo differenziano da ogni altra dottrina buddhista, approfondendone il significato psicologico.

Il Koan

Nel secondo volume l’Autore si sofferma poi sulla pratica del koan, sicuramente l’esercizio più sconvolgente e caratteristico dell’intera pratica Zen. Il koan a prima vista non è che un indovinello impossibile, apparentemente senza senso, ma che porta la mente dell’adepto fino ai suoi limiti più estremi, come una corda che si tende fino ad arrivare sul punto di spezzarsi finché – soltanto un istante prima – essa vibra di un suono purissimo, celestiale.
Suzuki si dilunga sui koan per le oltre trecento pagine del secondo volume, raccontando episodi, fornendo esempi, introducendo discussioni filosofiche e psicologiche per mostrare al lettore nell’unico modo possibile, cioé esponendo i fatti, quello che è il vero cuore dello Zen.

I rapporti tra Zen e cultura Giapponese

Il terzo volume è più storico-didascalico, trattando dei rapporti tra lo Zen e la cultura giapponese, e dei tre è forse quello più semplice ma di minor fascino.
Complessivamente l’intera opera, mille pagine fitte di discussioni, esempi, note esplicative e rimandi ai principali sutra del buddhismo Mahayana, fornisce un quadro unico ed estremamente lucido di quello che è lo Zen, di cosa ha rappresentato e rappresenta nel mondo spirituale orientale e nel contempo rende consapevole il lettore dell’inutilità di voler intraprendere questa strada per il raggiungimento dell’illuminazione.
Questo non significa, tuttavia, che la lettura sia inutile per il ricercatore, perché attraverso le considerazioni di Suzuki sul significato psicologico del satori (il raggiungimento improvviso di un nuovo punto di vista nei nostri rapporti con la vita e con il mondo) viene messo sulla strada maestra per riconoscere le correnti mistiche che scorrono, più o meno sotterranee, all’interno di ogni movimento religioso e che ne determinano i momenti più elevati, quelli del contatto diretto con la divinità, o con l’essenza dell’Universo che dir si voglia.

Suzuki

D. T. Suzuki ha dedicato al buddhismo venticinque opere in inglese e almeno diciotto in giapponese. Come mostra chiaramente la cronologia bibliografica dei suoi scritti sullo zen in inglese, fu pioniere di questa dottrina fuori del Giappone. Infatti, prima del 1927, anno in cui uscì la prima serie dei suoi Saggi sul buddhismo zen, nulla era ancora noto dello zen come vivente esperienza se si eccettua l’opera di Kaiten Nukariya, Religion of the Samurai. Non solo Suzuki ha studiato le opere originali in sanscrito, pali, cinese, giapponese, ma è anche stato profondo conoscitore del pensiero occidentale, nelle lingue tedesca, francese e inglese che egli parlava e scriveva con grande scioltezza. Fu, tuttavia, molto più che uno studioso. Pur non appartenendo ad alcun ordine religioso o associazione buddhista, la sua conoscenza delle cose dello spirito era tanto diretta, profonda ed efficace che veniva onorato in ogni tempio del Giappone. Quando egli parla degli stadi più elevati della coscienza lo fa come un uomo che vi ha, per così dire, abitato e che ha cercato poi di utilizzare simboli intellettuali per descrivere uno stato di coscienza che è ‘al di là dell’intelletto’.