Chi non conosce il personaggio che pronuncia questa frase, reso popolarissimo dalla serie TV che ne racconta le gesta?
L’ispettore della polizia di Stato che – con l’aiuto dei fidi Fazio e Mimì e del vitale sostegno di Catarella, colonna del commissariato della bellissima e virtuale Vigata – tiene duro in prima linea nella lotta, interminabile, contro Mafia e delinquenza, in quella magica terra, la Sicilia, dove le due si fondono in un nodo complesso e soffocante.
Ormai tutti lo conoscono, così come conoscono la voce rauca e lo sguardo sornione avvolto nel fumo dell’immancabile sigaretta del suo papà, al secolo Andrea Camilleri.

Nella mia biblioteca ci sono ben 78 volumi che portano il suo nome e un solo doppione; il numero è notevole, specie se consideriamo che Camilleri comincia a scrivere sul serio quando ha già superato i cinquant’anni. Sebbene sia molto probabile un accumulo precedente di materiale ed appunti, resta una prolificità notevole ed invidiabile, superata oltre che dall’inarrivabile Simenon (avremo modo di parlarne), da pochi altri scrittori.

Vorrei subito precisare: a mio avviso l’habitus della sua notorietà, ovvero il citato commissario, va veramente stretto a Camilleri. Il quale, per primo, ha manifestato una qualche insofferenza per il personaggio che, per motivi editoriali, è ancora in vita benché in più di qualche occasione si abbia avuta l’impressione che il suo autore non vedesse l’ora di mandarlo almeno in pensione. Peraltro leggo da qualche parte che in realtà Montalbano sarebbe già defunto: l’epilogo dell’epopea, già scritto dall’autore, dovrebbe essere stato consegnato all’editore da Camilleri, con la clausola che sia pubblicato solo dopo la sua di morte, cosa che, data l’età, noi ci guardiamo bene dall’augurargli, ma tutti conosciamo le regole del gioco…

Intanto però, ignorando l’ipotesi che si tratti dell’ennesima trovata pubblicitaria, vi spiego perché sostengo che Montalbano sia una sorta di palla al piede (miliardaria, se volete) del buon Andrea. Mi perdonerete se per spiegarla debbo un po’ spaziare sulla mia storia privata. D’altra parte è della mia biblioteca che scrivo e, di conseguenza, eravate in qualche modo avvisati dei rischi che correte leggendomi. Cercherò, con molte difficoltà, d’essere breve come in altre occasioni.

Dunque (vi avranno detto già sui banchi di scuola che non si comincia un periodo con “dunque”… ma sono vecchio quanto basta per potermene fregare delle regole) il fatto è che mio padre era siciliano. E questo, in qualche modo, già fa intravedere qualcosa dello scenario. Ma non basta: era pure un maestro elementare e, almeno un tempo, quelli come lui godevano del “privilegio” (tutto da verificare e discutere) di usufruire di ben tre mesi di ferie. Così succedeva che, considerato che in casa lavorava solo mio padre e che con lo stipendio di maestro la villeggiatura al mare era una sorta di chimera irraggiungibile, il 30 giugno (dopo la festa dei SS. Pietro e Paolo) le scuole chiudevano e tutta la famiglia (eravamo in quattro, poi più tardi in 5) prendeva il treno e si trasferiva nella terra natia di mio padre. Sorvolo sui viaggi (infernali ed interminabili) di allora da Viterbo alla provincia di Catania: dovessi campare ancora una quarantina d’anni (!), forse ci scrivo un libro sull’argomento…

All’epoca il paese di mio padre (di cui taccio il nome per carità di patria) era una sorta di medioevo postbellico… si moriva dal caldo, l’acqua corrente c’era una volta al giorno, per pochissimo e non sempre e quasi tutti tenevano l’asino nella stalla sotto casa. Lì passavamo luglio e settembre, mentre per agosto si affittava una camera con uso di cucina a Catania e si andava al mare sulla spiaggia di Ognina. La scuola ricominciava il 1° ottobre e noi tornavamo a casa il giorno prima. Fino ai miei 17 anni, mi pare, le mie estati sono tutte trascorse con questo cliché, al punto che io ignoravo come fosse quella stessa stagione là dove passavo i due terzi della mia vita. Lo avrei scoperto dopo essermi rifiutato di seguire la famiglia, quando ormai ero vicino ad affrontare l’esame di maturità. Ma questa è un’altra storia e un altro romanzo che scriverò se di anni ne dovessi campare ancora 60…

Insomma: passavo un quarto dei miei giorni immerso in una Sicilia totale ed assoluta, assieme a vagonate di parenti per i quali io ero il “continentale”, che mi guardavano con una sorta di invidia e commiserazione al tempo stesso, mi abbracciavano e baciavano perché sangue del loro sangue, ma senza che questo facesse di me “uno di loro”. Mai! Né io mi ci sentivo, in verità. Già il fatto d’essere bambino prima ed adolescente poi mi rendeva difficile afferrare bene quel mondo. Poi, appunto, ero pur sempre il frutto di una sorta di fuga: quella di mio padre che aveva abbandonato terra e famiglia per sposare una “continentale” rifiutando la “soluzione” apparecchiata per lui dalla famiglia al paese. Però devo dire che mi divertivo e quel mondo per tanti aspetti mi affascinava, coi cugini e con le bande di ragazzini che scorrazzavano tutto il giorno per il paese dove passava un’auto al mese circa.

Tutto questo (e molto altro) l’ho capito solo più tardi. Ed in questo Montalbano è arrivato sì a processo iniziato da tempo, ma fornendo una chiave di lettura quasi magica. Perché l’idea (fantastica, per certi aspetti) di scrivere in quel “quasi dialetto” con cui Camilleri ha contrabbandato le sue storie, sebbene sia io conscio che crei così facendo un ostacolo forse insormontabile per tanti lettori, nel mio animo ha generato una sorta di malia che non sapevo di aver ereditato. Perché, sappiatelo, un “siciliano è per sempre” ed in me, al di là dell’ereditarietà, c’è un siciliano che non sospettavo nemmeno di ospitare.

Al di là delle facili (e gratuite) battute, quella siciliana, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni, è una cultura profonda ed antica. E leggendo le storie di Camilleri, l’ho ritrovata tutta intera, così come, senza accorgermene l’avevo assorbita in quei lunghi mesi tra fichi d’india e profumi sensuali nei “giardini” (così poeticamente i compaesani di mio padre chiamavano e chiamano le coltivazioni) strappati con fatica e sudore alla terra aspra e generosa della roccia lavica. Che ferisce con facilità se non stai attento, ma pure è fertile e rigogliosa se sai solo come lavorarla.

Le avventure del commissario e, soprattutto, tante delle altre storie narrate da Camilleri, con quella vena narrativa sottile ed ironica, che riesci ad apprezzare fino in fondo se hai in qualche modo assorbito una Storia (con la esse maiuscola, stavolta) di invasioni e di culture diverse ma ricchissime, crudeli ma ispirate, che in quella terra ha fatto crocevia, nello scorrere le pagine, diventano “rivelazioni” di qualcosa di antico e profondo. E persino l’orrore della Mafia, in qualche modo, è capace di esprimere l’anima complessa e travagliata di quest’isola bella e difficile come poche altre, dove la gente nasce, vive, ama, lavora e muore con il pesante fardello di sentirsi unica e speciale.

A quelle pagine mi sono avvicinato per un regalo di compleanno: “La voce del violino”. Il regalo veniva da un cugino anch’egli innamorato della sua origine sicula. In realtà avevo già quel libro, ma ancora non lo avevo letto e, come spesso m’accadeva e m’accade, non sapevo affatto di cosa si trattasse. Ma il cugino mi disse che ci avrei trovato molto del nostro passato e aveva ragione. Perché ho rivissuto tutta la poesia e la musica di quella che non è la mia terra ma che, come dicevo, in qualche modo porto dentro. E che, fondendosi con le mie radici (materne e della terra dove sono cresciuto) etrusche, ha creato qualcosa che non finisce mai di farmi sentire in perenne viaggio nelle emozioni.

Mi rendo conto che solo chi ha vissuto da giovanissimo certi suoni riesce a gustare fino in fondo la costruzione dei dialoghi, le sottili allusioni, l’ironia di quei personaggi ed il loro mondo complesso e variegato. Tuttavia la magia di Camilleri è anche questa: ha saputo trovare un modo di “trasmettere” anche a quelli che non hanno confidenza col dialetto la ricchezza del suo mondo. Ci vuole pazienza all’inizio ed una sorta di piccolo vocabolario forse. Del resto il “siciliano” di Camilleri (“occidentale” se esistesse questa classificazione) è simile ma diverso da quello ch’io conoscevo (ovvero quello orientale) ed ogni tanto ho dovuto fare salti mortali per capirlo. Sono quindi cosciente delle difficoltà, ma ne vale la pena. Quella voce del violino è una delle prime avventure di Montalbano, forse una delle più intese. Poi, com’era inevitabile, un poco si ripete e non mantiene, a mio avviso, il livello inziale. Ma è sempre un bel leggere, credetemi.

Camilleri poi, come accennavo all’inizio, spazia su un’ampia gamma di scritti. Ed è forse in altre opere che dà il meglio di sé, come, ad esempio “Il birraio di Preston” o “La concessione del telefono”, tanto per citarne solo alcune. Non dimentichiamo che, oltre che poeta, l’autore è stato regista in televisione e teatrale per molti anni, nonché storico appassionato della sua terra. I suoi lavori, al di là di Montalbano, si basano molto spesso su fatti avvenuti, su cui magari ha lavorato di fantasia (e lo dice espressamente) e cercando con successo di penetrare la psicologia storica di una sorta di piccola “nazione”, quella cui i siciliani, da sempre, son certi d’appartenere. Con tutte le sue bellezze ed assurdità, contraddizioni e ricchezze, coi suoi arancini e le zagare.

Se, ad esempio, leggete il saggio (che tale è anche se lo si legge come una storia) “La bolla di componenda” potrete capire molte ragioni storiche che sono alla base del comportamento mafioso e del suo secolare “abbraccio” con il mondo del clero.

Un’ultima cosa e termino: di Camilleri sono uscite anche altre opere che, con la Sicilia, non hanno poco o nulla a che vedere. Debbo essere sincero: a me non sembrano sue. Forse sono esperimenti, è possibile. C’è sempre il timore che sin troppi editori, di questi tempi, venderebbero l’anima al diavolo pur di sfruttare il successo di un autore, senza farsi troppi scrupoli. A me Andrea non sembra il tipo da cedere a determinate tentazioni ma, quando si tratta di soldi, certi moralismi, giusti o ingiusti che siano, si fanno troppo spesso con le tasche degli altri.

Altro, sinceramente, ’un saccio.