UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA
Una presenza discreta, quella di Gemma, possibilmente muta e solo se necessaria.
Questo prevedeva la strategia del copione.
Che quella figlia, pur bella quanto l’altra, ma priva dell’odore di femmina, l’avrebbe designata a badante della pazza.
D’altronde la scelta tra quale delle due figlie sarebbe andata sposa non se l’era neppure posta, perché se fosse stata Gemma, anziché Rebecca, a possedere il conturbante dono dell’essenza di Eva, quel sortilegio profumato e peccaminoso che aveva indotto Adamo a trasgredire, sarebbe stata lei l’eletta all’altare.
Così, Concetto Scalavino, deus ex machina dei destini famigliari, non s’addebitava alcun favoritismo dettato da una preferenza personale, o da un affetto più profondo nei riguardi di una figlia a discapito dell’altra, poiché per entrambe nutriva lo stesso distacco emotivo della paternità abiurata, dove il rancore s’era andato solo, e superficialmente stemperando, dopo la nascita virtuale de “la regina in miniatura”, in una tiepida indulgenza che forse avrebbe potuto trasformarsi, con il successo del piano, in benevolenza.
Benevolenza di cui avrebbe goduto anche Gemma.

Dopo questa sintetica, ma ineccepibile analisi auto assolutoria, si sentiva pronto a passare dalla progettazione alla realizzazione del suo disegno, predisponendosi con l’autorevolezza di un regista a stabilire la sequenza dei primi piani, la profondità di campo e, soprattutto, la durata delle battute.
Avrebbe prima curato i dettagli scenografici eppoi istruito le sue due attrici, non prendendo in considerazione, neppure come ipotesi, la messa in discussione del copione.

Giandomenico Messinese, nonostante fosse di pochi anni maggiore di Gemma e di Rebecca, sembrava però più adulto, con un principio di calvizie prematura ed un fisico mingherlino, intabarrato, qualunque fosse la stagione, in cupe palandrane odorose di resina.
Aveva però occhi mansueti e profondi, del colore del mare, orlati di folte ciglia setose, e mani d’artista con dita lunghe e polpastrelli sensibili.
La consapevolezza del suo aspetto, che egli reputava poco attraente, lo aveva reso impacciato e balbuziente.
Più simile ad un giovane abate che ad un artista scarmigliato, partecipava raramente agli eventi societari, e questo gli era valsa la fama di arrogante e alienato le simpatie del popolo come quelle dei notabili, che quella sua ritrosia, originata da una timidezza patologica scambiata per alterigia, non concedeva varchi a blandizie di alcun tipo, rendendolo inavvicinabile ma, soprattutto, incorruttibile.
Un’odiosa iattura quella di avere un rappresentante di tale fama e non poterne in alcun modo disporre, perché il giovane maestro ebanista s’era fatto da sé e non doveva nulla a nessuno, se non a quel suo genio ereditato, e da lui maledetto, dacché avrebbe mille volte preferito esserne nato sprovvisto e non dover essere quel Giandomenico Messinese che, al pari di nostro Signore, sarebbe stato costretto a dover trasportare sulle sue fragili spalle, e contro la sua stessa volontà, la pesantissima croce del suo prodigioso talento.
Quel talento lo avrebbe ora condotto a Roma, nella città di San Pietro, dove egli andava segretamente accarezzando l’idea di prendere i voti in un qualsiasi ordine monastico, non per esigenze di fede ma per necessità di sopravvivenza.
Un viaggio di sola andata.

Era questo il progetto che il giovane maestro ebanista andava segretamente meditando.
Avrebbe però prima adempiuto all’impegno contratto con la Santa Sede per la creazione di uno scrittoio e di una cassettiera, arredi  per le stanze private di  papa Leone XIII.
Sarebbe stata la sua opera ultima.
Sarebbe stato il suo capolavoro.
…poi, senza darne notizia ad alcuno, si sarebbe ritirato in un convento, lontano dalle ipocrisie e dal chiasso del mondo, per ritrovare le ragioni della sua arte, studiare e sperimentare, maturare il suo genio e finalizzarlo ad uno sopo universalmente più grande, non più al servizio della vanità degli uomini ricchi, quelli che potevano permettersi di comprarlo.
Quest’ultima verità, sopra ogni altra, gli riusciva intollerabile, non per una questione di amor proprio ma di pudore violato. Lucidamente si riconosceva come vittima, però consenziente. Continuare ad accettare questo stato di cose lo avrebbe, infine, reso complice.
Non sospettava minimamente, Giandomenico Messinese, che proprio uno di quei ricchi commercianti, che egli così profondamente disprezzava, mirava a comperare non solo il suo nome ma anche il suo gene.

UNA NUOVA IMMAGINE PER GIANDOMENICO MESSINESE
Rebecca e Gemma, al pari del giovane ebanista, proseguivano le loro esistenze all’oscuro dei calcoli che Concetto Scalavino aveva computato con precisione di mercante, certo della qualità indiscutibile della sua merce e del prezzo richiesto, assolutamente irrisorio per un articolo di così grande pregio.
Un affare per l’acquirente, se chi vendeva non era per mera necessità d’incasso ma per la vanità d’allocare la sua merce in una vetrina di maggior prestigio.
Non una svendita, quindi, ma una transazione alla pari.

…così, in ossequio alla prima regola del commercio che da sempre suggerisce la massima discrezione per portare a termine un buon affare, Concetto Scalavino del suo progetto non avrebbe fatto parola con nessuno fino al momento in cui i Messinese lo avrebbero contattato per una nuova fornitura: solo allora avrebbe fatto la sua proposta di matrimonio tra il loro Giandomenico e la sua Rebecca.
Era certo che la transazione sarebbe andata a buon fine, perché la fanciulla non solo era ricca ma era anche bella, e avrebbe contribuito a migliorare la stirpe dei Messinese, prolifica di geni ma non di adoni.

Nel frattempo aveva iniziato a delegare sempre più spesso Gemma, in maniera accortamente casuale, per non generar sospetti, alla custodia della madre, coinvolgendola con tecnica subliminale alla sua gestione, che poi nel breve tempo sarebbe diventata di sua piena, ed esclusiva, competenza.
Le affidava piccoli, ed apparentemente innocui, compiti di dama di compagnia, gratificandola di lodi per l’autorevolezza con cui lei svolgeva tali mansioni.
E con attestazioni di fiducia incondizionata.

Gemma, cucciolo di cane, sensibile a questa nuova agnizione che la gratificava finalmente per la prima volta nella sua vita di un riconoscimento personale di così vasta portata, dove la lode e la carezza erano forse anticipatori di quell’adozione così disperatamente agognata, che aveva rinserrato zanne ed artigli predisponendosi, fiduciosa, ad una resa incondizionata.

Mimì Messinese lo aveva finalmente contattato per una ingente commessa di pregiatissimo legno di seta e di legno viola, da recapitarsi direttamente a Roma, presso la Santa Sede.
Il carico avrebbe preceduto il giovane maestro ebanista che, preso com’era dalla progettazione dello scrittoio e della cassettiera per Sua Santità, viveva ormai recluso nel suo laboratorio come un asceta, dimentico perfino dei suoi più elementari bisogni.
Questa confidenza, timida quanto inaspettata, era affiorata con un sospiro di preoccupazione dalla voce di Mimi Messinese, insinuandosi abusiva tra cifre e clausole (poche, in realtà, che tra loro due vigeva l’onore della parola data) e inconsapevolmente fornendo al mercante l’opportunità di un alibi introduttivo al suo progetto.

Mimì Messinese, padre di Giandomenico ed amministratore dell’azienda di famiglia, nutriva nei confronti dell’imprenditore una stima sincera ed illimitata, che se non s’era approfondita in un’amicizia più intima era stato per non venir meno a quella norma dell’etica professionale, e del buon senso, a cui sempre, e senza pentimento, s’era rigidamente attenuto, e che saggiamente suggeriva di evitare commistioni tra amicizia ed affari.
Ma quel giorno la preoccupazione era affiorata spontanea nelle parole sommesse di quella confidenza inaspettata con cui, per la prima volta in tutti quei decenni d’intensa collaborazione professionale, s’era d’improvviso imposta come  ineludibile, la necessità di condividere un assillo così intimo.
Un atteggiamento inedito per il carattere schivo di Mimì Messinese, ma di cui Concetto Scalavino, passato l’attimo dello stupore, abilmente si accingeva a servirsene per portare l’altro sul proprio terreno, palesandogli il suo progetto come una strategia  spontanea, scaturita dall’empatia suscitata da quel suo scoramento evidente a cui non solo emotivamente partecipava, ma se ne faceva carico, fornendogli una soluzione istantanea, semplice e di buon senso

…per Giandomenico, così timido e schivo, una moglie bella, e di carattere, sarebbe stata la soluzione a quei problemi esistenziali di cui Mimì Messinese gli aveva fatto l’onore della confidenza.
Una moglie bella e ricca, la cui ingente dote non solo sarebbe servita a garantirgli la tranquillità indispensabile a poter coltivare il suo talento al riparo dagli assili ineludibili della quotidianità ma, inoltre, avrebbe fugato i sospetti di un matrimonio di convenienza. Quella ricchezza avrebbe attestato il sentimento e non il calcolo, permeando di romanticismo la loro unione e, perfino, positivamente modificato l’immagine pubblica di Giandomenico Messinese, il cui ermetismo congenito gli aveva alienato le simpatie del pubblico e gli entusiasmi della critica. Questa nuova immagine sarebbe andata  morbidamente sovrapponendosi a quella scorbutica ed introversa dell’asociale. Un’immagine  più conformista, e di più facile accettazione, di uomo austero ma di meritata fama e di solidi valori. Una moglie gravida, in ultimo, avrebbe posto fine a tutte le insinuazioni maligne, lesive della persona e dell’onore, e sfatato l’ignobile diceria, dettata dall’antipatia e dall’invidia, che voleva il giovane artista attratto da quelli del suo stesso sesso.