FEMMINA. E SENZA OMBRA DI DUBBIO.
Rebecca era nata in un mondo limitato, vuoto e silenzioso che lei, al momento della sua nascita, aveva provveduto a colmare con abbondanza di capelli e vigorosi vagiti.
Era fuoriuscita dalla vagina esausta della madre, avvolta nel bozzolo rosso della sua chioma, contestando, a pieni polmoni, la sorpresa per quella fraudolenta, estirpazione uterina.
La levatrice, con fatica, aveva convinto la madre ad attaccarsela al seno per metter fine a quel trambusto neonatale, poiché la puerpera, dopo i patimenti del parto era preda della tentazione del ripudio, consapevole che anche quest’ultima figlia  avrebbe subito, al pari delle altre quattro che l’avevano preceduta, la fredda accoglienza paterna.
Ed in sopraggiunta sarebbe di nuovo sfumato lo splendido collier di Boucheron, 2.000 diamanti e zaffiri cobalto, pattuito come regalo per la nascita di un maschio.

Femmina. E senza ombra di dubbio.
La drastica conferma della levatrice aveva scaraventato nel mutismo dell’impotenza il padre della neonata, opulento commerciante nel ramo del legno e con ambizioni d’ebanista, che aspirava alla nascita di un figlio maschio a cui tramandare la prospera attività  famigliare, e la passione per i mosaici e gli intarsi.
Per lui avrebbe dato vita al più prestigioso laboratorio d’ebanisteria della storia, una fucina che avrebbe indirizzato alla sperimentazione giovani talentuosi  tra i quali, ne era certo, sarebbe emerso il nuovo Giuseppe Maggiolini.
E chissà, se dopo tanto sperare e tanto credere e tanto desiderare, come accade nei sogni più arditi,  sarebbe stato proprio quel figlio, battezzato col suo stesso nome, il redivivo Maggiolini.

Ed invece era nata lei, Rebecca, la quinta delle sue figlie.
A differenza, però, delle sorelle che passivamente avevano respirato l’indifferenza paterna, rimanendone poi condizionate con sintomi fisiologici quali l’incarnato opaco, lo sguardo incerto ed il languore nei gesti, Rebecca, niente affatto scoraggiata da quel freddo disinteresse, rifulgeva di luce propria.

Così, il ricco commerciante di legname, Concetto Scalavino, s’era dovuto rassegnare a questa ennesima, sconfortante paternità, quando ancora una volta erano andate deluse le sue speranze di un figlio maschio che gli garantisse la continuità del cognome e quella del commercio.
Questa bambina, però, sarebbe stata anche l’ultimo tentativo poiché l’utero amaro della moglie s’era dimostrato incapace di generare figli maschi e, oltretutto, le gravidanze ravvicinate l’avevano resa arida al riguardo di qualsiasi sessuale persuasione sperimentale, farmacologica o popolana, tant’è che s’era risolta a dormire in un letto singolo e con la porta inchiavardata, ben lontana dalla camera matrimoniale e dalle stanze delle figlie, così ferma nel suo proposito di castità da riuscire, lei così sensibile al potere seduttivo dei gioielli, a restare indifferente alla sofisticata insidia di una meravigliosa spilla, un capolavoro floreale in oro, smalto e gemme preziose, di Tiffany.
Lo sfavillante bouquet era stato sdegnosamente rispedito al mittente che, profondamente risentito nell’orgoglio, s’era astenuto da qualsiasi altro tentativo di corruzione coniugale, rimanendo comunque fedele a quel matrimonio ormai solo di facciata.
Concetto Scalavino s’era allora acquartierato nei suoi uffici commerciali dispensando la sua presenza casalinga  solo per le occasioni importanti, come le feste comandate e gli anniversari.
O quando necessitava la recita di un’armonia domestica.

Un’armonia così somigliante all’educato imbarazzo degli estranei che, ottemperando alle norme della creanza, sono usi scambiare le solite e banali frasi di circostanza sul tempo e la salute, e le stagioni che non sono più le stesse.
Maritate le figlie maggiori erano rimaste le adolescenti, Gemma e Rebecca, a suddividersi gli enormi spazi disabitati della casa, senza per’altro contendersi nulla perché estranee l’una all’altra, che niente mai avevano condiviso, neppure il ricordo dell’infanzia recente, quella indelebile memoria che, nel bene e nel male, accomuna nell’appartenenza alla stessa progenie.

Ma quando un giorno la madre delle sue figlie s’era affacciata alla soglia della sua camera d’esiliata, completamente nuda e con in mano un retino per farfalle con cui acchiappar le stelle cadenti e i frammenti delle code delle comete, che a suo dire la perseguitavano col loro bagliore esasperato impedendole il buio e il sonno, e mostrandosi refrattaria a qualsiasi ragionevole convincimento che la distogliesse da quella sua bislacca guerra alla Via Lattea, che Concetto Scalavino s’era risolto ad un ritorno stabile in famiglia.

UN CUCCIOLO DI CANE. UN CUCCIOLO DI LUPO.
Rebecca e Gemma, cresciute senza l’ausilio del mondo adulto, abbandonate a se stesse, ignoravano l’arte del compromesso così come le sottigliezze della mediazione e, non avendo cognizione di codici etici a cui far riferimento, incarnavano quanto più d’incondizionato si potesse trovare in creature nate nel secolo moderno dell’industrializzazione.

Un cucciolo di cane.
Un cucciolo di lupo.
Entrambe ringhiavano.
Entrambe mordevano.

Ma, mentre nel ringhio di Gemma s’intuivano note di pianto, un disperato quanto remoto bisogno d’amore, la necessità di scodinzolare per accaparrarsi una lode o una carezza, e la disponibilità, seppur non francamente espressa di un’adozione, con la resa incondizionata, dopo una breve lotta, dove il cucciolo di cane, sguainati zanne ed artigli, avrebbe ben fatto attenzione, però, a non dilaniare quella mano che pur gli si tendeva. Solo una piccola, quanto indispensabile dimostrazione di fierezza, per cui la resa, alla fine, non sarebbe risultata troppo umiliante.
Rebecca, cucciolo di lupo, invece, quella sua anarchia, scaturita in parte dall’ignoranza delle regole societarie ed in parte naturalmente congenita nella sua natura, esaltava come dote preponderante di un carattere impavido, fiero ma non altero, e comprensivo di quella lealtà insita nei temperamenti superiori, dati inconfondibili del pedigree di un campione di razza, che si traduceva nel divieto franco, e non reiterabile, a sconfinare nel suo territorio. Un avvertimento schietto che, se disatteso, il cucciolo di lupo non avrebbe avuto nessun tentennamento nell’azzannare l’improvvido trasgressore.

Concetto Scalavino, aspirante genitore di un figlio maschio, si era trovato così a doversi confrontare con quelle sue due figlie a lui assolutamente sconosciute.
Un confronto davvero difficile, questo, che s’era accinto ad affrontare con lo stesso piglio col quale trattava i suoi prosperi affari, basato sulla secolare, e sperimentata transazione, del dare e dell’avere, salvo rendersi conto, quasi da subito, che stava invece imbastendo un fallimento e, soprattutto, che entrambe le figlie, a differenza della loro madre, erano immuni al fascino corruttivo dei gioielli.
Gemma e Rebecca, d’altro canto, non nutrivano ostilità preconcette nei riguardi del padre, piuttosto una sorta d’irridente curiosità davanti a quei suoi palesi, quanto infruttuosi, tentativi di corruzione. Una scorciatoia puerile per abbreviare i tempi con cui accreditarsi nel suo ruolo genitoriale, saltando i preamboli della conoscenza e affidandosi, invece, a quella consolidata prassi per ottenere favori e supremazie, sperimentata con successo nella sua lunga, quanto prolifica esperienza di uomo d’affari.