Sdraiato sulla branda in cella, Ben ripensa a quella che era stata la sua vita fino a pochi anni prima. Una vita felice, piena d’amore per la sua Linda e per i piccoli David e Samuel. Ora si domanda perché il destino ha
voluto colpirlo così duramente, perché proprio lui che non aveva mai fatto male a una mosca! Chiude gli occhi già colmi di lacrime e si lascia andare ai ricordi:
«Ciao bambini, papà va a lavorare!»
«Non andiamo al Luna Park? – rispondono in coro».
«Mi dispiace, un impegno imprevisto, andremo un’altra volta.»
«Ma papà, avevi promesso! Mamma, diglielo tu!»
Linda lo guarda: «È vero caro, non puoi proprio rimandare l’impegno?»
«No purtroppo, devo andare.»
I bambini, delusi, tornano in cameretta.
Ben dà un bacio a Linda sulla porta di casa:
«Ciao amore, stasera porterò un regalino ai bambini per farmi perdonare.»
Linda lo abbraccia un momento, quindi lui si dirige verso il box. Uscendo dal cancello per immettersi nella strada vede un’auto parcheggiata poco distante, non dà peso alla cosa e prosegue.
Sul petto di Ben scende un macigno, mentre ripensa a come si svolsero i fatti.

«Ben, devi andare subito a casa, la polizia ha chiamato dicendo che è successo qualcosa, un incidente credo, non mi hanno voluto dire altro»
«Oh mio Dio, che sarà successo, vado subito».
«Mi raccomando, fammi sapere».
Ben divorò la strada che lo separava da casa, l’angoscia lo attanagliava, temeva che uno dei figli si fosse ferito, o che la moglie avesse avuto un malore.
Arrivato al cancello della villetta, vide con raccapriccio ambulanze e auto della polizia. Si precipitò fuori dalla macchina e corse verso l’entrata. Un agente lo fermò:
«Non si può entrare»
«Mi lasci! Io abito qui, c’è la mia famiglia lì dentro!»
Il commissario intervenne subito:
«Lasciatelo passare!  L’accompagno, si faccia forza.»
«Ma…che succede, nessuno mi ha detto…»
Per prima cosa vide il corpo di Linda. Era seminuda, coperta di sangue.
«Nooo! Dio noooo! Lindaaaaa!»
Le gambe gli cedettero, il commissario e un Agente lo sorressero, Ben ebbe uno sobbalzo:
«I bambini! Dove sono i miei bambini!!!»
Si liberò della stretta dei poliziotti e proseguì da solo, cercando disperatamente i figli. Non ci volle molto, erano poco distanti dalla madre, anch’essi insanguinati, uccisi senza pietà.
Il pover’uomo con le mani nei capelli, spalancò la bocca in un urlo spaventoso, senza fine, l’orrore e il dolore ebbero il sopravvento, cadde a terra privo disensi.
Lo portarono all’ospedale, i medici lo tennero sedato e sotto osservazione per alcuni giorni, temevano che si suicidasse, uno psicologo era a disposizione per intervenire al momento del risveglio. Nel frattempo la polizia svolse le indagini, interrogò i vicini, qualcuno
vide una macchina ferma lì vicino, ma non vide la persona al volante. Una vicina disse che un uomo le chiese di poter usare il telefono, aveva un guasto alla macchina. Lei rispose che non aveva telefono e lui si
allontanò.
«Chissà se era l’assassino» – disse la donna rabbrividendo.
«Lo riconoscerebbe signora?» – chiese il Commissario
«Sì, credo di sì, ma le confesso che ho paura».
L’autopsia rivelò che Linda era stata aggredita e violentata prima di essere accoltellata. I bambini che probabilmente erano in cameretta, accorsero alle grida della madre, e per loro non ci fu scampo, furono uccisi con due coltellate ciascuno.
Intanto Ben tornava piano piano alla realtà, i dottori gli avevano abbassato le dosi di sedativo, ogni tanto si svegliava e chiamava Linda, le chiedeva come stavano i bambini, poi, in un attimo di lucidità ricordava, rivedeva la scena orribile, allora piangeva e pronunciava frasi sconnesse. Lo psicologo gli stava sempre vicino, confortandolo e tenendogli le mani. Era abituato a consolare le persone, era il suo lavoro ma, si sentiva impotente di fronte alla montagna di dolore che
opprimeva quell’uomo.
Grazie ad alcune testimonianze e all’identikit, l’assassino fu catturato. La polizia lo protesse dal tentativo di linciaggio da parte degli abitanti del quartiere, inorriditi di fronte a tanta ferocia.
I giorni passavano, Ben riacquistava piano piano un po’ di lucidità, volle assolutamente vedere in tv le immagini dell’assassino della sua famiglia. Impresse la sua faccia nella mente come un marchio a fuoco.
Il cronista spiegava che l’uomo, ai poliziotti che lo interrogarono disse che una voce gli aveva suggerito di uccidere, che doveva purificare il mondo dal male e altri vaneggiamenti simili. L’avvocato chiese una perizia psichiatrica dalla quale risultò che l’uomo era normale
ma, incapace di intendere e volere al momento del reato.
Tra patteggiamenti e cavilli vari, fu condannato a dieci anni. Dopo cinque anni gli concessero di uscire quattro ore al giorno per poter lavorare in un’officina poco distante dal carcere.
La sua buona condotta fece sì che gli anticipassero l’uscita dal carcere di altri due anni. Dopo soli sette anni era un uomo libero!
Ben non battè ciglio quando lo seppe: sapeva cosa fare. Aveva avuto sette anni per pensarci, per non impazzire, aveva organizzato con la massima precisione la sua vendetta.
Si era informato bene: l’uomo avrebbe continuato a lavorare nell’officina, pare che fosse un buon meccanico, dopo il lavoro sarebbe tornato a casa, dove viveva con l’anziana madre.
Ben telefonò all’officina dicendo di avere la macchina in panne e se potevano mandare qualcuno ad aiutarlo. Il capo rispose di sì, avrebbe mandato il suo aiutante, un ragazzo in gamba. Ben diede un nome e un
indirizzo falsi.
Fermò la macchina, si calò in testa un berretto per non essere riconoscibile e alzò il bavero della giacca.
Sarebbe stato tutto inutile se l’assassino l’avesse riconosciuto. Aprì il cofano e il bagagliaio e rimase in attesa. Vide il meccanico arrivare dal fondo della via, si sentì mancare, per un momento temette di non farcela,
immagini orribili gli invadevano la mente.
«Buongiorno signore – disse il meccanico – cosa è successo?»
«La macchina si è fermata, non capisco perché.»
«Do un’occhiata»
Bene – pensò Ben, non mi ha riconosciuto. Mentre l’uomo era intento a cercare il guasto, si guardò in giro.
Faceva molto freddo, non c’era nessuno, si chinò nel portabagagli e prese il cric. Si avvicinò velocemente al meccanico e lo colpì con violenza.
Si accasciò senza un lamento. Ben aprì la portiera e lo caricò in macchina, gli mise in testa un berretto per nascondere la ferita, chiuse il cofano e il portabagagli e partì verso casa.
Aprì il cancello automatico e andò direttamente in box. Nessuno lo vide.
Scese in cantina trascinando il corpo del meccanico, che cominciava a riprendersi e si lamentava debolmente.
Ben immediatamente lo legò mani e piedi ad uno scaffale di ferro ben fissato al muro e lo imbavagliò stretto. Con un pezzo di corda legò allo scaffale anche il collo, senza stringere troppo, non voleva che morisse
soffocato. Gli lasciò gli occhi liberi, voleva che lo vedesse in faccia. L’uomo aveva gli occhi sbarrati dal terrore, mugolava, il bavaglio era troppo stretto.
Ben si piazzò davanti a lui: «Mi riconosci?»
Il meccanico scosse la testa più volte.
«Sono Ben Davis, sette anni fa tu uccidesti mia moglie e i miei figli. Ora tu sei libero, loro invece non torneranno mai più! Ti sembra giusto?
Lo sguardo del prigioniero era inorridito, respirava velocemente attraverso il bavaglio. Ora ricordava – sono in trappola – pensò – mi ucciderà.
Ben continuò: «No, non è giusto, la legge ti ha punito troppo poco, penserò io a completare la condanna.
Non ti toccherò neppure con un dito, resterai qui, senza mangiare e senza bere, in piedi e legato a questo scaffale fino alla fine. Spero che tu soffra quanto ho sofferto io.»
Detto questo, si assicurò che i legacci fossero ben saldi e se ne andò chiudendo a chiave la porta.
Ogni mattina, prima di andare al lavoro, e ogni sera, al ritorno a casa, entrava in cantina e si metteva davanti all’assassino, lo guardava senza dire nulla per qualche minuto e se ne andava.
I primi due giorni il prigioniero provò a strattonare i legacci, ma se si muoveva troppo rischiava di strangolarsi, cercava di gridare, ma gli uscivano solo mugolii. Ogni volta che sentiva aprirsi la porta della
cantina, sperava che il suo aguzzino si impietosisse, che gli allentasse almeno il bavaglio, che gli liberasse il collo dalla corda. Ma lui si limitava a guardarlo negli occhi e andava via. La fame e la sete cominciarono a tormentarlo, le mani, i piedi e le gambe erano sempre più
indolenziti, avrebbe dato qualsiasi cosa per muoversi un
po’, per bere un goccio d’acqua. Aveva tanto sonno, ma ogni volta che reclinava la testa, la corda lo soffocava.
Il tempo non passava mai, un terrore cieco si era impossessato di lui, avrebbe fatto una fine orribile, lenta e dolorosa.
Passarono così dieci giorni, l’uomo era ormai l’ombra di se stesso, scheletrito e rantolante.
La mattina dell’undicesimo giorno, Ben entrò in cantina e vide subito che l’uomo era morto. La testa ciondolante, sorretta dalla corda. Andò subito a costituirsi alla polizia, rispose a tutte le domande e diede tutte le spiegazioni del caso. Ormai non aveva più niente da perdere, la vendetta era compiuta.
Fu processato e condannato, il carcere non gli pesava, gli altri detenuti lo rispettavano, era un padre che aveva vendicato la sua famiglia.

Ora, quando la sera le luci delle celle si spengono e i brutti ricordi tentano di assalirlo, Ben chiude gli occhi, la sua mente come in un film, riavvolge il nastro e proietta un’altra storia, per non impazzire, per non morire:

«Ciao bambini, papà va a lavorare»
«Non andiamo al Luna Park?»
«Mi dispiace, un impegno imprevisto, andremo un’altra volta».
«Ma papà, avevi promesso, mamma diglielo tu».
Ben guarda Linda che annuisce, guarda i bambini in ansiosa attesa poi, sorridendo, fa una telefonata e rimanda l’appuntamento.
«A posto! Si parteeee!»
Ben, coi bambini aggrappati al collo, corre ridendo verso la macchina.
Linda li segue divertita, chiude la porta e li raggiunge.

(tratto da “La bambola e altri racconti” di Graziella Dimilito)