PERCHÉ SCRIVO

Avevo quattordici anni, iniziava il cambiamento.
Uscivo dal bozzolo dell’infanzia, sicuro e dolcemente protettivo, per addentrarmi, come tutti in quel periodo della vita, nell’ignoto mondo della pubertà: il passaporto per entrare di diritto nel covo dei pirati, dove devi cavartela da solo, senza l’ausilio di un padre o una madre, pronti a fare scudo ai probabili fendenti dei filibustieri.
Il tutto nella speranza che le ferite inflitte, perché ne avrai, non siano mortali, ma soltanto leggeri segni sulla tua tenera pelle che sa ancora di latte.
Non immaginavo quanto potesse essere difficile.
M’incamminavo sulle strade di quel mondo atipico per me, come un turista che si perde tra le strette e intricate strade di una città sconosciuta, prive di una segnaletica che possa indirizzarti dalla parte giusta.
Invece ho scoperto da subito che non esiste una parte giusta, ognuno segue il suo istinto, che sia una strada asfaltata o un sentiero di montagna, a volte perché costretto a scegliere in fretta a causa delle imprevedibilità della vita, e così io che avrei voluto montare su di un’auto sportiva, sfrecciando sulle superfici scorrevoli di un’autostrada, mi sono ritrovato su di una camionetta percorrendo le impervie e sconnesse strade in salita di gioghi montani.
Obbligato a crescere in fretta, con una genitrice assente, soggiogata dalla depressione e, per molto tempo, incapace di riconoscere i propri figli, una larva strisciante, alla quale gli elettroshock hanno bruciato parte dei ricordi.
Un padre incapace di esserlo, non per sua colpa, ma per le mancanze affettive che, nella sua infanzia, gli hanno negato il diritto all’amore, di riconoscerlo e condividerlo.
E una sorella più piccola alla quale badare, catapultato oltre la leggerezza di quel periodo della vita senza il privilegio di poterla vivere.
Circondata di vaporosità e frivolezza si, ma necessaria allo sviluppo, al concepimento della personalità, la cui assenza mi ha trasformato in un adulto prematuro, solo e insicuro, tra le grinfie degli uomini, simili a rapaci pronti a ghermirti l’anima, scavare nella testa e banchettare con la massa molle.
Avrei potuto perdermi.
E invece ho trovato me stesso.
La scrittura è stata il cratere del vulcano che covavo dentro, un magma compresso che aveva bisogno di esplodere e fuoriuscire perché io potessi continuare a vivere.
Le prime poesie, involute e complesse grafie delle mie sofferenze, momenti personali di autoanalisi, sono state l’incipit di qualcosa di straordinario che, inaspettatamente, non potevo più tenere solo per me.
L’alba di un giorno nuovo, fatto di sillabe e parole da costruire, pensieri da imprimere su carta, stati emotivi emersi che desideravo condividere e che fossero compresi.
A volte non lo sono stati.
Dentro di me avvertivo una diversità: possedevo un terzo occhio permeato d’inchiostro.
Sono passati molti anni da allora, una vita, forse due, le mie mani sono invecchiate, e scorrono meno velocemente sulla tastiera del computer.
Già.
Non uso più la penna o la macchina per scrivere, la tecnologia è andata avanti e mi sono adeguato, ma ciò che è rimasto intatto, come allora, è il bisogno di esserci, di donare qualcosa di speciale, di regalare un sorriso o una lacrima a chi legge.
La mia felicità è fatta di queste cose.
Un sorso d’acqua nel deserto dei sentimenti.