Come ogni mattina, più o meno, da dieci giorni a questa parte, siedo sul divano nel soggiorno della mia casa a sorseggiare il caffè. Faccio con comodo, non ho nessuna fretta perché la scuola media dove lavoro come bidella ha chiuso i battenti, come tutte le scuole di ogni ordine e grado. Mi mancano molto gli studenti e i professori che con me sono sempre affettuosi. Sono proprio angosciata! Non ho neanche il piacere di andare a vedere le vetrine dei negozi, soprattutto di abbigliamento, dove di solito compro sciarpe, maglioni e vestiti carini. E non posso neanche sedermi a un bar a gustare la colazione o andare a mangiare la pizza in un ristorante perché tutti questi esercizi sono chiusi. Per non parlare dei parrucchieri. Anche loro hanno serrato le saracinesche e quando guardo i miei capelli inorridisco. Ho una ricrescita da far paura e avrei bisogno di una tinta. Sono aperti solo i supermercati, i tabaccai, le edicole e le farmacia. Ma non fumo e per mia fortuna, per il momento, non ho bisogno di medicine. Mi restano solo due possibilità per uscire un po’. Che angoscia! Vado alla finestra per guardare fuori, ma non c’è nessuno. Tutto questo a causa del coronavirus, una malattia che si è diffusa improvvisamente in Italia, che colpisce le vie respiratorie e può causare anche la morte. Come una grande peste. Non posso incontrare nessuno perché devo evitare il contagio, che può avvenire con uno starnuto o con la tosse ma anche solo con strette di mano, con un bacio o un abbraccio. Quindi, secondo un decreto legge dobbiamo restare a casa, isolandoci dagli altri. E questo per me è un dramma. Per uscire, cerco di fare spesso la spesa, ma con mascherina e guanti e munita di autocertificazione. In queste occasioni il mio paese mi appare desolante e mi intristisco molto. Sono come un’emarginata e capisco chi l’emarginazione la vive da sempre sulla propria pelle. E capisco anche tutti gli italiani che stanno vivendo la mia stessa esperienza piangendo tutti i morti che ci sono stati e che continuano ad esserci. Per non fare la stessa fine devo stare a casa. Ma il Governo, non è a conoscenza con che razza di marito sono costretta a stare gomito a gomito in questi giorni. Rocco beve e mi picchia per ogni più piccola cosa andata storta. Da anni subisco i suoi maltrattamenti, perché non ho mai avuto la forza di denunciarlo. Oggi è voluto andare lui al supermercato, sicuramente per rifornirsi di birra e di vino, così si ubriaca e mi picchia meglio. Basta fare la pasta scotta, come è successo in questi giorni, che accade un putiferio. Mi tira i capelli, mi da pugni, calci e spintoni, urlando come un pazzo: “Cretina, disgraziata. Sei un’incapace”
E come sempre cado in ginocchio, piangendo come una disperata. Ma non ho la forza di fare altro.
Rocco non è stato sempre così. In passato, con me, era gentile e cortese. Lo conobbi a casa di Gino, mio ex fidanzato che faceva il pittore e si faceva aiutare da Rocco che se ne intendeva di muratura. Quando lo vidi la prima volta, rimasi colpita dal suo aspetto. Era alto, slanciato e aveva tanti capelli ricci neri come il colore dei suoi occhi. La prima volta che ci incontrammo tutti e tre, Gino gli disse che ero la sua fidanzata e lui si presentò come suo amico, dandomi la mano e guardandomi con tenerezza. Con il tempo, con lui, nacque un’amicizia più stretta e quasi tutte le sere cenavamo tutti e tre a casa di Gino parlando del più e del meno. Rocco mi lanciava sguardi languidi che facevo finta di non vedere. Improvvisamente Gino si ammalò e venne a mancare. Con Rocco ci incontrammo al suo funerale. In chiesa ci sedemmo nella stessa fila. Dopo la funzione mi invitò a mangiare a casa sua. Rocco viveva ancora con la madre vedova in una piccola casa nel paese vecchio. Quando entrammo nel suo piccolo appartamento ci venne incontro proprio lei, una donna piccola e magra che però sembrava energica. Aveva i capelli grigi e gli occhi azzurri come il cielo. Mi abbracciò affranta e con le lacrime agli occhi disse: “Non ho parole di conforto per la morte del tuo Gino. Ma se può rincuorarti un poco, vieni a vedere cosa ho preparato per voi”.
La seguii in cucina e lei alzò il coperchio di una pentola sul fuoco piena di gnocchi. Le sorrisi grata. Facemmo un buon pranzo. Dopo, dal momento che era una bella giornata di maggio, Rocco mi accompagnò a fare una passeggiata ai giardini del Comune. Dopo aver camminato tanto ci sedemmo a riposare su una panchina, e parlammo di Gino. Di come si ammazzava per il lavoro trascurando molto la sua salute, quasi ignorando la sua malattia polmonare, causa della sua morte. Rivangando questi ricordi scoppiai in lacrime che Rocco, molto delicatamente, asciugò con un fazzoletto. Si fece quasi sera e lui mi accompagnò a casa. Già vivevo sola in un piccolo appartamento a via Ischia, che mi mantenevo con il mio lavoro di bidella.
Rocco nel salutarmi, mi disse: “Non sparire dalla circolazione. Mi piacerebbe trascorrere ancora del tempo con te.”.
“Volentieri. Dopo il lavoro di entrambi possiamo vederci, possiamo vederci ancora.”.
Nei giorni seguenti, difatti, ci incontrammo per fare delle lunghe passeggiate, mangiammo anche tanti gelati nel bar preferito da Gino, e andammo anche a mangiare la pizza in un locale caratteristico del paese vecchio. Poi un giorno, anche per ricambiare l’ospitalità che mi offrì la madre, quel fatidico giorno della morte di Gino, lo invitai a pranzo a casa mia. Preparai le lasagne e le polpette con tanto di patatine fritte, che lui gradì molto. Mi aiutò a sparecchiare e mentre mi accingevo a lavare i piatti mi baciò il collo. Mi girai e ci baciammo con passione. Lo presi per mano e lo condussi in camera da letto dove facemmo l’amore in modo impetuoso. Dopo, lui mi disse: “Sono innamorato di te dal primo giorno che ti ho vista. Vuoi sposarmi?”.
Gli buttai le braccia al collo e urlai: “Siiiiiiiiiiii!”.
Ci sposammo il 13 ottobre del 2010 nel Duomo del nostro paese. Fu una cerimonia semplice con pochi invitati. C’erano i rispettivi genitori, i miei vennero da Napoli, dove lavoravano in un ristorante. C’era qualche amico e qualche collega di lavoro. Dopo la funzione andammo a mangiare in un bel ristorante del paese. Il giorno dopo partimmo per Parigi, che girammo in lungo e in largo grazie alla sua bellissima metropolitana. Ero al settimo cielo, come se stessi vivendo una favola che ben presto, però, divenne un dramma.
I primi tempi, tra noi, tutto andava bene, poi Rocco cominciò a desiderare di diventare padre. Una domenica mattina mentre stavamo a poltrire ancora nel letto, mi abbracciò e mi disse: “Vogliamo fare un figlio? Mi piacerebbe un bel maschietto, così quando cresce giochiamo insieme a pallone e lo porto anche, con me, a pesca. Comunque anche una femminuccia non sarebbe male.”.
Lo abbracciai e affondai il viso sulla sua spalla e tra le lacrime svelai il mio segreto: “Rocco non posso avere figli a causa di un incidente stradale avuto da bambina.”.
“Cosa? E melo dici solo ora? Disgraziata. Sei un cesso di donna. E pensare che ti ho sposata per formare una famiglia.”.
Mi trascinò fuori dal letto tirandomi per i capelli e mi prese a calci. Me ne diede di santa ragione. Poi si vestì di corsa e uscì di casa sbattendo la porta. Per un po’ rimasi a terra tutta dolorante, poi andai a lavarmi e scoprii che ero piena di lividi. Cosa avrei detto l’indomani a scuola? Ero allibita e disgustata della reazione di Rocco. Proprio non me l’aspettavo. Rientrò ubriaco e dormì per il resto della giornata mentre mi tormentavo con i sensi di colpa. Non facevo altro che dirmi che avrei dovuto dire prima a Rocco della mia impossibilità ad avere figli, ma non lo feci perché da lui mi sentivo amata come persona, e non immaginavo che mi aveva sposata vedendo in me solo una donna per procreare. Comunque la violenza domestica non finì qui. Ormai Rocco aveva completamente cambiato il suo atteggiamento nei miei confronti. Era sempre brusco e astioso. E se dopo aver bevuto qualcosa non gli garbava mi picchiava sempre. Furono tante le volte che andai a scuola ricoperta di lividi che giustificai in mille modi. Per non parlare dei giorni di malattia che presi, ora per un braccio, ora per una gamba rotta: mi inventavo falsi incidenti per salvare Rocco dalla galera. Ormai il nostro rapporto si reggeva in piedi solo perché io ero la sua vittima e lui il mio carnefice.
Ma in questi giorni, anche a causa dell’isolamento a casa, mi sento esasperata. Potrei commettere una sciocchezza da un momento all’altro.
Interrompe il flusso dei miei pensieri, il rumore della chiave nella toppa della porta d’ingresso. E’ Rocco, come ho immaginato. Trasporta due buste con bottiglie di vino e birra, che dispone in frigorifero. Poi con arroganza mi dice: “Che stai in panciolle? Non si mangia niente, in questa casa?”.
“Ho preparato il riso e i petti di pollo.”.
Ci sediamo in cucina per pranzare. Ma al primo boccone mi dice: “Il riso è salato, stronza.”.
Non faccio in tempo per replicare che mi prende per i capelli e spiaccica il mio viso nel piatto di riso. Non ci vedo più, mi alzo, lavo il mio viso. Lui inizia a fare avanti e indietro in cucina con i pugni chiusi e le mascelle serrate. Fa sempre così, quando mi deve picchiare.
Sono presa da un furore incontenibile che non ho mai provato prima. Lo precedo, prendo il coltello del pane e in un attimo di sua distrazione, lo pianto nel suo stomaco. Lui si accascia sul pavimento in una pozza di sangue.
Mi chino verso di lui e con due dita sulle labbra, dico balbettando:“Roc co non vo le vo, non vo le vo…”.
Ad un tratto sento una sirena. Qualcuno del palazzo sentendo le urla deve aver avvertito le forze dell’ordine. Vado ad aprire la porta ai carabinieri e quando entrano in casa mi costituisco, “Ho ucciso mio marito.”.
Ma intanto arriva anche la Croce Rossa, che è stata chiamata dai carabinieri e faccio appena a sentire uno degli operatori sanitari: “Non è morto.”.
Tiro un respiro di sollievo, me ho le manette ai polsi. E pensare che avrei voluto solo proteggermi dal coronavirus, che beffa il destino!