Amore mio, questa volta no, non risponderò alla tua domanda. Non volermene. Ti osservo in questo letto, avvolta dal tuo lenzuolo sottile e dalla mia meraviglia. Nulla è più desiderabile che percorrere con il senso del gusto tutta la tua pelle. Ma fa lo stesso. No. Non risponderò alla tua domanda.

Tu ora mi vedi così, un po’ appesantito, pigro, sedentario come un divano. Ma non è stato sempre così. O meglio, quasi sempre tranne in quel lontano 1990. Ero un giovane uomo e già avevo perso ogni disincanto e lasciato che la vita mi si mettesse di traverso. E senza una ragione precisa e individuabile.
Non so per quale motivo, ma ad inizio estate mi svegliai dal torpore, acciuffai il mio consunto Invicta dei tempi della scuola, ci misi dentro due paia di mutande, due magliette, calzini di ricambio, tutto il denaro che non mi ero ancora bevuto e che avrei dovuto usare per pagare l’affitto della mia stanza doppia… che tanto stavo per abbandonare per sempre.
Di più non era possibile infilarci. C’era poi la mia chitarra, che rendeva impossibile considerare altro ingombro. Ed iniziai a camminare, in apparenza senza meta, ma in compagnia del gabbiano Amilcare. No, non mi capitava ancora come è avvenuto più di recente, con il leone allo zoo, i gufetti di pelouche, o le statuine sudamericane per intenderci; ma quel gabbiano, ci avrei giurato, mi seguiva – a tratti in volo, a tratti saltellandomi euforico intorno – e per quanto mi rendessi conto di essere io a riprodurre il suono della sua voce, ci parlavo. Un tipo entusiasta Amilcare. Sempre pronto a vedere il bicchiere mezzo pieno, mentre io, come sai mi prodigavo per svuotarlo del tutto.

A quei tempi risiedevo a Civitavecchia. Per campare suonavo nei locali che animavano il sabato sera lungo la costa tirrenica dell’alto Lazio. Una baracca in affitto. Io e altri quattro. Senza futuro. Non che questa cosa del “futuro” per me abbia mai avuto un qualche senso. Tranne forse… tranne il futuro di Martina. Diventare padre ti cambia. Ma io non lo sono diventato subito. Sono diventato padre dopo anni dalla nascita della mia unica figlia. E a causa di questo – e tu lo sai bene amore mio – solo di recente ho ottenuto il suo perdono, non dovuto e non scontato.

Come ero arrivato a Civitavecchia? Credo fosse per fuggire dallo sguardo stanco della mia povera madre.
Uno pseudo-amico millantò una qualche occasione di diventare ricchi. Non gli credetti un solo secondo. E lo seguii.

Anche andarmene da questa nuova residenza fu questione di un attimo. Come ti ho detto era inizio estate, vedevo i turisti riversarsi a flotte nel porto… ed io non ero mai stato in Sardegna. Proprio non mi interessava la Sardegna!
Quel gabbiano mi indicò la strada per la nave diretta ad Olbia.
«Vai, vai, sali! Vedrai meraviglie. Spiagge di tutti i colori, mare di smeraldo!».
«Odio la spiaggia. Sono un animale notturno io».
«Avrai sentito parlare dei locali della Costa Smeralda, o no?».
«Sì, e di sicuro non sono il mio genere. Per non parlare dei soldi, che da quelle parti non mi basterebbero per una serata».
«Ma allora perché ti stai imbarcando?».
«Non lo so. Qualcosa mi sta chiamando…».

Sulla nave vomitai anche l’anima. Ero l’unico in quello stato. Non mi ero mai imbarcato prima. Ebbi la riconferma della totale reciproca avversione tra me e l’elemento marino.
Io sono un tipo che ama sporcarsi con la terra. Magari in bilico tra lo starci sopra, in mezzo o finirci sotto. Vicino al bagnato ho sempre avuto l’impressione di diventare poltiglia.
«Non ti capisco, amico. Se odi così il mare, che senso ha navigare verso un’isola?».
«Certo che sei strano Gabbiano Amilcare, non eri tu, prima che mi consigliavi la Costa Smeralda? Te l’ho detto, qualcosa mi chiama. E in fondo l’odio è un sentimento nobile. Soprattutto in assenza di altri sentimenti».

Il viaggio fu interminabile. Ebbi visioni miste a voltastomaco per ore. Rividi tutta la mia esistenza, gli innumerevoli animali guida che avevo sognato in venticinque anni di vita (sì, chiamiamoli sogni vigili: prima mi rendevo ben conto di sognare. Fino alla volta del leone allo zoo sapevo ben distinguere tra verità e immaginazione) gli oggetti divennero tutti parlanti e poi percepii netta la disperazione di mamma davanti al susseguirsi dei miei fallimenti. Provai per la prima volta sincera pietà per lei.

Mi placai un po’ focalizzandomi su mio padre, sempre pronto a perdonare.
Con quel sorriso da prete. Gli occhi limpidi: l’uomo buono che io non avrei mai potuto essere.

I miei genitori per parecchio tempo sono stati i paladini delle mie cause perse. A partire dalla scuola. Durante i miei primi tre lustri, o qualcosa di più, mia madre fu una di quelle chiocce oppressive che giustificano la pessima resa (scolastica, ma anche sportiva o sociale…) dei loro pargoli sempre con una causa esterna.
Era via via colpa dei professori incapaci, o dei compagni di classe simili a Lucignolo, che mi trascinavano sulla cattiva strada, delle ragazzine vestite in modo succinto che mi distraevano, o delle materie noiose, del sistema scolastico alla deriva, del particolare microclima, dello smog, dell’influsso astrale della Luna in Saturno…
Per anni mia madre MAI diede colpa a suo figlio svogliato.
Finché non ne poté più e diede a me anche la colpa dei professori incapaci, dei compagni di classe, delle ragazzine vestite in modo succinto, delle materie noiose, del sistema scolastico alla deriva, del particolare microclima, dello smog, della luna in Saturno.
Non mio padre. Mio padre continuava a sorridere. Sempre. Anche quando feci uscire la sua macchina dal garage a marcia indietro, con lo sportello aperto, e me lo ritrovai staccato dall’abitacolo.
Per fortuna era domenica, accompagnai papà e il suo sguardo incredulo nella semplice sala da pranzo e accesi la messa in tv. E in poco il suo volto corrucciato tornò sereno.

Oltre a ciò, i professori, assai furbi, mi diedero lo scettro di “eroe negativo”. Perché, a quanto pare, la mia cattiva condotta suscitava negli altri desiderio di emulazione.

“Eroe negativo”… capisci? Per me era un complimento! Perché mai cambiare. Quanto fa fico essere un bastardo di eroe negativo…?

La chitarra si sposava bene con il personaggio. I Doors, Jimi Hendrix, I Ramones, i Led Zeppelin… Per fortuna li incontrai sulla mia strada verso la perdizione. O non avrei avuto neanche quelle sei corde per tirare a campare. Alcol e droghe, inutile a dirsi, furono presto ospiti fissi dentro le ampie tasche del mio consunto giaccone in pelle. Tutto per fuggire da mammà, che mi avrebbe voluto damerino e avvocato.

Conclusasi quella infernale traversata mediterranea, sempre a piedi, dopo una notte a vomitare sul ponte, con i piedi che andavano a fuoco negli stivali, raggiunsi un campeggio.
E sentii musica amplificata… in quel luogo qualcuno suonava…
«Chissà, magari cercano un chitarrista per l’estate…».
Il gabbiano Amilcare, che ovviamente mi aveva seguito fin lì, sì elettrizzò tutto.
«Certo! Ideona!».
«Una fine come un’altra…».
«Un inizio, lo hai detto tu che qualcosa ti ha chiamato fin qui, questo amico, me lo sento, è un inizio!!».

Entrai. E vidi la coppia perfetta. Ken e Barbie un po’ più attempati, tiravano avanti la baracca.
Animatori. Lui il “capo-villaggio”, lei la coreografa.
Due angeli caduti, che dopo aver annusato le luci della ribalta e aver lavorato per mezza stagione con i grandi a Broadway – di certo le ultime delle comparse – avevano utilizzato quell’esperienza come referenza per i villaggi della costa sarda.
Ken e Barbie ormai si potavano considerare stanziali in quel campeggio a cinque stelle, che fieramente marcavano come territorio inviolabile dai tentativi di terzi di emergere nel microscopico star system.
E quelle che avevo sentito erano audizioni. Per la band.

«Vai, vai, il posto sarà tuo amico mio, me lo sento».
«Sì, perché no».
«Sono qui per le audizioni…».
«Imbraccia il tuo strumento allora, cosa aspetti?» mi fa Ken con quei denti troppo bianchi dentro l’abbronzatura che già ho voglia di spegnere in qualche modo.
Lei invece è biondissima e mi guarda fisso. Forse perché è fasciata in un completino verde e lucido da ginnastica aerobica, ma da subito la sua espressione fiera e consapevole mi fa pensare ad una mantide. Ho come l’impressione, già da quello sguardo, che il posto sarà mio.

Prendo la chitarra elettrica. E mi metto a suonare, agitandomi come un pazzo, La grange degli ZZ top. A quel ritmo blues e concitato un bassista e un batterista prendono posto sul palco senza pensarci mezza volta. Questo, solo questo sono sempre stato. Ho sempre saputo di essere: un chitarrista pazzo.
La band è formata ed io sono il leader.
Barbie mi fa cenno di seguirla oltre una porta lì nei pressi.
«Spogliati».

«Cosa?»
«Ha ha cosa hai capito? Devo rifarti il look».
«Cosa ha il mio look che non va?».
«Nulla. Ma io perfezionerò il capolavoro…».

E fu così.
In breve ebbi l’aspetto di una rock star in vacanza.
«Wow! Quasi non ti riconoscevo amico… Credo tu piaccia un bel po’ a Barbie».
«Anche se fosse? Hai visto il bicipite di Ken, o no?».
«Ho come l’impressione che non badino molto all’esclusiva…».

Non fu facile per me abituarmi a quei ritmi, che mi vedevano la mattina presto già in servizio. A volte somigliava quasi ad una caserma quel camping village. Ma vitto, alloggio e alcol erano compresi… E non mi sconvolgeva il pessimo igiene dei luoghi destinati allo staff. In quel modo, almeno fino a settembre, non avrei avuto problemi pratici. E per me a quei tempi “fino a settembre” sembrava un secolo.
Ero il leader della band di quel microcosmo. Ero stato rimesso a nuovo da Barbie.
L’abbronzatura in risalto sotto il lino della camicia semitrasparente.
I capelli lunghi, quelli ancora lucidi e ribelli della giovane età.
Mi guardavo allo specchio e per la prima volta… sì, un po’ forse mi piacevo.
«Le donne, letteralmente, ti mangiano con gli occhi amico. Donne di qualsiasi età e situazione sentimentale. Che effetto fa sentire i loro sguardi addosso?».
«Dà alla testa».
Ed era vero. Stava diventando la più potente delle droghe.

E Poi, poi venne lei.
Anneke. Olandese. Un caschetto biondo. Poco più di una ragazzina. Mi guardava incantata mentre suonavo, e nonostante le luci di scena in faccia, non potei evitare il bagliore dei suoi occhi blu.

Finito di suonare scesi dal palco. Non c’era più.
Sparita.
Fuori dalla mia stanza però mi aspettava Barbie, per metà leccata da un raggio di Luna. Non potei fare a meno di desiderare di fare lo stesso. E lo feci.

Il giorno dopo evitai Ken come fa il diavolo con l’acqua santa. Ma me lo ritrovavo sempre trai piedi, coi i suoi 50 amichevoli denti: ero quasi certo che dietro ce ne fosse una seconda fila, come quella degli squali.
Ma ci fu un momento che stavo proprio per sbattermici contro e per quanto cercai, non trovai vie di fuga. Non mi andava proprio, dovevo evitarlo.
E allora mi sedetti al bar, anzi quasi mi lanciai sulla prima sedia libera che mi capitò, incurante di chi altro ci fosse ad occupare il medesimo tavolino.

«Hai da fumare?» chiesi nervoso, girandomi di scatto verso l’ignoto interlocutore e ospite.
«Sì, ma mio padre non sa. Ti passo sigaretta. Tu non fai accorgere…».
Anneke.
«Grazie. Non fa niente».
Sorrisi, immediatamente dimentico del casino nel quale forse mi ero cacciato.
«Stasera sento te suona. Sei bravo!».
«Dopo non te ne andare».

Inutile dirti che Amilcare, ormai perfettamente calatosi nella parte di mio grillo parlante, me ne disse di cotte e crude sui rischi in cui mi stavo mettendo.
«Questo si chiama scherzare col fuoco, mettere i piedi in due scarpe e, in definitiva, perdere il lume della ragione…».
«Qualche altro luogo comune?».

Non mi importò nulla. La sera suonai senza levarle mai gli occhi di dosso. E lei mi sorrideva. Dopo l’ultimo blues mi cambiai la camicia sudata e attraversai la sala ignorando i tentativi delle altre clienti che avrebbero voluto… insomma non guardarmi con quella faccia scettica, credimi, mi desideravano, sono pazzo, ma certe cose sono in grado di capirle!
Uscii dal locale che dava sulla spiaggia e la vidi mentre guardava la Luna. I piedi già nudi tra la sabbia fredda.
Mi avvicinai. Le girai il viso delicatamente e la baciai sulle labbra.
Quell’espressione stupita, incredula… avrei voluto rendere quello un istante eterno.
La accompagnai nella sua stanza.
E per la prima volta sentii di condurre i giochi con una donna. Lei mi seguiva e accompagnava ogni mio vezzo. Quando plasmabile, quando inerme, raramente dominante e solo su mia chiara manifestazione di interesse. Mia.

Tornai nella mia stanza al mattino. Per darmi una lavata. Avevo lasciato Anneke nuda e dormiente e posato un fiore giallo davanti al suo viso. Un giallo puro, privo di corruzione.
Per quella settimana Barbie si fece da parte: sì, mi guardava con espressione un po’ cinica a volte. Ma per fortuna nulla di più.
La sera prima della partenza di Anneke, stringendola forte, convinto come poche volte nella vita, le dissi:
«Ti amo. Staremo sempre insieme».
I suoi occhi si colorarono di mille tramonti. Ed io mi sentii così diverso, così lontano dal vecchio me stesso. Amilcare, persino lui, sembrava avermi lasciato in pace.
«Torneró presto. Estate ancora lunga».

La vita riprese senza di lei. Ci sentivamo quasi ogni notte. Io fui fedele nonostante le proposte esplicite delle turiste.
Un mese dopo Anneke mi disse al telefono che aveva comprato il biglietto per tornare. Credetti di essere felice, o almeno così le dissi. Barbie intanto era lì. Che mi osservava. Che mi aspettava…

«Lo sai che non durerà. Tu non sei tipo da farla durare».
«Forse un tempo, ma lei è diversa, lei puó…».
«Farti cambiare? Ma perché dovresti cambiare? Contrastare la tua natura… Credimi, quando si è come te, con una come lei non può durare».
Non le chiesi neanche cosa intendesse per “quando si è come te”, perché mentre parlava, anzi sussurrava, si sfiorava il seno perfetto e oscurava il bel viso con il più sporco dei suoi sguardi da mantide. Sì, fu un pugno nello stomaco, ma lo capii bene che aveva ragione.
Riapparve Amilcare a fare spallucce.
E nella notte, mentre Anneke viaggiava verso la Sardegna, solo per me, io e Barbie ci unimmo nella più inebriante delle notti colpevoli. Avevo deciso di rovinare tutto, proprio all’ultimo momento. Non ne capivo la ragione, né mi interessava indagarla, ma in qualche modo, forse, c’entrava la paura di veder la vita prendere il verso giusto.

Anneke arrivò. La osservavo da lontano mentre mi cercava all’ingresso del campeggio. E capì tutto appena mi vide. Perché io avevo voluto così. Nessuna spiegazione. Codardo fino in fondo.
Il suo sguardo si svuotò, sì, si svuotò di mille crepuscoli.

Di lì a breve seppi che Barbie era incinta di Martina. Ma questa è un’altra storia.
Cloe, ora capisci perché non ti risponderò: se staremo sempre insieme? Non lo so, quello che posso dirti è che non mi fido, non mi sono mai fidato di me stesso, per ovvie ragioni, e ho una fottuta strizza di trasformare anche i tuoi tramonti in mille crepuscoli.
«Ti amo. Staremo sempre insieme» .
Io le avevo detto così.
Per questo… se staremo sempre insieme, ecco, lo saprai l’ultimo giorno della mia vita, che di sopravviverti non ho alcuna aspirazione.