Mordecai è un nome ebreo. Al mio orecchio “italiano” ha un sapore tagliente ed incisivo. Può anche darsi ch’io stia dicendo una cosa che invece all’orecchio d’un rabbino suoni blasfemo. Ovviamente, così fosse me ne scuso, ma è sempre piuttosto semplice offendere le orecchie di un credente monoteista, ovverosia di un seguace di una qualunque delle religioni più intolleranti e sanguinarie della storia. Del resto, è pur vero che ignoro come questo nome suoni nella lingua originale e se comporti valenze spirituali.

Se ne parlo è perché sento il bisogno di raccontare dello scaffale di Mordecai Richler nella mia biblioteca e quel nome fu magnetico allorché, nel 2010, mi lanciai nell’impresa di acquistare il suo libro, La versione di Barney. Ignoravo infatti chi fosse costui, persino che fosse canadese, non israelita come suggeriva il nome e che fosse morto da 9 anni.

Oggi leggo su internet che in Italia Giuliano Ferrara del Foglio si arroga il privilegio d’aver lanciato lui, con la sua critica favorevole ed entusiasta, il successo del libro dalle nostre parti. Posso solo dire che meno male che all’epoca ignorassi questo sua pretesa: lo avessi saputo di certo mai avrei letto questo autore, tanta è la mia stima per questo signor giornalista… Ma, sorvolando su questa amena polemica, confermo che fu il nome, ancor più del titolo, ad affascinarmi: lo sentivo poeticamente coinvolgente (il che, se vogliamo, attesta che poi, a mia volta, non mi dimostro granché migliore di Ferrara, ma lasciamo perdere). Del resto a volte Mr. Alzheimer si presenta relativamente presto e la mia età di allora già non mi metteva più al sicuro.

Cominciai a leggerlo e sinceramente, dopo una trentina di pagine, ero decisamente sul punto di abbandonarlo: mi pareva un pazzoide e non riuscivo a capire cosa andasse blaterando. Pareva uno che scrivesse sotto l’effetto di qualche sostanza proibita, perennemente sbronzo e suonato come un pugile a fine carriera. Ed io non amo per nulla il pugilato (tolto il mitico Cassius Clay), bevo poco (non mi sono mai sbronzato) e quel paio di volte che ho provato a farmi una canna con amici non ho sentito un c… di niente (né capivo come e perché loro si dicessero in estasi).

Se non abbandonai la lettura dipese solo dal fatto che da sempre, fisiologicamente, mi costa in maniera quasi patologica rinunciare ad un libro prima della fatidica parola “fine” e le poche volte che l’ho fatto eravamo sempre in presenza di roba veramente indigesta (per i miei gusti, è ovvio). E poi (magari è facile dirlo col senno di poi) era come se, sotto sotto, sentissi un qualche solletichio, una sorta di leggero prurito che mi suggeriva di insistere. Fatto sta che una vocina mi propose: “ancora una decina di pagine. Se non cambia, sei autorizzato ad arrenderti!”.

La versione di Barney

E meno male che a quella vocina detti retta… diversamente mi sarei perso una delle opere più, vive, divertenti, interessanti, sorprendenti ed infine anche commoventi della letteratura contemporanea. Perché Mordecai abbia sentito la necessità di incasinare le cose con quelle prime 30-40 pagine non so proprio spiegarlo. A posteriori si prova la sensazione che avesse il bisogno, quasi fisico, di abituare il lettore al suo mondo squinternato ed alla maniera assolutamente rocambolesca di viverlo. Un linguaggio ch’è provocazione continua (onore al traduttore!), un susseguirsi si eventi che ti mozza il respiro, una sorta di perenne ironia che rasenta sovente il “politicamente scorretto” (non ci piove) e che disturba un po’ lo stomaco finché non ti assesti sulla poltrona adatta e trovi la giusta chiave di lettura. Quando ci riesci però il piacere ripaga con ampi interessi lo sforzo.

Il film

Ho visto anche il film che ne hanno tratto. Pur essendo un buon film, come sovente accade è ben poca cosa rispetto al libro. Intanto lo sceneggiatore, per questioni di durata e forse di anche di budget, ha tagliato completamente la prima parte, ovvero la storia della prima donna di Barney. Che, per certi versi, è la più intensa quanto a poesia e drammaticità. In più è ambientata a Roma e questo fa male, molto, al lettore italiano. D’altra parte, il povero sceneggiatore se obbligato a tagliare non poteva farlo altrimenti, visto che se è vero che la parte tolta è forse quella che più e meglio ti “abitua” alla bizzarria del personaggio e agli eventi successivi, è altrettanto vero ch’era l’unica che poteva essere sacrificata senza intaccare troppo il cuore “narrativo” della storia. Si perdono, è ovvio, tutti i richiami a quella parte della vita di Barney che sono invece funzionali al succedersi degli eventi, ma solo chi ha letto il libro lo sa.

Criticabile poi la scelta dell’attore protagonista nel ruolo principale che, sebbene riesca in parte a descrivere l’eccentricità unica di Barney, al tempo stesso ha una fisicità piuttosto improbabile per l’immagine di “tombeur de femmes” che il protagonista riveste nelle pagine scritte. Infatti la storia, al di là dei mille risvolti satirici, è indubbiamente incentrata sull’incapacità cronica di Barney di essere fedele sessualmente ai suoi “amori” pur travolgenti e assoluti. Così come è incapace, del resto, d’essere onesto e/o leale nella vita in generale e persino coi figli.

La capacità di guardare “dal di dentro” la propria cultura

Il finale del libro, poi se vogliamo, oltre ad una certa genialità ed al fatto di sottendere l’età avanzata in cui l’autore ha realizzato l’opera (lo ha pubblicato pochi anni prima della morte), è vissuta sul filo di una progressiva malattia mentale che lo scrittore descrive a modo suo con incredibile ironia, assai difficile da trasferire sullo schermo.

Per certi versi è possibile ritrovare in queste pagine una sorta di Woody Allen, ancor più dissacrante e decisamente perverso, impregnato di quella complessa e contraddittoria filosofia di vita tipica di certi ambienti radical-chic dell’intellighenzia ebrea che viene messa sistematicamente alla berlina. Tanto che son piovute su autore ed opera le solite, immancabili critiche di “antisemitismo” da parte della comunità più tradizionale della comunità ebrea che controlla Wall Street. Nulla di nuovo sotto il sole, del resto: non c’è una briciola di antisemitismo nel libro – inteso quanto meno come “nuovo razzismo” – ma di certo una feroce satira sulla mentalità ch’è poi la stessa che troviamo nella questione palestinese. Ma questo ci porta lontano e “fuori sede”; qui non possiamo che inchinarci (almeno per quello che mi riguarda) a questa fantastica capacità di guardare “dal di dentro” la propria cultura, le proprie radici, le contraddizioni che chiunque può cogliere in certe pretese religiose se solo avesse il coraggio di sollevare determinati veli (e non vale solo per l’ebraismo, sia chiaro a tutti).

Dicevo che l’opera ha, tra l’altro, la capacità di mostrare un punto di vista “maturo”, almeno nel senso degli anni. Leggendo la vita dell’autore ci si rende conto che, pur avendo scritto molto (come giornalista e opinionista anche) il vero successo è arrivato piuttosto tardi. Il personaggio de La versione di Barney nasce in realtà prima, nel 1959 con L’apprendistato di Duddy Kravitz che, appunto, è una sorta di primo abbozzo del Barney successivo. Che invece arriva nel 1997, quando lo scrittore si avvicina ai 70 anni ed è un po’ considerata la summa della sua creatività. Lui, Mordecai, ha sempre negato di essere il Barney raccontato; raramente ha ammesso:

sono stato Barney mentre scrivevo il romanzo, mai prima, né dopo”.

Come vuole lei caro Mordecai, mi vien voglia di ribattergli… grazie in ogni caso di esserlo stato quando, dove e come era vitale lo fosse…