Non ricordo come tutto è iniziato. Anzi, lo ricordo benissimo.
Incontrai Melissa qualche tempo fa, mentre passeggiavo in una zona centrale della mia città, era caldo ma non troppo, c’era il sole ma non troppo, c’era gente ma non troppa, l’aria mossa ma non troppo. Ricordo una coppia di pensionati che trascinavano le zampe di chi è stanco, lasciando dietro di loro un binario di gelato al cioccolato che si scioglieva, ma non troppo, mentre cercavano di schivare i banconi dei venditori ambulanti e lo sciame di avventrici che rovistavano i capi d’abbigliamento ben ordinati e disposti come una tipica fila italiana davanti ad uno sportello delle Poste.
Non mi chiamò lei direttamente, ma si fece sentire. Era più giovane, ma con lo stesso caratterino. Voi non conoscete Melissa, io si. Il sorriso di Melissa ha il riflesso di mille iceberg scintillanti e non contaminati dal buco dell’ozono, la sua camminata è un passo di danza, il suo scatto è quello del Borzov dei tempi andati prima che iniziasse a doparsi, le sue battute taglienti come trappole per lupi marsicani. Una volta le dissi: “Non andare al limite, perchè ti farai male”. Lei mi rispose: “Pensa per te, ‘che non ti reggi in piedi, stupido bipede monodotato”. Dal tono medieval-Kantiano capii subito di avere a che fare con un cipiglio ribelle gentilmente depositato su un labirinto di voglia di vivere, frammisto a sprazzi di genio e di gentil depressione. E m’interrogai per giorni sul monodotato. Ma sto andando fuori tema.
Dicevo, si fece sentire lei. Fui sorpreso dapprima, ma dopo 16 minuti non lo ero più. Lei era li, mi invitava da qualche parte, ma dopo pochi istanti voleva fare qualcos’altro. E io perdevo la pazienza, o almeno si capiva dai miei intermittenti sbuffi nasali abarth. Voleva autonomia ma essere seguita, voleva l’acqua ma anche il vino, voleva tutto e niente, profumi e balocchi, viaggi e dormite, voleva luce solare e tenebroso buio.
Poi decise che non poteva continuare a vivere da sola, anche se le Melisse sono primati molto selettivi e scelgono con cura le proprie compagnie. Prese una giraffa (all’epoca più piccola, ora il suo collo la sovrasta di una Melissa e mezza) e la spupazzò, la allevò con molta tenerezza e dedizione, e con la giraffina (in divenire un Giraffone) si mise alla ricerca della propria identità. Le chiesi più di una volta cosa stesse cercando, ed ogni volta, in forma anglobarocca, mi rispose: “None of your business, traballante tondino pieno di boria e foriero di consigli non richiesti”. Dal tono sicumerico-introspettivo, capii che il caratterino non le era cambiato affatto, e che il labirinto di voglia di vivere era diventata una città tentacolare, variegata di fantasie veloci ed accelerazioni emotive oltre la velocità del suono. Ma sto ancora andando fuori tema.
Negli anni che seguirono, adottò altri due compagni di strada, che la seguivano quasi sempre e con poca manutenzione a carico: qualche pasto caldo e un giaciglio. Il primo era un extraterrestre proveniente da Arcturus, alto la metà di lei, con denti auguzzi, peluria di verso variabile e cipiglio analogo proporzionale all’altezza (interminabili discussioni, ma divertimento garantito). Il secondo company pet era una bambola bionda automatica ancora più bassa dell’ufetto dentiaguzzo e che essenzialmente aveva due modalità operative corrispondenti a due bottoni pigiabili sulla schiena: Pipa e Lagna. La modalità Pipa attivava l’automa spostando il dito pollice destro all’interno del cavo orale e stimolando l’atto del succhiare (facendo la mossa della Pipa, appunto). Tale modalità poteva solo essere interrotta dall’attivazione della modalità Lagna, dove la bambola scoppiava in un pianto dirotto e stavolta sproporzionato rispetto alle sue effettive dimensioni.
Alle volte potevi trovare Melissa, il Giraffone, l’alieno e la bambola passeggiare per le vie del centro, e Melissa non era certo tenera con tutti e tre. Ma era paziente. Il Giraffone voleva l’erba, e poi non la mangiava, e Melissa si industriava per inventare situazioni che stimolassero i pochi succhi gastrici del quadrupede. L’alieno (chissà in base a quali condizioni) lanciava strali verbali incomprensibili, o richieste formulate al contrario, e Melissa cercava di decodificarle, e di soddisfarle se possibile. La bambola ogni tanto era difettosa, si bloccava sulla modalità Lagna e ogni volta Melissa le dava una saracca sulla schiena per riportarla alla modalità Pipa.
Quando succedevano tutte e tre le cose insieme Melissa andava in conflitto di interessi (soprattutto il suo) e iniziava a ballare il tango elettrico argentino suonato a volume 16 su 10, che quindi sembrava una sinfonia di undici chitarristi metallari rinchiusi a vita in una prigione segreta e poi fatti uscire per 15 di minuti di assoluto relax.
Poi Melissa cambiò piano dimensionale, e non ebbe più la compagnia al seguito. Un giorno si chiuse nel suo appartamento, studiò testi di filosofia e statistica, di sociologia delle masse ed epistemologia delle messe, studiò l’intera opera di Alberoni, ne staccò delicatamente ogni pagina e la riciclò in sala da bagno, lesse la Bibbia, il Corano, il Necronomicon, i Racconti Romani di Moravia e le allegre poesie di Leopardi. E i mesi passarono. E Melissa studiava. Studiava l’impero Romano e l’impero Berlusconiano, il Medioevo e il Nuovoevo, il Paleolitico e le nuove dittature. E mesi su mesi passarono, lenti come un film di Sergio Leone visto sotto acido. E Melissa continuò a studiare, come per estinguere un’inarrestabile sete di sapere. Studiò economia e finanza, italiano e inglese, gastronomia e scienza dei razzi, etica e cibernetica. Fino a che, in una bella giornata di primavera, usci sul balcone, respirò a fondo, e disse sottovoce: “Mi sono rotta i coglioni”. Dall’espressione artistico-ermeneutica, capii che era in atto un altro cambiamento. E che la città tentacolare che rappresentava la sua voglia di vivere era diventata un universo, dove i corpi celesti dell’intuito, della spontaneità e dell’esperienza si attraggono e respingono con leggi Maggiori ancora non conosciute. Ma oramai sono sicuramente fuori tema.
Quando partì per il suo viaggio mi lasciò un biglietto, che ancora conservo tra le mie cose più care. Da allora non ho più avuto il piacere di guardarla, di vederla muoversi come un principe tra i principi, di notarla appena mentre fluttuava da una situazione all’altra. Voi non la conoscete Melissa, io si. Come acqua di fonte. Può gelarti come acqua di fonte d’estate, e ristorarti come acqua di fonte d’inverno. La sua lealtà verso le scelte è stata d’esempio anche a persone che hanno il doppio della sua età, come una memoria che riacquista colore al variare dell’intensità emotiva. Che ti riempie, ti pervade, e dentro diventa viva come una bestia senza nome fatta di spine ed anche di velluto. Ma oramai il tema è quasi finito.
Ancora oggi, alle volte, mi pare di intravederla, tra la folla. La seguo, ed una volta raggiunta, scopro che invece di Melissa c’è un’altra persona con occhi di bovina espressione e voce di capresco ciarlare. E anche se la sua assenza mi colpisce, le mie mani sfiorano, ancora, lo scribacchiato fogliettino-reliquia ormai consunto e ridotto ad un velo. Non ricordo quel che c’è scritto. Anzi, lo ricordo benissimo:
“Il mondo è troppo piccolo per me.”