UNO SQUARCIO SULLA VERITA’
Dall’accurata ispezione della casa non emerse nulla di rilevante: nessuna impronta, nessun indizio.

«Come se ogni cosa, là dentro non fosse stata neppure sfiorata. Un vero rompicapo.» Confida perplesso il commissario al dottore
«Non crederà anche lei alla storia del fantasma?» Domanda ironico il medico.
«Certo che no! ma chi ha orchestrato il tutto sapeva il fatto suo. Abbiamo minuziosamente ispezionato ogni angolo, ogni suppellettile all’interno e all’esterno alla casa. Perfino il vaso del geranio e quello del basilico, e la gabbia per uccelli: oggetti comuni che non celano alcun segreto.» Sospira il poliziotto, accendendosi una sigaretta.
«Nel linguaggio delle piante il geranio è la malinconia che aspira al conforto; il basilico, invece, tra le sue tante accezioni, ha anche quella del lutto. La gabbietta aperta, ovviamente, rappresenta la libertà. Ma, di quest’ultima, se vogliamo approfondirne la decodificazione, potemmo suppore che la porticina spalancata simbolizzi una partenza, o una fuga, e la presenza di cibo, invece, un ritorno. Elementi, quindi, non solo casuali, ma latori di un messaggio preciso: un chiaro avvertimento.» Spiega il dottore, e allo sguardo sorpreso dell’altro, replica schernendosi: «Ovviamente, le mie, sono solo supposizioni.»
«Un medico esperto del linguaggio dei fiori: sono colpito!» Esclama stupito il poliziotto.
«Mia madre era l’esperta, aveva un negozio di fiori e di ogni fiore ne conosceva i segreti.» Sorride il dottore al ricordo.

«Eppure un fondamento di verità nella vostra ipotesi potrebbe benissimo esserci. Maria Verena, o qualcuno per lei, è tornato dal lontano passato per vendicarsi o farsi giustizia, che il confine morale tra le due finalità è spesso nebbioso.» Riflette, assentendo, il commissario.
«Eppoi… in chiesa…quel magistrale coup de theatre, con il guanto gettato in faccia al prete.» Completa, il quadro d’insieme, il dottore.
«Una morte annunciata, quella di don Rigamonti, en plein aire e al mondo intero. Una questione di giustizia, quindi, e non di vendetta, perché se la prima la si reclama alla luce del sole, la seconda, invece, la si consuma nel buio.»
«E niente, in questa faccenda, è stato lasciato al caso.» Commenta il medico in tono ammirato.
« Ho l’impressione che,  nonostante la deduzione della verità,  non caveremo un ragno dal buco, perché tra amnesie e reticenze, nessuno pare voglia davvero collaborare, come se la verità non interessasse più. Neppure al vecchio Valduga, che di certo sa molto di più di quello che ha detto…e in definitiva non ha aggiunto nulla di nuovo a ciò che già si conosceva, tranne il particolare inedito che il principe Sigmaringen, rimasto vedovo, avrebbe sposato lui stesso Maria Verena, e questo ha scatenato la ribellione della ragazza fino a spingerla nel campo degli zingari giostrai e intraprendere la relazione con Django, in modo da far desistere il principe. E questa parte di storia perfettamente si collega con quella raccontata da Orso. Don Rigamonti, a suo tempo, ha ricoperto un ruolo primario in tutto questo, oltre le sue stesse funzioni, se è vero che la ragazza lo aveva accusato di un tentativo di stupro. Ed è ancora lui è il regista della messinscena della messa solenne celebrata per l’entrata in convento di Maria Verena, quando lei, invece, era già aggregata con i partigiani.» Fa il punto, il commissario, accendendosi l’ennesima sigaretta.
«E magari è anche il responsabile dell’agguato in cui sono morti tutti i componenti la brigata partigiana.»
«Non tutti.» Rettifica il commissario: «Orso e Lupo sono scampati, e forse la stessa  Maria Verena, della cui morte non abbiamo alcuna prova se non le dichiarazioni di Orso, che rimangono inattendibili senza un reale riscontro. Ricapitolando: senza prove siamo al punto di partenza.»
Il dottore amaramente assente: «Eppure la storia è delle più semplici, direi perfino priva di mistero, perché vittima, colpevoli e motivazioni sono sotto i nostri occhi.»
«Visibili ma impalpabili: l’opera di un fantasma.» Sorride il poliziotto mentre cerca di afferrare con le dita la nebbia del fumo della sua sigaretta, e mostrare poi, al medico, la mano vuota.
Ma l’altro scuote la testa, amichevolmente schernendolo: «Andiamo commissario, non vorrete mica darla vinta ad un fantasma? Un fantasma che se ne va a spasso con un cane, lo trovo davvero bizzarro, anche perché il cane in questione era ben vivo e pronto ad azzannare chiunque le si avvicinasse. Maria Verena, che non è affatto morta come sostiene Orso, suo complice in questa storia. Il prete lo hanno ucciso insieme, da sola lei non ce l’avrebbe mai fatta, quello era un omone, e mettergli un cappio al collo, issarlo e poi impiccarlo, soprattutto se privo di sensi…da sola non ce l’avrebbe mai fatta. Quei due gli hanno teso un tranello, e poi costretto a scrivere il messaggio ritrovato in canonica, avendo tutto il tempo così di agire indisturbati.  Ed è stato sempre Orso ad avvertirla dell’irruzione, così lei ha avuto tutto il tempo per eclissarsi, magari a bordo di una macchina…» Si ferma, il dottore, nel suo ragionamento, che la logica dei fatti si svela d’improvviso ad entrambi.
«Lo chauffeur!» Esclamano all’unisono.

«Anche lo zio è un complice! Questo spiega l’inserimento, nel suo racconto, di dettagli scabrosi come la proposta di matrimonio del principe Sigmaringen e del tentativo di stupro da parte del prete. Particolari da tener gelosamente nascosti per tutelare il buon nome dei Valduga, e la cui rivelazione spontanea getta una luce ancor più nefanda sulla famiglia e sul prete. Quelle indiscrezioni dovevano essere, nelle sue intenzioni, attenuanti per l’assassina. Maria Verena, dunque, un alleato in famiglia lo aveva.» E su questa considerazione il commissario batte un pugno sul tavolo.

Seguendo lo stesso ragionamento, il dottore, ispirato, completa la sequenza degli atti criminali: «La mattina in cui è stato rinvenuto il cadavere di don Rigamonti, la donna, allertata da Orso che, come tutti era a conoscenza della premeditata intrusione nel palazzo dei Valduga, si era già allontanata. Nascosta da qualche parte ha atteso che lo zio, convocato da prassi, ha preso il posto dello chauffeur. Nessuno ha fatto caso all’autista, neppure quando il vecchio è sceso allo spaccio, concentrando l’attenzione su di sé. Lei è sempre stata qui, sotto i nostri occhi, visibile ed invisibile, a suo piacimento, interprete di una trama molto ben congegnata. Nella casa, dove comunque è avvenuto il delitto, lei non vi ha mai davvero soggiornato, è stata solo un’ingannevole scenografia per distrarre con la storia del fantasma. Nascosta chissà dove, vi faceva ritorno prima dell’alba per mostrarsi al balconcino, poi usciva col cane su strade secondarie diretta in un qualche rifugio su quella montagna dove era stata partigiana, e di cui benissimo conosceva sentieri ed anfratti. E questo giustifica anche la mancanza di tracce abitative all’interno della casa.»

 «Questo spiega tutto, direi.» Gli fa eco il commissario: «Non mi resta che convocare  di nuovo Bartolomeo Valduga per un altro interrogatorio dal quale non caverò nulla, e nel frattempo la nipote si sarà definitivamente eclissata, cosa in cui pare essere davvero molto esperta dal momento che per decenni è riuscita a rendersi invisibile. Interrogherò di nuovo Orso, che proseguirà nella sua magistrale interpretazione dell’alcolizzato amnesico, e ovviamente convocherò anche lo chaffeur, seppure immagino che testimonierà, per affetto o per una lauta mancia, di essere sempre stato lui alla guida della macchina. Un piano davvero ben architettato!» Esclama in tono ammirato. «Continuerò, però, a cercare indizi che possano inchiodare gli assassini alle loro responsabilità, perché questo è il mio compito, seppure mi viene da dire che don Rigamonti aveva sulla coscienza molti più peccati di quelli di chi lo ha ucciso.» Conclude amaro, su quest’ultima riflessione.

LA FINE DELLA GUERRA 
Nel frattempo, Orso, s’è già inerpicato verso l’anfratto, un buco sotterraneo invisibile da cielo e da terra, che era stato un tempo rifugio partigiano, e nel presente, base d’appoggio per Maria Verena, da dove ha portato a compimento la sua giustizia. Con cura, l’anarchico, cancella ogni traccia di quel soggiorno con un piccolo falò,  dove solo in ultimo, e con  molta riluttanza, si risolve a bruciarvi anche il suo guanto destro, gemello dello stesso con cui Maria Verena ha sfidato il prete.
Lo getta nel fuoco, esitando, che a stringerlo gli pare di sentire ancora il calore di quella sua mano mutilata
…e con quello, finalmente, brucia anche il suo passato di cui, in tutti quegli anni, è stato prigioniero.
Per lui, la guerra, finisce quel giorno.