Marco e Marta.

(prima parte)

Carica di turisti, l’imbarcazione procedeva a passo di lumaca fiancheggiando a poca distanza l’ingresso della Grotta Verde.

Sugli scogli a sinistra, in mezzo agli altri bagnanti stesi al sole, Marco vide una figura. All’improvviso si ritrovò col pensiero ad almeno dieci anni prima, alzò la mano destra per ripararsi gli occhi dal sole, aguzzò la vista ed ebbe un tuffo al cuore.

Era lei.

«Possibile?» si domandò ad alta voce.

«Che cosa?» chiese Cesare.

«Passami il binocolo», chiese Marco.

«Cosa guardi?»

«Un sogno», rispose Marco prendendo il binocolo.

«Che ti sei fumato?»

Marco scrutò col binocolo per una decina di secondi. «Sì, è lei», disse abbassando il binocolo.

«Ma chi, il sogno?»

«Sì, la Ursi, una mia compagna di classe, sangue blu, una baronessa».

«Ah vabbe’, nun ce ne po’ frega’ de meno. Annamo a bere quarcosa, va’».

«È mozzafiato più di prima. Mi tuffo e ci vediamo stasera».

Cesare strappò il binocolo dalle mani di Marco.

«Mo to o dico io si è mozzafiato, ‘ndo sta?»

«È la mora abbronzata in bikini bianco, a due metri da quel gruppo di ragazzini».

«Ammazza!» esclamò Cesare dopo cinque secondi.

«E che ti avevo detto?»

«Si nun te tuffi te, me tuffo io», mormorò Cesare guardando ancora col binocolo.

«E certo che mi tuffo! E stasera vieni a prendermi».

«Ah, sì? E come lo spieghi ad Anna?»

«Lo farai tu. Dille che mi hai perso di vista».

«Sì, che qua siamo nella giungla e ci tocca chiamare i pompieri per trovarti!»

«Senti, inventati quel che ti pare, io mi tuffo e verrai a prendermi stasera».

«Ma sei scemo? Che c’hai in quella capoccia?»

«Allora dirò ad Anna che ho il mal di mare e che rimango qui. Verrete stasera a prendermi».

«Ma statte zitto! E quando ti raccattiamo? Sto caicco ci riporta a Leuca stasera tardi, o no? E che ci fai tu qui senza cellulare e senza sigarette? E i soldi? I documenti? Le mutande?»

«Impacchetto ogni cosa in una busta e mi butto».

«Non fare lo scemo. La chiami, le chiedi un appuntamento e non rompi le scatole».

«Non ho il numero».

«Eeeh? E da quanno te sei rincojonito fino a nun ave’ er numero de quella là?»

«Da quando mi rifiutò una decina di anni fa».

«Ah vabbè, allora è acqua passata. Ti attacchi al tram, non rompi e non ci pensiamo più».

«Questo lo dici tu! Tu non sai chi era la Ursi, mio caro».

«E non lo voglio sapere», disse Cesare smettendo di scrutare.

«Va bene, me la cavo da solo».

«Ah, sì? E come? E Anna? Sono mesi che decanti il suo splendore. Sei scemo? O per mesi ti sei preso in giro da solo? Smettila. Dai, dimmi chi era sta Ursi, vah».

«Miss Istituto. Miss Puglia, miss Italia, miss mondo. Miss universo sommamente prono di fronte a cotanto fulgido splendore condito di infame alterigia».

«Ah, ho capito, allora nun ce a poi fa’. Quella è blu, tu sei fori de testa e ce mettemo na pietra sopra. E poi tu ora hai Anna, nun…» Cesare si interruppe un attimo guardando alle spalle di Marco e riprese cambiando tono «uh! Eccola Anna, sta arrivando e ci guarda con la faccia di chi si chiede cosa abbiamo da sbirciare e discutere».

«Abbiamo visto un delfino vicino a riva», suggerì Marco abbassando la voce mentre Anna, incuriosita, aveva lasciato gli altri amici a poppa e si stava avvicinando.

«Era un coccodrillo, te dico! Non era un delfino!» strillò Cesare.

«Lo senti? Ha visto un coccodrillo, ah ah ah, e, pensa, stamani non ha ancora fumato», disse Marco ad Anna accogliendola tra le braccia.

«Sì, l’ho visto, stava assaporando uno gnu tenero tenero», disse Anna guardando Cesare.

«Aó, ma chi sei te? Che voi? Io nun te conosco!» le rispose Cesare allontanandosi.

Alle otto e mezza del mattino dopo Anna era in dormiveglia.

«Ciao, a stasera», le sussurrò Marco baciandola sulla guancia.

«Ciao», rispose ad occhi chiusi con un filo di voce.

Marco scese nel parcheggio, si sistemò sulla Kawasaki Z750, abbassò la visiera del casco e partì; indossava l’abbigliamento da motociclista ma sotto aveva il costume da bagno e nello zainetto ci aveva messo un asciugamano da mare, una T-shirt, dei pantaloncini, uno slip ed un paio di infradito.

Uscì da Leuca, imboccò la salita che portava in cima alla scogliera e si avviò in direzione Grotta Verde sulla litoranea Leuca-Otranto.

Giornata splendida. Nonostante il sole fosse già alto, l’aria era ancora fresca e tersa, la visibilità era ottima ed i panorami dall’alto della scogliera erano mozzafiato; scelse di goderseli andando piano e rinunciando così al divertimento della corsa sull’incessante alternarsi di curve.

A Tricase Porto scese giù verso il Porto Vecchio, si fermò al bar, prese un cappuccino e si fumò una sigaretta. Pensò che il piano ufficiale riferito ad Anna era ottimo: la casa al paese era chiusa da sette mesi e, tornandoci, avrebbe seguito la solita scaletta. Avrebbe aperto porte e finestre, fatto scorrere l’acqua nei tubi dell’impianto idraulico, controllato la posta e pagato le bollette. Avrebbe salutato i parenti, e il vicinato, avrebbe pranzato a casa della sorella e avrebbe fatto visita al cimitero. Sarebbe poi tornato a Leuca nel tardo pomeriggio se qualche parente non lo avesse trattenuto a cena e salvo altre varie ed eventuali.

Spense la sigaretta, inforcò la moto, tornò sulla litoranea e alle nove e quaranta era steso ad abbronzarsi sugli scogli della Grotta Verde.

Per la prima volta stava nascondendo qualcosa ad Anna e per la millesima volta in ventiquattr’ore stava sognando Marta.

«Rieccola in tutto il suo splendore».

Si guardò intorno per venti minuti ma, niente, Marta non c’era.

Dopo una quarantina di minuti stava pensando di andarsene quando la vide arrivare.

Portamento elegante persino in tenuta da mare. Ancora snella. Capelli neri cortissimi, silhouette da teenager, profilo greco, maglietta gialla aderente, gambe perfette, sacca a tracolla, occhiali da sole. Abbronzata, unghia smaltate, vistosi orecchini con lapislazzuli. Si sistemò sugli scogli a non più di trenta metri di distanza.

Marco aspettò un minuto, si alzò, andò e le si parò di fronte:

«Sorpresa!»

«Ah, ciao Marco. Quindi sei venuto. Prego, accomodati».

«Mi aspettavi?»

«Come no? Ti ho visto ieri mentre mi guardavi col binocolo dalla barca. Ci vedo ancora bene. Come ti va a parte la vista? Vieni dai, siediti qua», rispose Marta facendo spazio sul suo asciugamano.

Si salutarono dandosi brevemente la mano e Marco si sedette.

«Ciao Marta. No, ieri ti ho riconosciuta anche senza binocolo ma non potevo credere ai miei occhi; ho approfondito e… sì, insomma… ho avuto un tuffo al cuore. Come mai da queste parti? Il tuo mare non è Otranto? Non fai più le vacanze in mezzo alla crema della nobiltà greca, olandese o belga? Che ci fai qui?Come stai? Come ti va? Sei più bella di prima. Anzi, scusa: prima eri bella ma ora sei… sei… sei uno schianto, ecco».

«Grazie per i complimenti, Marco. Se non sei cambiato, sono sinceri. Beh, sto attenta alla forma e curo il mio aspetto».

«Come stai?»

«Qui sto in paradiso, sono splendidamente sola. Per il resto sono serena. Mi occupo delle vigne e degli uliveti, insegno lingue alle superiori, amo mio marito e adoro i miei due bambini. Tu? Ho già visto che te la godi con gli amici e che, se non sei sposato, sei almeno fidanzato».

«Ho capito Marta, missione fallita. Arrivederci, ci siamo visti. Cosa ci son venuto a fare io qui? Ci rivedremo tra altri dieci anni, ciao», rispose Marco facendo finta di alzarsi per andarsene.

«Ho capito, fai ancora lo scemo a caccia di facili prede. Ti ricordi l’appellativo che ti appioppai?»

«Ah, ah, ah, mister Temptation, manco manco fossi l’unico dotato di testosterone».

«Ma eri quello che del suo testosterone ne faceva meno misteri. Continui a non farne, vedo, prova ne sia che mi hai appena detto che ci stai riprovando. Sei ancora il vecchio scemo; non va mica bene, sai?»

«Ah ah ah, no, va bene, non ti allarmare. Forse… mi va tutto bene ma tu ti conosci e mi conosci, sai cosa sei per me, no? Sai che ti sogno».

«Forse lo sapevo dieci anni fa. Non ci posso credere! Mi avrai mandato tre cartoline nei primi anni. Ma ti rendi conto di quel che dici? Sono passati dieci anni e dici che mi sogni. Ah, sì? E cosa credi di sognare? Sii serio, dai. Da ieri ad oggi ti ho pensato, sai?»

«Sì, per attrezzarti meglio a parare il colpo. Non ti basta l’atavica corazza e l’arcigna scorza coriacea?»

«Bel complimento, grazie davvero».

«Di niente, figurati! Ampiamente meritato. Ancora come un nemico mi vedi?»

«Ma quando mai!? Non dire sciocchezze».

«Perché mi hai pensato?»

«Perché sei un amico, Marco, altro che nemico! La memoria ce l’ho. Ci siamo frequentati per cinque anni e non ho dimenticato nulla. Quando ti ho visto sulla barca ho cominciato a chiedermi: Avrà superato l’orgoglio ferito? Verrà o non verrà?»

«Sì, certo, l’orgoglio ferito l’ho superato. L’ho superato e ora son qui per farmi ferire di nuovo. La remota speranza non ha fatto in tempo a riaccendersi e l’hai già spenta. Sei la scintilla che in un attimo riaccende l’incendio. La speranza l’hai spenta ma il sogno rimane, un sogno splendido. Per ventiquattro ore la vita è stata addirittura un paradiso ma scopro che hai felicemente trovato la tua strada. Quanto sarò cretino? Cosa andavo cercando? Va bene, ho sbagliato a venire, ti sto importunando, ti sto insidiando, scusami. E va bene, ciao Marta, me ne vado. Prima di andarmene dimmi almeno che sei felice, che se tu sei felice sono felice anche io. Dimmelo col cuore, però. Eh? Voglio la voce del tuo cuore. Non ci rivedremo mai più ma fammi andar via almeno felice per te», disse Marco con gli occhi lucidi.

«Marco… ti prego…»

«Dammi questa gioia, Marta».

«Marco… mi fa piacere vederti ma mi metti in imbarazzo. Che succede? Cosa è questo rancore? Di cosa mi accusi? Mi fai male e ti fai male, mi dispiace molto. La vita… non abbiamo colpe. Sei venuto ed hai fatto bene; non mi stai importunando, siamo adulti e vaccinati. Parliamo ancora un po’, ti prego. Non mi hai detto niente di te. Come vivi? Come ti va? Mi dispiace vederti così…»

«Pensavo mi andasse bene. Filava tutto liscio e all’improvviso ieri mattina mi sono ritrovato fuori dall’eterea realtà per ritrovarmi nel solido sogno. È stato il caso, non è colpa tua, lo so, ma… ecco, Marta, le cose stanno così, il caso ha svelato la mia illusione, ha cancellato il lavoro che per dieci anni ho fatto per costruirmi una maschera e finire tra le braccia di Anna. Scusami, hai ragione, non è colpa tua, è stato il caso. Ora sono arrabbiato per questo ma non preoccuparti per me, sono rodato, sono tosto, ho un cuore di pietra. Sono un campione e qui sei stata un’ottima allenatrice, oramai sono rodato, rimarrà il sogno e con quel sogno sopravviverò. Pensavo mi andasse bene e invece ho scoperto che mi ero soltanto mascherato, ma non ti preoccupare, continuerò a illudermi che le cose mi vadano bene. È splendido no?».

«Marco, non farti del male e non farmene, dai. Non mi sento una megera che vuole abituarti alla sofferenza e mi rattrista vederti soffrire».

«No, ma non ti preoccupare, scusami, Marta, sono fuori di me ma te l’ho detto, sopravviverò».

«Dopo dieci anni non hai ancora trovato il tuo equilibrio. Tu parli di sogni, Marco. Sogni, sempre sogni. Ma stiamo oramai costruendo, mio caro. Il tempo dei sogni è scaduto. Provare a costruire e fallire fa parte del gioco ma quello dobbiamo fare! Dobbiamo andare oltre. Dobbiamo insistere a costruire. Non può far parte del gioco cedere per soddisfare transitorie pulsioni alimentate o meno dai sogni, il tempo è ampiamente scaduto».

«Sì, il tempo delle transitorie pulsioni è scaduto eccezion fatta per le transitorie pulsioni lunghe dodici anni. Sono arrabbiato, sì; contro il caso, forse, o contro me stesso per come sono fatto, o forse contro chi non ascolta il cuore. Pulsioni? Certo, pulsioni! Pulsioni ricche di sogno, aneliti di felicità, di paradiso. Dove sbaglio? Cosa sbaglio?».

RP 30/09/2020