Il giorno successivo il tempo non era migliorato e una pioggia sottile si mischiava alla nebbia per rendere ancora più triste e umida la campagna irlandese.
Michele si era svegliato, aveva aperto la finestra e subito gli erano cascate le braccia.
«Ma è mai possibile che in questo maledetto posto non si veda mai il sole?».
Rachel si tirò le coperte fin sotto il mento.
«Per fortuna che tra tre giorni ce ne andiamo!» sbottò l’uomo.
Lei non trovò il coraggio di ribattere: onestamente nei suoi ricordi di bambina non c’era tutta quella pioggia, ma erano passati tanti anni!
«Si può sapere cosa ci trovavi di tanto bello in questo buco?» la incalzò lui, «tanto bello da volerci tornare a tutti i costi?». Rachel continuò a tacere, ripromettendosi di vendicarsi quando sarebbero stati al paese di Michele, dove fino alle cinque di pomeriggio non potevi mettere il naso fuori di casa senza svenire per il caldo.
«E poi, cosa facevi tutto il giorno? Pascolavi le pecore? Andavi a pesca di merluzzi?».
Adesso c’era cattiveria nella sua voce. Rachel si alzò in fretta, si infilò una camicia di flanella e un paio di jeans e scese al piano di sotto senza degnare il marito di uno sguardo. Con gesti meccanici preparò la colazione, poi andò a svegliare i ragazzi, li fece lavare e li condusse al grande tavolo di quercia. Michele la guardava trafficare in silenzio. Si rendeva conto di avere esagerato, in fondo anche la moglie doveva annoiarsi, ma a quel punto non sapeva più come rimediare.
Finito di mangiare, Rachel vestì i bambini con indumenti pesanti, gli mise addosso delle lunghe mantelle da pescatore che aveva comprato in vista di gite in battello che non erano più riusciti a fare a causa del maltempo, ne indossò una anche lei, si tirò il cappuccio fino a coprire la gran massa di capelli rossi e si diressero alla porta.
«Dove state andando?» chiese Michele «a cercare lumache?».
«Forse a pascolare le pecore» rispose acida Rachel, aprendo la porta.
«Li porti in giro con questo tempo?».
«Un po’ di pioggia non ha mai ammazzato nessuno, e poi voglio che vedano la costa. Tu puoi andare a Sligo Town: lì troverai sicuramente dei pub e dei compagni per bere. Non parleranno in siciliano, mi dispiace…».
«Non mi sembra un atteggiamento…». Ma la porta si era ormai chiusa alle loro spalle.

Per invogliare i due ragazzi ad uscire Rachel gli aveva promesso di andare a trovare William per farsi raccontare un’altra fiaba, ma mentre si dirigeva verso la costa di fronte a cui si trovava Oyster Island si rese conto dell’assurdità della sua proposta: come avrebbe fatto a superare il pur breve tratto di mare che li separava dall’isola? Per quanto ne sapeva dai suoi ricordi di bambina non esistevano collegamenti, e gli abitanti di una volta andavano e venivano con piccole barche di loro proprietà. A dire il vero, prima dell’altra sera aveva creduto che l’isolotto fosse addirittura disabitato!
Rachel era infuriata con suo marito e non voleva dargliela vinta in alcun modo, ma si stava rendendo conto che presto sarebbe dovuta tornare indietro, e con la coda tra le gambe. Intanto cercava di ritardare il momento spingendosi fin sulla riva del braccio di mare. Oyster Island non si vedeva neanche, immersa com’era nella nebbia!
Robert e Luigi camminavano di buona lena, felici di sguazzare nella pioggia come solo i bambini sanno essere, Chissà come sarebbero rimasti delusi!, pensò Rachel con una nota di rammarico.

Ormai erano giunti nei pressi del mare, si sentiva il rumore delle onde che si frangevano sulla piccola spiaggia di sassi.
«È da lì che deve venire William?» chiese Robert, indicando un punto in mezzo alla nebbia.
Rachel si senti mancare il cuore.
«Sì, ma non so se con questa nebbia… Forse…».
«Eccolo!» urlarono insieme i due ragazzi.
Rachel strinse gli occhi per vederci meglio: Effettivamente dalla nebbia stava spuntando un’ombra, che presto si materializzò in una piccola barca a remi che un uomo faceva scivolare sull’acqua apparentemente senza sforzo.«
È William!» applaudì felice Robert, subito imitato dal fratello.
Rachel era rimasta senza parole.
William fece accostare la barca.
«Stavo proprio per rientrare a casa quando ho sentito le vostre voci. Volete un passaggio?».
La donna era interdetta: «Ma… veramente non so, non vorrei…».«
Sì!» urlarono i ragazzi.
William schiacciò l’occhio: «Comandano loro» disse, facendo cenno di salire a bordo.
«Ma è sicura?» chiese la donna, «con questa nebbia…».
«Qui non passano navi, che io sappia, e poi sono solo cento metri. Mi stupirei se la barca affondasse!».
Con riluttanza anche Rachel salì a bordo, visto che i due figli ormai l’avevano preceduta.
Spingendo appena il remo contro la riva, William fece staccare la barca, che condusse senza sforzo in mezzo alla nebbia. In pochi minuti furono dall’altra parte. Rachel e i figli scesero per primi, intanto che l’uomo tirava in secca la barca a forza di braccia.

Non credevo fosse così forte, si disse Rachel, guardandolo manovrare. La barca era di legno e doveva pesare centinaia di chili, eppure l’aveva spostata come fosse un canotto di plastica. Lui dovette intuire i suoi pensieri: «È la forza dell’abitudine» disse, «basta sapere come prenderla».
I quattro si avviarono tagliando il prato, passando in mezzo all’erba odorosa di pioggia.
«Ecco, quella è la mia casa» disse William, indicando una baita fiocamente illuminata dal cui camino usciva un filo di fumo, «non è granché ma è comoda e potremo stare al caldo».
«Non vorrei disturbare sua moglie» sussurrò Rachel.
«Maud? Ma non c’è, è andata a Londra a trovare i suoi genitori. Venite, mi farete compagnia!». E così dicendo fece strada, aprì la porta togliendo la catenella che era semplicemente fissata ad un gancetto e li guidò all’interno di un’ampia sala illuminata da lampade ad olio.
«Non avete l’elettricità qui?» chiese Rachel, stupita.
«Come? Ah, no, ma abbiamo un gruppo elettrogeno che mettiamo in funzione quando ci serve. Però trovo che questo tipo di illuminazione sia più… naturale, e per far da mangiare c’è la cucina a legna, la stufa e volendo anche il camino» disse, indicando il grande camino in pietra in cui bruciavano dei grossi ceppi, riverberando il calore in tutta la sala.
«Davvero splendido!» disse Rachel ammirata.
«Vero? Ma sedetevi, intanto che preparo il tè. Per i ragazzi, invece… va bene della cioccolata calda con dei biscotti di pasta frolla?».
Rachel avrebbe voluto rifiutare, ma William era già andato a preparare senza aspettare la risposta. Dopo pochi minuti ritornò, portando su di un vassoio la teiera, due grosse tazze di cioccolata fumante e un piatto di pasticcini.
«Per la verità abbiamo fatto colazione che non è molto» cercò di protestare Rachel, ma i ragazzi si avventarono sulla cioccolata e sui frollini con tanta voracità che i due adulti non poterono fare a meno di sorridere.
«Veramente delizioso questo tè» disse Rachel, assaporandone il profumo intenso.
«Viene dai nostri possedimenti nelle Indie Orientali» rispose sorridendo William.
Lei sgranò gli occhi: «Davvero ha dei possedimenti in India?».
«No, no, intendevo possedimenti del regno!» si schernì lui, allungando il vassoio dei dolci.
«Ma non provate nostalgia a vivere qui tutti soli, senza strade né energia elettrica?».
William alzò lievemente le spalle. «E perché dovrei? Una volta era normale vivere così, e comunque siamo a due passi dalla civiltà».
Rachel non rispose, impegnando la sua attenzione nel girare il cucchiaino per far sciogliere lo zucchero.
«Però è scomodo, no?».
«Dipende da quello che uno è abituato a fare. Io non lavoro più, quindi non ho necessità di spostarmi tutti i giorni sulla terraferma».
Una domanda salì sulle labbra della donna, che però si trattenne in tempo.
«Facevo lo scrittore» proseguì William, indovinando i suoi pensieri.
«Un lavoro che non finisce mai veramente».
«Sì» concesse lui «io mi riferivo alle pubblicazioni, agli impegni. Quelli li ho terminati, ma scrivo ancora, certo».
«E cosa se ne fa di quello che scrive?»
.Lui rise: «Scrivere è creare mondi, persone. Io mi diverto a creare, cosa importa se nessuno legge?».
«E cosa crea?».
«Un po’ di tutto. Fiabe, per esempio».
Sentendo parlare di fiabe Robert, il ragazzo più grande, drizzò le orecchie e si voltò verso l’uomo con uno sguardo eloquente.
«Vuole che gli racconti una fiaba» disse William.
«Robert, non disturbare il signore, stiamo prendendo il tè!» lo sgridò la madre.
«Lasci stare, signora» la fermò lui, ponendole una mano sul braccio «a me fa piacere raccontare fiabe ai bambini, davvero».
Rachel avvampò al contatto, che percepì più intimo che mai, ma lui subito ritirò la mano.
«Non avete paura a vivere da soli?» chiese lei, nel tentativo di dissipare quella sensazione che l’aveva turbata.
«No, di cosa dovrei avere paura? E poi non bisogna avere paura, mai… Ragazzi, conoscete la storia dell’uomo che non aveva mai paura?».
I due bambini lo guardarono incerti.
«Certo che no! Come potreste, l’ho scritta io!» e rise allegramente.

Come a un segnale convenuto, si spostarono tutti vicino al camino, Rachel e William su due poltrone e i ragazzi su un divano a tre posti. Il fuoco ardeva, riverberando nella sala un calore secco che aveva scacciato l’umidità. I riflessi delle fiamme sui volti sembravano danzare un ballo ancestrale, magico. Sul basso tavolo posto tra di loro i due adulti avevano trasferito le bevande i i biscottini. A Rachel per un attimo parve di vedere la scena dall’esterno: lei, quell’uomo, i bambini, tutti raccolti insieme a celebrare un rito nella quiete della campagna irlandese… la famiglia che avevo sempre sognato.
Con un brivido si scosse e guardò se William si era accorto del suo sussulto, ma l’uomo sembrava non aver notato nulla. Certo che se davvero riusciva ad intuire quello che lei pensava…
«Allora, cominciamo?» chiese William, guardandosi intorno.
«Bene, c’era tempo…».
Lo scoppiettio dei ciocchi nel camino, l’odore lievemente resinoso del legno che bruciava, l’aroma del té e del cioccolato, le luci soffuse e tremolanti, tutto contribuiva a creare un’atmosfera raccolta, irreale. Si poteva dire che non potesse esistere niente di diverso: il mondo moderno sembrava tagliato fuori per sempre da quella casa.

C’era un tempo una signora che aveva due figli, Lawrence e Carrol. I ragazzi erano molto diversi tra loro: fin dal giorno della sua nascita Lawrence non aveva mai avuto paura di nulla, mentre Carrol non usciva mai di casa dal momento in cui calava il buio della notte. A quel tempo era uso, quando una persona moriva, che la gente vegliasse a turno la tomba del morto, perché era frequente che dei profanatori andassero in giro a rubare i cadaveri. Quando la madre di Carrol e Lawrence morì, Carrol disse a Lawrence: «Dici che nulla ti ha mai fatto paura, ma scommetto con te che questa notte non avrai il coraggio di vegliare la tomba di nostra madre».
«Scommetto che invece l’avrò» rispose Lawrence.
Quando giunse la sera, Lawrence prese la spada e andò al cimitero. Si sedette su una pietra tombale vicino alla fossa di sua madre e quando fu notte fonda notò una grossa cosa nera che gli veniva incontro, e quando quella gli fu vicino vide che era una testa senza il corpo. Sguainò la spada per colpirla se si fosse avvicinata, ma quella non lo fece. Lawrence rimase a vegliare la madre finché arrivò la luce del giorno; allora la testa-senza-corpo se ne andò e il ragazzo tornò a casa.
Carrol gli chiese se avesse visto qualcosa nel cimitero.
«Sì» rispose Lawrence «e il corpo di mia madre sarebbe scomparso se non gli avessi fatto la guardia».
«La persona che hai visto era morta o viva?» disse Carrol.
«Non gliel’ho chiesto» rispose Lawrence «ma visto che era una testa senza corpo presumo che fosse morta».«
Non hai avuto paura?».
«No di certo. Non lo sai che niente al mondo mi ha mai fatto paura?».
«Scommetto ancora con te che questa notte non avrai il coraggio di vegliarla di nuovo» disse Carrol.
«Accetterei la scommessa, se non mi mancasse una notte di sonno. Va’ tu, questa notte».
«Non andrei al cimitero questa notte per tutto l’oro del mondo!».
«Se tu non vai, al mattino il corpo di nostra madre sarà scomparso» protestò Lawrence.
«Se solo veglierai questa notte e domani notte non ti chiederò mai più di fare un turno di lavoro finché vivrai» lo implorò Carrol, «ma penso che tu abbia paura».
«Per dimostrarti che non ho paura, la veglierò» rispose allora Lawrence, piccato.

Andò a dormire e quando sopraggiunse la sera, si alzò, si allacciò la spada e andò al cimitero. Come la sera precedente si sedette su una pietra tombale vicino alla fossa di sua madre e verso la metà della notte udì avvicinarsi un forte rumore. Un’ombra scura venne fino alla fossa e cominciò a scalzare la terra. Lawrence sollevò la spada, con un colpo la tagliò a metà e con un secondo colpo fece metà di ogni metà e non la vide più. Al mattino Lawrence andò a casa e Carrol gli chiese se avesse visto qualcosa.
«Sì,  e se solo non fossi stato là, il corpo di mia madre sarebbe sparito».
«È venuta di nuovo la testa senza corpo?».
«No, questa volta era una grossa ombra nera e stava scavando la fossa di mia madre finché io l’ho tagliata a metà con la spada».
Fedele a quanto aveva promesso, Lawrence quel giorno dormì e quando venne la sera si alzò, si mise la spada e andò al cimitero. Ancora si sedette su una pietra tombale e quando arrivò la mezzanotte vide  una cosa bianca come la neve e odiosa come il peccato: aveva la testa da uomo e i denti lunghi come la macchina per cardare il lino. Lawrence sollevò la spada e stava per assestarle un colpo quando quella si voltò verso di lui e disse: «Trattieni la mano: due volte hai salvato il corpo di tua madre e non c’è in Irlanda un uomo coraggioso come te. Ti aspettano grandi ricchezze se andrai a cercarle».
Lawrence tornò a casa e Carrol gli chiese se avesse visto nulla.
«Sì, e se non fossi stato là il corpo di mia madre sarebbe sparito, ma adesso non c’è più pericolo». Carrol ne fu sollevato, ma Lawrence gli disse: «Dammi la mia parte di denaro, voglio andare in viaggio per conoscere un po’ il paese».

Sia pure a malincuore, perché voleva bene al fratello, Carrol gli diede il denaro e lui si incamminò. Andò avanti finché giunse a una grande città. Entrò allora nella casa di un fornaio per procurarsi del pane. Questi cominciò a discorrere con lui e gli chiese dove stessa andando.
«Sto andando a cercare qualcosa che mi metta addosso paura» disse Lawrence.
«Hai molto denaro?» chiese il fornaio.
«Ho la metà di cento sterline».
«Ne scommetto con te altre cinquanta che proverai paura se andrai nel posto che ti indico» propose il fornaio.
«Accetto la tua scommessa» disse Lawrence, «se solo il luogo non è troppo lontano».
«Non è neppure a un miglio da dove sei ora», rispose il fornaio, «aspetta qui finché viene la sera e poi vai al cimitero, e come segno che ci sei stato portami il calice che c’è sull’altare della vecchia chiesa al centro del cimitero».
Quando il fornaio aveva fatto la scommessa era certo che avrebbe vinto perché nel cimitero c’era un fantasma e prima di allora, per quarant’anni, nessuno era entrato senza che quello lo avesse ucciso.

Quando scese il buio della notte, Lawrence cinse la spada e andò al camposanto. Arrivò alla porta del cimitero e la colpì con la spada. La porta si aprì e venne fuori un grosso ariete nero con due corna lunghe come bastoni per battere il grano. Lawrence non si fece spaventare, rimase saldo e lo colpì alla gola, e quello sparì dalla sua  vista, lasciandolo nel sangue fino alle caviglie. Poi Lawrence entrò nella vecchia chiesa, prese il calice e fece ritorno alla casa del fornaio.«
Ecco il calice» disse «ho vinto la scommessa».I
l fornaio allora gli chiese se avesse visto qualcosa nel cimitero.
«Ho visto un grosso ariete nero con lunghe corna», rispose Lawrence» e gli ho dato un colpo che gli ha cavato fuori tanto sangue quanto ne servirebbe a far navigare una barca. Certamente a questa ora deve essere morto».
La mattina del giorno dopo il fornaio e molta gente andarono al cimitero e videro il sangue dell’ariete nero. Si recarono dal prete e gli dissero che l’ariete nero era stato scacciato dal camposanto. Il prete non credette loro, perché il cimitero era chiuso da quarant’anni a causa dello spettro che vi era dentro e né preti né frati avevano potuto scacciarlo. Insieme agli altri andò alla porta del cimitero e quando vide il sangue riprese coraggio e mandò a chiamare Lawrence per ascoltare la storia dalla sua stessa bocca. Poi mandò a prendere i suoi strumenti per benedire e invitò la gente a entrare ,che avrebbe letto loro la messa. Il prete entrò e Lawrence e la gente lo seguirono; poi lesse la messa senza che arrivasse, come al solito, il grosso ariete nero a terrorizzare tutti. Il prete ne fu tanto contento che diede a Lawrence altre cinquanta sterline.

Il mattino del giorno seguente Lawrence se ne andò per la sua strada. Viaggiò tutto il giorno senza vedere una casa. Verso la mezzanotte giunse in una valle solitaria e vide una grande adunata di gente che guardava due uomini giocare a hurling, un antico gioco di origini celtiche. Lawrence stette a osservarli perché la luna mandava una luce splendente. Era il «buon popolo» che stava giocando, e non passò molto tempo che uno di loro diede un colpo alla palla e la mandò in petto a Lawrence. Questi prese la palla  per rilanciarla e cos’era se non la testa di un uomo? Quando Lawrence l’ebbe afferrata la testa cominciò a strillare e poi gli chiese:«Non hai paura?».
«No di certo» disse Lawrence, e appena ebbe detto queste parole sia la testa che la gente scomparvero e lui fu lasciato tutto solo nella valletta.
Proseguì fino ad arrivare a un’altra città, e dopo aver mangiato e bevuto a sufficienza si rimise in cammino e continuò ad andare finché giunse a una grande casa a lato della strada. Poiché la notte stava avvicinandosi entrò per vedere se poteva avere un posto per dormire. Sulla porta c’era un ragazzo appoggiato allo stipite che stava pulendosi le unghie con un pugnale acuminato.
«Dove stai andando o di che cosa sei in cerca?» chiese, vedendolo.
«Non so dove io stia andando, ma sto cercando qualcosa che mi metta addosso la paura» rispose Lawrence.
«Non c’è bisogno che tu vada lontano» disse il giovane «se ti fermi in quella grossa casa dall’altra parte della strada, prima del mattino te la farai addosso per la paura e io ti darò venti sterline, per giunta».
«Mi ci fermerò» disse Lawrence.
Il giovanotto andò con lui, aprì la porta e lo condusse in una grande stanza al fondo della casa indicandogli il camino e una pila di ciocchi accatastati in bell’ordine vicino.
«Preparati un fuoco e io ti manderò da mangiare e da bere in abbondanza» disse, lasciandolo solo. Lawrence si preparò un fuoco e lì lo raggiunse una ragazza che gli portò tutto quel che voleva. La sera passò tranquillamente finché giunse mezzanotte e allora udì un forte rumore sopra la testa e non passò molto tempo che entrarono uno stallone e un toro i quali cominciarono a combattere. Lawrence non si mise mai contro di loro né se ne allontanò e quelli, quando furono stanchi di combattere, uscirono. Allora si addormentò e non si svegliò fino a quando, il mattino, entrò il giovanotto, che fu sorpreso di vederlo vivo.
Gli domandò se avesse visto qualcosa.
«Ho visto uno stallone e un toro combattere con furia per circa due ore» disse Lawrence.
«E non hai avuto paura?» chiese il giovane.
«No. Perché avrei dovuto?».
«Se tu aspetti ancora questa notte ti darò altre venti sterline» propose il giovanotto.
«Aspetterò, con piacere» disse Lawrence, accettando la nuova scommessa.
La seconda notte, verso le dieci, Lawrence stava per addormentarsi quando entrarono due arieti neri e cominciarono a combattere con violenza. Lawrence non si mise mai contro di loro né se ne allontanò e quando suonò la mezzanotte se ne uscirono. Al mattino arrivò il giovanotto e gli chiese nuovamente se la notte precedente avesse visto qualcosa.
«Ho visto due arieti neri che combattevano» disse Lawrence.
«Non hai avuto affatto paura?» esclamò il giovanotto.
«No».
«Aspetta questa notte e ti darò altre venti sterline».
«Va bene» disse Lawrence, alzando le spalle.La terza notte stava addormentandosi quando entrò un vecchio uomo grigio che gli disse: «Tu sei il migliore eroe d’Irlanda. Io sono morto vent’anni fa e in tutto questo tempo sono stato alla ricerca di un uomo come te. Vieni con me ora, e ti mostrerò le tue ricchezze; quando stavi sorvegliando la tomba di tua madre ti ho detto che c’erano grandi ricchezze in serbo per te».

L’uomo condusse Lawrence in una camera sotto terra e gli mostrò una grande pentola piena d’oro, poi gli disse: «Avrai tutto questo se darai venti sterline a Mary Kerrigan, la vedova, e otterrai per me il suo perdono per un torto che le ho fatto. Poi compra questa casa, sposa mia figlia Lynn e sarai ricco e felice finché vivrai».
Il mattino dopo il giovanotto arrivò da Lawrence e gli chiese se avesse visto qualcosa la notte precedente.
«Sì» disse Lawrence, «ed è certo che là dentro ci sarà sempre uno spettro, ma nulla al mondo potrebbe spaventarmi. Se volete comprerò la casa con il terreno circostante».
«Non chiedo soldi per la casa, ma non mi disferò del terreno per meno di mille sterline, e sono sicuro che non possiedi una tale somma».
«Io posseggo più di quanto servirebbe a comprare tutta la terra e tutte le mandrie che avete» rispose Lawrence.
Quando il giovanotto sentì che Lawrence era così ricco, lo invitò ad andare a cena con lui. Lawrence lo seguì e quando Lynn, la figlia del defunto, che era poi la sorella del giovane, lo vide, se ne innamorò. Lawrence andò alla casa di Mary Kerrigan e le diede venti sterline, ottenendo il suo perdono per il morto. Poi sposò Lynn ed ebbe una lunga vita felice. Morì come aveva vissuto, senza aver mai provato cos’è la paura.

William si interruppe e guardò in volto i ragazzi e Rachel per vedere che effetto avesse fatto la sua fiaba. Vide che i bambini avevano un’aria trasognata, mentre la donna lo fissava con occhi lucidi.
«Ecco perché non bisogna avere paura. Mai» concluse.

Rachel sembrò ridestarsi da una trance.
«Davvero un bel racconto!» esclamò.
«Ne conosco molti altri» si schernì William «ma credo si sia fatto tardi».
Rachel guardò l’orologio, ma vide che si era fermato.
«Il mio orologio si è guastato» disse «sa che ore sono?».
L’uomo allargò le braccia: «Mi dispiace, signora, ma non usiamo orologi qui; forse non vogliamo vedere scorrere il tempo».
«Probabilmente è davvero tardi: mio marito sarà preoccupato».
«Non credo. Quando non lo si misura il tempo passa più lentamente. Ma venga, vi accompagno».
I bambini fecero qualche resistenza ad abbandonare la casa e il suo accogliente tepore, ma cedendo alle insistenze della madre si decisero ad uscire. Il viaggio di ritorno fu simile a quello dell’andata, e per tutto il percorso dalla casa alla costa furono avvolti in una fitta nebbia. Nonostante questo William li portò a sbucare dalla foschia esattamente nel punto dove aveva lasciato la barca, e con la stessa facilità con cui l’aveva tirata in secco la rimise in acqua.
Ricordandosi delle sue prime impressioni, Rachel volle provare ad aiutarlo, ma per quanto si sforzasse da sola non riuscì a spostare la pesante imbarcazione di un millimetro.
In pochi minuti furono sull’altra riva.
«Eccoci arrivati» disse William.
«Ciao!» lo salutò Robert «spero di vederti presto, così ci racconti un’altra fiaba!».
«Purtroppo ho paura che non sarà possibile» intervenne Rachel «dopodomani partiremo presto».
«Andate già via?».
«La prima metà delle nostre vacanze sono già finite» sospirò la donna «e mio marito vuole trascorrere l’altra parte dalla sua famiglia, nel sud dell’Italia».
«È giusto»convenne William.
«Già. Peccato che ci siamo conosciuti proprio alla fine, William…».
«Era destino, ma chissà, forse ci vedremo ancora» disse lui sorridendo.
Rachel lo guardò, cercando di capire cosa intendesse dire, ma non lesse nei suoi occhi alcun doppio senso.
Chissà, forse ci avevo sperato, pensò per un attimo, poi se ne vergognò.
«Arrivederci, allora» lo salutò.
«Arrivederci signora. Ciao ragazzi».
Un attimo dopo la barca era scomparsa nuovamente nella nebbia. Rachel diede una nervosa occhiata all’orologio e vide che aveva ripreso a funzionare. Con un brivido prese per mano i due figli e si avviò per tornare al loro chalet.