La sera scendeva tranquilla nel primo timido autunno, e i raggi del sole sembravano giocare a creare ombre strane  e sfuggenti sul lungo filare di pioppi che correva costeggiando i campi e le vigne, ancora in gran parte cariche di uva bionda e dolcissima.

Le colline sembravano l’inizio dell’imminente vendemmia, ma erano in realtà intente ad ascoltare lo scalpiccio della miriade di uomini che, come formiche pazienti, le stavano percorrendo in lungo e in largo, per convergere alla fine in una fila, lunga, colorata e allegra, sulla strada di casa.

Cominciava ad imbrunire, portando nella valle frescura e la promessa del giusto riposo ai vignaioli, ma anche destando i bambini dal torpore che recava il gran caldo: adesso si vedevano spuntare fra i filari, ancora timorosi di essere cacciati dai genitori troppo indaffarati, attenti a controllare chi si attardava a riposare, come quegli stagionali venuti a guadagnare due soldi per l’inverno, che dormivano nelle fattorie e stavano volentieri a fare due parole tra loro, osservando le sere limpide e raccontandosi avventure di un mondo lontano.

Quell’anno era arrivato un ragazzo mai visto, Roberto, che si diceva provenisse da una grande città del Nord, ma che forse non era neanche italiano, come si mormorava a volte per il suo accento strano e duro. Roberto, con le sue storie antiche e trasognate, eppure sempre dolci e nuove, le sue fiabe senza principesse e senza passato né futuro…

Il ragazzo stava aspettando il suo pubblico mordicchiando un filo d’erba, certo che anche quella sera sarebbero venuti.

Sorrise appena, vedendo i piccoli visi attorno a lui, rossi per la corsa e l’eccitazione, e si portò un dito alla bocca per chiedere silenzio e attenzione.

Ci volle qualche minuto prima che i bambini si fossero sistemati, lui oramai li conosceva tutti e sapeva aspettare i ritardatari, ma infine una dozzina di volti attenti lo fissavano impazienti.

«Allora», chiese, «come mai siete venuti tutti qui?»

Qualcuno si lasciò sfuggire una risatina impertinente.

«Ma dai!» fece la Cinzia, bionda come il grano nei suoi dieci anni «lo sai che vogliamo che ci racconti una favola!»

«Una storia! Un’avventura!» fece eco Marco, un ragazzino della fattoria del Poggio, guadagnandosi un paio di occhiatacce e qualche gomitata.

«Avete visto che non siete tutti d’accordo? Va bene, vi racconterò una storia favolosa, o una favola avventurosa, come preferite…».

Si fermò un attimo, il suo discorso parve incepparsi mentre osservava una nuvola sull’orizzonte, quasi cercasse di riconoscervi qualcosa. Nell’improvviso silenzio si sentì salire il frinire dei grilli.

«Lo sapete cos’é un noce?», domandò, e al coro di assensi riprese subito, portandosi un dito davanti alle labbra:

«Ma forse non tutti sapete che il noce è una pianta magica, dai poteri strani e misteriosi, che offre protezione alle persone sincere e paralizza quelle malvagie che gli si avvicinano…»

«Ma le paralizza davvero?» lo interruppe attento un ragazzino magro, coi capelli corti corti.

Roberto lo guardò un istante, serio:

«Certo, ma solo finché hanno pensieri cattivi. Quando smettono di fare i cattivi li lascia liberi: nessuno è sempre buono o sempre cattivo, non vi pare?»

Il ragazzo sorrise al silenzio che si era formato e ai volti incerti dei bambini.

«Dunque», continuò, «c’era una volta uno di questi noci… magici, anche se c’è chi giura che tutti i noci siano magici quando è necessario, che cresceva in una terra non molto lontana da qui, anzi, proprio simile a questa, con le sue viti dorate e le sue colline brune ammucchiate ai bordi dei prati, ma tutta quella terra, tutto quel ben di dio, era proprietà di poche persone soltanto, i padroni del castello, che forti delle loro armi e dei loro soldati imponevano la legge a tutta la popolazione».

«E pensare che i soldati erano gente di quel popolo, fratelli, cugini di quelli che erano servi, e che non erano trattati meglio dei contadini! Tutto inutile, come venivano chiamati alle armi non osavano più ribellarsi e diventavano docili come agnellini e paurosi come galline!»

«Bene, ogni anno che passava quei padroni diventavano più insolenti e pretenziosi, e sempre più spesso i loro grandi carri uscivano dalle porte di ferro del castello per ritornare ben pieni soltanto la sera del giorno dopo, tanto ci voleva per colmarli di uova, frumento, galline, maiali, qualche volta anche mucche, insomma tutto quello che riuscivano a trovare e a caricare…»

«Ma le uova non si rompevano, sui carri?»

Il sole era ormai tramontato del tutto dietro le colline, e la penombra si era impadronita di quell’angolo tranquillo.

La strada, illuminata a tratti da fioche lampadine, era percorsa da un uomo e una donna che erano venuti a cercare la figlia per portarla a fare compere in paese.

I due avevano visto le teste dei ragazzi da lontano, stagliati sul cielo ancora luminoso, ed avevano deciso di avvicinarsi di nascosto per sorprendere quella strana adunata.

«Un giorno»,  proseguì Roberto, «i padroni del castello si riunirono tutti insieme perché con le loro baldorie e con i loro sperperi avevano consumato tutta la roba rubata durante l’ultima scorribanda. Che disastro! E proprio quando dovevano fare quella grande festa!

Ben presto, dalla constatazione di essere quasi senza riserve passarono a studiare come procurarsene altre, ma non riuscivano proprio a trovare delle maniere diverse dalle solite…

«Ma non potevano andare a lavorare?» lo interruppe Guido.

«Ma i padroni non lavorano mica, sai!» gli rispose pronta Cinzia.

La coppia di genitori era intanto arrivata nei pressi del gruppetto, abbastanza vicini da sentire e vedere ma nascosti da alcuni cespugli.

«Ma guarda cosa gli insegna!», disse l’uomo, facendo per intervenire.

«Aspetta! Vediamo un po’ cos’altro gli dice!», lo fermò la moglie, trattenendolo per un  braccio.

Roberto ammiccò alla Cinzia:

«Vedo che qualcosa l’hai imparato. Sì, i padroni non lavorano, certo, dicono di lavorare, ma fanno lavorare gli altri. Anche lì era proprio così, e quindi non gli restava altro da fare che andare di nuovo a rubare ai contadini. Dovevano però stare attenti a fare le cose per bene, stavolta, perché sapevano che c’era poca roba da prendere, e se i contadini riuscivano a nasconderla per tempo…»

«Fu così che una sera, sotto un cielo gonfio di nubi e livido di lampi bianchi, i grandi portoni si aprirono cigolando e fecero uscire i sinistri carri scuri, tirati da cavalli neri come l’inferno, che scesero a valle con un rumore sordo e profondo, tanto sordo e tanto profondo che i contadini si guardarono bene dall’uscire di casa.

In men che non si dica i carri arrivarono al villaggio senza incontrare nessuno e senza essere visti da nessuno, ma si trovarono davanti a recinti deserti e a case ben chiuse: gli abitanti, infatti, sentendo il rumore, si erano chiusi nelle loro fattorie coi pochi animali che restavano, e avevano messo al coperto le messi raccolte e i frutti salvati dall’ultima razzia.

I capitani si guardarono l’un l’altro, indecisi sul da farsi, ma il padrone che guidava la spedizione ruppe gli indugi e disse, indicando una casa:

“Se non ci daranno la roba, ebbene, andremo a prendercela!”

A quel segnale soldati attaccarono la porta con le loro asce, e ben presto riuscirono a sfondarla.

Sulla loro strada trovarono però un contadino con una falce in mano che, tra il terrore e la rabbia, urlava di stare indietro.

Per un attimo tutti rimasero fermi, stupiti, ma un capitano si lanciò avanti e subito il villano fu sopraffatto.

Fu l’inizio della grande razzia, coi soldati che correvano come impazziti di casa in casa e gli abitanti che cercavano scampo nei boschi, alla luce rossa e sinistra degli incendi e delle folgori, mentre cominciava a piovere e i capelli bagnati scendevano sulle facce degli uomini, facendoli sembrare simili a diavoli usciti dal più profondo dell’inferno…»

«Ma non si ribellava mai nessuno?» chiese Marco, un po’ deluso dala piega che stavano prendendo gli avvenimenti.

«Quella volta si ribellò qualcuno, sì», rispose Roberto.

Sentendo quelle parole, l’uomo che era stato fino allora ad ascoltare ebbe uno scatto e si liberò dalla mano della moglie:

«Adesso basta! è un comunista! Senti cosa insegna ai nostri figli! Adesso gliene dico due io!»

E mosse un passo avanti verso il gruppo. Ma solo un passo.

Roberto fece una mezza smorfia e continuò:

«Quella volta Nerina si ribellò. Era tanto tempo che non riusciva a sopportare le angherie dei padroni, e aveva  visto persino delle sue amiche sparire, portate via sui carri, per tornare solo dopo giorni, pallide e stravolte, mai più capaci di sorridere e giocare.

Si ribellò, Nerina, quando vide suo padre spinto da parte come uno straccio da un capitano del castello, e stringere forte il coltello fu tutt’uno col lanciarsi in avanti. Nerina indietreggiò sull’uscio, il coltello insanguinato alto tra le mani, e in quell’istante un fulmine tremendo scese dal cielo, il tuono squassò la terra fino a farla tremare, e tutti la videro, ritta e terribile, con la veste scura che danzava nel vento».

Una voce ruppe il silenzio irreale che si era creato:

«Ma Nerina era più bella della Anna?» chiese un ragazzo più grande.

Roberto sembrò svegliarsi anche lui da un sogno:

«No», rispose dolcemente, «non era più bella di nessuno di voi, ma in quel momento qualcosa brillava nei suoi occhi, qualcosa che vi si rifletteva e gli dava una luce che non avevano mai avuto, una luce più forte di quella dei lampi e più luminosa di quella del sole a mezzogiorno…»

«Che luce era?»

«La luce della libertà, Guido, e la volontà di combattere per ottenerla, ma forse non riuscite ancora a capire. Poco importa, verrà il momento. Ma ritorniamo a Nerina, Non lasciamola lì sola nella notte, i soldati presto si riavranno dallo stupore e la prenderanno!»

«E ci riescono?». chiese Marco, tutto eccitato.

«No, perché Nerina é scappata nel bosco, e corre lungo sentieri che lei sola conosce, sempre più nel folto, braccata, coi capelli intrisi di acqua e di foglie, coi piedi nudi graffiati dalle spine che affondano nel fango e rallentano la sua corsa, e corre, corre finché non arriva ad una radura, proprio al centro del bosco. Allora si ferma, stremata, ma vede i soldati con i loro cani giungere alle sue spalle, e con un ultimo sforzo disperato attraversa il prato e si lascia cadere contro una grande noce maestoso che da sempre ne occupa il centro. Dai bordi del bosco si vedono le armi lampeggiare alla luce dei fulmini, la selva stessa che si anima di sinistre figure».

«Arriva anche il padrone che vede la situazione e sorride bieco. Dà un ordine e tutti avanzano verso la ragazza finché non giungono a pochi passi dall’albero. Qui si fermano un attimo sotto le fronde maestose del gigante centenario, poi si lanciano in avanti…

Nerina chiude gli occhi, aspettando di sentirsi prendere e portare via, ma il contatto delle mani sul suo corpo tarda, non viene. Allora ritorna a guardare e vede…»

«Cosa vede?»

«Vede i soldati e il padrone, i capitani e i cavalli, tutti fermi sotto l’albero magico, stupiti e sgomenti di non riuscire più a muoversi. E d’improvviso, dall’altro lato del bosco, gli alberi sembrano diventare esseri umani e corrono avanti urlando: sono i contadini del villaggio, parenti ed amici di Nerina, che hanno visto il prodigio ed hanno trovato il coraggio. Ora, armati degli attrezzi del loro lavoro, si sono lanciati attraverso il prato, illuminati a tratti dalle saette che scendono dal cielo impazzito. E correndo si scoprono tanti e forti, e gridano la loro rabbia ai tuoni, e i tuoni rispondono, e alzano le loro falci al cielo, che scende fino a farle balenare nella notte.»

«È un lungo, lunghissimo istante: i soldati vedono quella marea avanzare al ritmo scandito dagli elementi in rivolta, e gli sembra di vedere una grande figura nera danzare nel cielo illuminato a giorno. Fuggono. Fuggono travolgendo i capitani, fuggono calpestando il padrone, fuggono come una mandria impazzita verso il castello, abbandonando armi e carri. Qualcuno getta le divise e si riunisce ai fratelli, i contadini raccolgono le armi e si fermano davanti a Nerina. Lei si guarda intorno, incerta, ma i suoi occhi hanno conosciuto ormai una luce che non si dimentica. Ha ancora nelle mani il coltello simbolo della sua rivolta. Lo alza al cielo e di nuovo una folgore sembra dargli vita.

“Al castello!”

È il grido di tutti, e la gente sembra un torrente in piena che niente può fermare, e lungo la strada altra gente si unisce, ed il torrente diventa un grande fiume maestoso, ed infine un mare, che sale su fino al castello e lo travolge come solo il mare può travolgere ogni cosa. Alla fine, aggirandosi tra le rovine fumanti, la gente si guarda e si chiede: “Ma era tutto qui quello che ci faceva tremare?”

È vero, era tutto lì, ma per capirlo c’erano voluti Nerina, un coltello, e un noce…»

Roberto tacque, guardando avanti. Ormai la sera stava diventando notte e si stava facendo tardi per i bambini.

«È già finita?», chiese uno, non del tutto convinto.

«Potrei essere io Nerina?», domandava Cinzia, sedendosi sulle ginocchia di Roberto.

«Certo, puoi essere tu e potete esserlo tutte, anzi tutti, perché, vedete, sempre i padroni costruiscono castelli, e sempre ci deve essere una Nerina…»

«… Un coltello e un noce!» fecero coro i ragazzi.

«Certo, certo. Ma ora andate a casa altrimenti i vostri genitori staranno in pensiero».

«Ci sarai domani?».

«Sicuro che ci sarò. Andate pure tranquilli».

«Io voglio una storia vera, domani, capito?», brontolò Marco, andandosene.

E uno dopo l’altro i bambini attraversarono il piccolo prato e sciamarono lungo la strada, commentando tra loro il racconto con urletti e scherzi, finché la notte non inghiottì anche le loro voci.

Solo allora il genitore riuscì a compiere altri due passi e a venire avanti.

«Volevo portar via mia figlia,» disse, la rabbia già tramutata in stupore, «ma non sono più riuscito a … Ma come è possibile che … Marta hai visto che cosa…»

La moglie non sapeva cosa dire, ed era rimasta accovacciata in silenzio tra i cespugli.

Roberto sorrise e accennò alla strada.

«Vostra figlia è già andata. Fate presto, altrimenti arriva a casa prima di voi.»

«Ma mi vuole spiegare perché mai sono rimasto qui incantato?».

Roberto alzò le spalle, mosse le mani quasi a formulare una scusa coi gesti, poi indicò l’albero sopra di loro.

«Buonanotte», disse, e sparì nel buio.

I due rimasero soli, a guardarsi in faccia e a scrutare su, tra le misteriose fronde del noce.