Sapevo, sai.
Io già lo sapevo.
Ero perfettamente consapevole, dentro me, che non vi sarebbe stata un’altra volta. Non per noi.
Volevo però illudermi, cedere alle lusinghe di un Cupido invecchiato, male in arnese, ma pur sempre armato di frecce nella sua faretra.
Mi ero lasciata colpire, trafiggere dalla punta avvelenata di una di esse, la sola ad essere lanciata nella mia direzione.
Bersaglio centrato.
Nulla fu più come prima, poi.
Mi offrii al suo dardo col sorriso disincantato di chi ben conosce gli infiniti percorsi della vita e delle sue illusioni, ma anche con quel sottilissimo e impalpabile velo di speranza duro a morire, dentro.
Purtroppo o per fortuna.
Oggi so che risposta darei a quell’interrogativo ancestrale che sempre mi ha camminato accanto, lo so, sì. E mi deve bastare.
Mi basta.
Ci è voluto tempo, molto tempo.
Come sempre quando abdico all’essere solamente me stessa per cedere – consapevolmente! – al richiamo di turno, a quell’invito perentorio e irrinunciabile mascherato di candida innocenza, a immolarmi sull’altare di un amore difficile, osteggiato, incompreso, inaccettabile agli occhi altrui.
E forse, proprio per questo, irrinunciabile per me. Conosco e inseguo il sapore della sfida, è sempre stato così, sai.
Ma stavolta il gioco è andato oltre.
Innamorandomi di te ho gettato al vento anni e anni di voli liberi nel cielo di una presunta indipendenza che, oggi lo comprendo, mi rendeva invece prigioniera di me stessa, in una gabbia senza sbarre che simulava bene il gratificante orgoglio di potersi gestire e manovrare a piacimento.
Le illusioni restano pur sempre vaghe lucciole a rischiarare un’oscurità non ben percepita, forse nemmeno riconosciuta.
Specchietti per le allodole che ci dimorano dentro, in quel nido sicuro delle nostre spesso inconsapevoli paure.
Così, sì.
Fu esattamente così, preda rassegnata di queste riflessioni, che ti raggiunsi quella sera. Che accettai di incontrarti, di rivederti ancora un’ennesima volta, lontani da occhi stranieri e indiscreti, portandoti un dono che mi contenesse tutta, con le mie convinzioni e le mie insicurezze inconfessate.
Uno specchio.
Lo avevo impacchettato con cura, vari strati di carta velina azzurra come quel cielo in cui mi ero illusa di saper volare libera, bastava sbattere le ali senza sosta, prendere quota e librarsi nell’aria rarefatta dei miei desideri e delle mie passioni (forse, dei miei bisogni inascoltati?), prima di abbassarsi e atterrare sul terreno viscido del tuo essere, sentieri appena solcati dalla superficialità del tuo passo, un incedere cauto e consapevole di ciò che avresti voluto e, soprattutto, di ciò che non avresti voluto…
Troppo tardi.
Per me.
Ti raggiunsi all’appuntamento con il mio regalo elegantemente confezionato in una bella scatola serigrafata dai disegni blu su fondo argento, pregandoti di aprirla solo quando me ne fossi andata.
Posso solo immaginare il tuo viso, e la tua sorpresa, quando l’avrai aperta.
Uno specchio?
Sì, certo, uno specchio.
Guardalo.
Guarda la tua immagine riflessa sul vetro.
Guardati.
Mi vedi?
Sono io.

Forse ancora non lo sai…

“Portrait of Renée Perle”, 1931
photo by Jacques-Henri Lartigue