Sono nata in un torpe. Niente di strano – mi direte – quasi tutti nascevano in un torpe, in quel periodo, ma forse la cosa inusuale è che il mio, di torpe, era a Sjælland, e si trattava del IX secolo.
Sì, avete capito bene, il secolo in cui visse e morì Carlo Magno e gli succedette Ludovico il Pio, il secolo in cui nella magica Bisanzio l’imperatrice Irene accecò e uccise il figlio Costantino VI prima di essere a sua volta detroninazzata da Niceforo I – non prima di avere portato nel caos l’impero – e forse per questo fatta santa, il secolo in cui i Magiari si insediarono nei Carpazi, ma soprattutto quello in cui nel mio paese sorse la hirdth e fu creato il bol. Tempi di grandezza per la Danimarca.
Io vivevo ad Haithabu, ma presto mi affrancai dalla casa paterna e mi aggregai al norvegese Ottar che veniva dal nord delle Lofoten e fui la prima – e l’unica! – donna a partecipare alle spedizioni che razziarono argento, oro e schiavi sul contenente, facendo ricco il mio popolo e prospera la mia progenie.
No, non ebbi figli: lo stesso destino che fece di me una donna dal fisico di roccia, alta sei piedi e mezzo Ee forte come quattro uomini, mi privò di questa possibilità ma non mi negò le gioie dell’amore: le mie mani strinsero il petto villoso di Ottar e di cento suoi marinai, e i miei biondi capelli furono cantati in kenning da Alfredo il Grande.
Mai mi negai alla vita e mai temetti la morte. La mia spada spezzava le ossa come la falce della Mietitrice e sempre mi battei per essere la prima a fare irruzione nei villaggi e sterminare chi aveva avuto l’ardire di non darsi alla fuga. Se non uccisi donne e bambini fu solo per trascinarli schiavi sulla mia nave, ma fui pietosa con i vecchi, a cui risparmiai le sofferenze degli ultimi anni della loro vita.
Tra il sangue ed il fuoco, tra i gelidi spruzzi dell’acqua salata e le lunghe notti illuminate dall’aurora boreale gli anni passarono e giunsi alla maturità, quando una notte di burrasca ebbi la ventura di condividere con il timoniere il sesso e una bottie di idromele. Ricordo ancora che ero all’apice dell’orgasmo quando sentii lo stomaco svuotarsi e per un attimo pensai a quella nuova sensazione, quando vidi gli occhi del mio compagno farsi bianchi per il terrore e fummo ingoiati dal tremendo Moskstraumen, il mortale malstrøm tra Lofotodden e Værøy.
Cominciammo a girare in tondo sempre più velocemente e presto perdemmo i sensi, travolti dall’orrore e dalla nausea, cercando di aggrapparci a tutto quello che trovavamo.
Quando mi svegliai ero sola, lacera, adagiata su un pezzo di legno che era stato della nave e che aveva raggiunto una spiaggia di nere pietre vulcaniche. Non so quanto rimasi svenuta, se per ore o per giorni, ma ricordo che sognai di terre felici dove il sole era caldo e non tramontava mai, e che mi dispiacque tornare alla vita, ma dovetti. Mi rialzai fradicia e dolente, la pelle piagata dal sale, ma viva.
Da quel giorno smisi di invecchiare.
Non è vero che vivendo a lungo il tempo diventi infinito. Nei mille e duecento anni da quando sono nata ho visto molte cose, ma tutte mi sembrano sfrecciate davanti come se fossero durate solo pochi giorni, e non ho motivo di ritenere che se ne vivrò altrettanti – o dieci volte tanti – sarà diverso. È la morte che scandisce il tempo della vita, e a quanto pare a me questa misura è negata.
Sotto i miei occhi sono passate innumerevoli vite, e la coscienza di dover abbandonare ben presto ogni persona, di vederla invecchiare e morire, ha fatto sì che non mi legassi mai con nessuno, preferendo consumare i miei amori tra la sera e il mattino, come candele che bruciano ardenti per spegnersi subito dopo. Da sempre gli uomini hanno ucciso altri uomini, ma l’ebbrezza del sangue che ardeva nei miei combattimenti ha lasciato il posto al sordido terrore delle trincee, dove pavidi soldati sono massacrati senza ragione, senza vedere il nemico e senza avere scelto quella sorte.
Ho visto l’uomo conquistare il cielo e usarlo per fare strage dei suoi simili a migliaia, a centinaia di migliaia. L’ho visto inventare armi sempre più potenti, fino a crearne di tali da poter distruggere per sempre sé stesso. Ho desiderato di essermi trovata a Hiroshima per vedere se lì potevo trovare fine alla mia vita, ma questo non è stato possibile perché la mia proprietà riguarda il tempo, non lo spazio.
Come tutti i doni, anche il mio nasconde una maledizione, come testimonia il mio cercare sempre più frequentemente la morte, non per stanchezza o per curiosità, ma semplicemente perché se il tempo non consuma il mio corpo è arrivato a rendere consunta la mia anima. Uso questo termine con pudore, perché non so se l’anima esista, non ne ho mai incontrata una. Quello che so è che gli uomini mi sono venuti a noia con le loro eterne ripetizioni, i loro alternati momenti di gioia e dolore, di esaltazione e tragedie.
Così mi sono ritirata a vivere su quest’isola abbandonata, abitata soltanto da eterei fantasmi con cui parlo – o m’illudo di parlare – nelle chiare notti di luna o nelle tempestose serate autunnali, in ogni caso quando i rari turisti sono ritornati alle loro case ed è ritornata la calma.
Allora, e solo allora, prendo il mio lur e lancio nell’aere il suo profondo richiamo, musica antica, musica di guerra, musica della mia giovinezza, quando ancora ero Lagertha, la bionda guerriera che veniva dal mare. Così guardo le luci tremolanti di san Francisco ed immagino di essere sulla lunga barca di Ottar, lanciata alla conquista dei tesori della terraferma, e per qualche tempo sono dimentica di me stessa, del mio lungo passato, del mio misterioso futuro e del mio presente qui su Alcatraz.