L’articolo sarebbe stato pubblicato il giorno stesso dell’anteprima di Los Angeles, con la rivelazione dettagliata dei congegni ingegneristici di cui Mr Wolf abilmente s’avvaleva per propagandare, attraverso l’illusionismo e la prestidigitazione, le sue fantascientifiche millanterie.
Questo era ciò che si prefiggeva Osmond Cox, ben deciso a resistere in quell’assedio solitario, eroicamente pronto, all’occorrenza, ad immolarsi sull’altare della verità e dell’informazione, spinto dal fanatismo intellettuale ma, ancor di più, da una smodata ambizione personale.
Osmond Cox era uno scalatore ardito, e a quanto pare, non solo di sequoie.

E proprio dal folto dei rami della sequoia, dove s’era appollaiato armato di taccuino e binocolo, Cox poteva godere di un’ampia veduta, seppur parziale, dell’ area dove s’ergeva l’immenso tendone del “Great Sea Circus” e spaziare fino all’accampamento dei carri e della tendopoli, dove alloggiavano le squadre dei tecnici e dei manovali, impegnati nei minuziosi controlli e nella messa a punto dei diabolici congegni di cui Mr Wolf si sarebbe servito.
Ovviamente non poteva spiare ciò che accadeva all’interno del tendone (avrebbe comunque studiato il modo di penetrarvi notte tempo) ma da quel punto privilegiato poteva vedere e prendere nota di tutti i macchinari trasportati sotto il tendone bianco e azzurro, dove Mr Wolf, in persona, ne verificava lo stato e stabiliva test e messe a punto, mentre l’Ulisse, armato di carabina, vigilava affinché nessun estraneo s’intrufolasse all’interno.

Ma non era soltanto fermento organizzativo quello che Osmond Cox andava spiando, ma anche momenti di vita intima che ben avrebbero dovuto rimanere privati, come l’accesa discussione fra il colonnello Dixon e sua figlia. Diverbio di cui, tra l’altro, non aveva captato le parole ma, come spettatore di un film muto, aveva cercato d’intuire un possibile dialogo attraverso la mimica dei gesti.
Di certo il colonnello era visibilmente in collera, ma la ragazza, però, sembrava tenergli testa.

E così, infatti, una discussione alquanto animata s’era accesa fra padre e figlia quando, con toni aspri, il colonnello aveva rimproverato Ketty di trascurare i suoi esercizi e passare troppo tempo in compagnia di Miss Pure, ricordandole come la vita di un’artista fosse incentrata essenzialmente sulla disciplina e l’autocontrollo, e che trovava riprovevole, oltreché pericolosa, questa sua infatuazione per una donna effimera come quella, motivo per cui sarebbe dovuta tornare ad alloggiare, da quel giorno stesso e fino alla partenza, insieme a tutti gli altri, nell’accampamento del circo.
Allora, Ketty, tra le lacrime urlò il suo disgusto per il circo, per le vasche marine, per i congegni illusionistici, per Shadow ed infine anche per lui che, ignorando le sue esigenze, la costringeva ad inseguire un sogno che non era il suo.
Era stanca di vivere in un imbuto, sognava la terraferma, i confini di una proprietà, la routine di una vita oscura l’abbagliava mille volte di più che la prospettiva della fama, degli applausi e della leggenda a cui suo padre, fin dalla nascita, l’aveva votata.
Per tutta risposta il colonnello l’aveva schiaffeggiata.

Dall’alto della sua postazione, Osmond Cox, li aveva visti fronteggiarsi ancora per un breve momento, poi Ketty, oltraggiata da quello schiaffo, era fuggita via urlando il suo rancore.

Il colonnello, invece, era rimasto impietrito a fissare quella sua mano che aveva violato il viso di Ketty,  ben desiderando che mai fosse accaduto perché sua figlia era la sua unica ragione di vita, il suo solo bene prezioso, ed il suo compito era quello di vegliare su di lei. Così, dopo quel duro scontro, aveva preso atto che nella sosta forzata a Culver City aveva trascorso troppo tempo nel recinto di Shadow e trascurato sua figlia, lasciando libero accesso ad una donna equivoca ed intrigante come quella Miss Pure che molto abilmente, e senza alcuno scrupolo, l’aveva irretita con prospettive illusorie convincendola a rinnegare la sua vita.
L’abiura di Ketty era unicamente imputabile alle manipolazioni di quella donna diabolica con la quale era assolutamente opportuno che lui avesse un chiarimento definitivo.

Nascosto dal fitto fogliame della sequoia, Osmond Cox aveva visto il colonnello infuriato dirigersi verso l’abitato e, diligentemente preso nota di questo piccolo dramma esistenziale di cui avrebbe edotto i suoi lettori, concentrò tutta la sua attenzione su ciò che andava svolgendosi nell’area preclusa ai non addetti ai lavori, seppur ormai c’era ben poco da vedere dal momento che una volta introdotti i macchinari all’interno del tendone, rimaneva solo il via vai dei tecnici e degli operai.
Avrebbe dovuto comunque escogitare una strategia per potersi introdurre notte tempo nella tana del lupo: Mr Wolf, appunto.

Con una fluidità eccezionale per la sua stazza, Mr Wolf agilmente si districava negli esigui spazi ancora troppo ingombri delle voluminose attrezzature di scena, predisponendo gli ambiti e misurando le estensioni, che nulla era lasciato al caso e che la magia pur si avvaleva, nei suoi recessi, di cavi e pulegge, alberi motori, leve e catapulte, campi elettrici e magnetici, e quant’altro di più tecnico e materiale fosse in grado di render reale l’illusione.
Si districava, Mr Wolf, in quest’universo a lui così congeniale, con la competenza tecnica di un ingegnere, la passione di uno scienziato e la fantasia di un romanziere.
Poi, ritto su un predellino  che a mala pena sosteneva il suo peso, davanti alla vasca dei suoi cavallucci marini, impugnando una bacchetta da direttore d’orchestra, si accingeva a dirigere, sulle note di una melodia solo a lui percettibile, un’ invisibile filarmonica.

Ma l’incanto venne infranto dalle voci concitate di una donna e dell’Ulisse pistolero, che vicendevolmente si sovrapponevano, con toni aspri, costringendo Mr Wolf ad interrompere la sua performance ed intervenire per sedare l’alterco.
Lo aveva sorpreso la visione di una scarmigliata Miss Rose che, mani sui fianchi e sguardo fiammeggiante, fronteggiava, per nulla intimorita, il gigante armato che la sovrastava almeno di un’altezza e mezzo.
Strategicamente, Miss Rose, contrastava questo divario, a lei così sfavorevole, con una sorprendente estensione di voce, mirando a stendere l’avversario sotto quella fitta, inestinguibile gragnuola di parole che non concedeva spazio né a repliche né a minacce, tant’è che lo stesso Mr Wolf era rimasto ammirato da questa tecnica simultanea d’attacco e difesa magistralmente messa in campo dalla maitresse, ed oltremodo stupefatto che una donna così minuta possedesse un temperamento così ardito ed una tale prodigiosa potenza di voce.

– Dovreste tenere a bada i vostri uomini, Mr Wolf, e mi riferisco non solo allo scagnozzo con la carabina ma anche, e soprattutto, al vostro socio, quell’orribile colonnello Dixon che oggi è venuto ad insultarmi, accusandomi di aver irretito ed indotto Ketty alla disobbedienza. Ingiurie ed accuse pesantissime, aggravate di minaccia e testimoniali dalle ragazze e dai clienti del mio saloon. Sono qui ad avvertirvi, Mr Wolf, che se state cercando di montare uno scandalo ai miei danni per trarne una qualsiasi ulteriore pubblicità, state rischiando di farvi molto male poiché godo di particolari ed importantissime conoscenze, cosicché questa oscena boutade vi si rivolterà contro. Vi consiglio, quindi, subito dopo lo spettacolo di lasciare Culver City e di farlo il più velocemente possibile e senza ulteriore chiasso. –

Mr Wolf, davanti a quella fredda e ragionata collera, aveva chinato mestamente il capo producendosi in un vago inchino di condiscendenza come apprestandosi ad obbedire, senza discutere, a quell’ordine perentorio di cui riconosceva le ragioni.
Ma ecco nel contempo, come  per magia, sbocciare dalle sue mani una magnifica rosa sfacciatamente rossa che galantemente, e col più soave dei sorrisi, andava porgendo ad una esterrefatta Miss Pure.

– Non consideratemi vostro nemico, Miss Rose, vi sono davvero riconoscente per ciò che avete fatto per tutti noi, per la vostra accoglienza e la vostra ospitalità, ed immensamente mi spiace di questo imbarazzante quanto inopportuno malinteso in cui il colonnello Dixon è sfortunatamente incappato. Vi garantisco che andrò immediatamente a parlargli e, prima di sera, avrete le sue scuse. Nel frattempo, vi prego, di accettare le mie. –

Da dove diamine aveva tirato fuori quella rosa? Si chiese ammirata Miss Rose.
Una incantevole offerta di pace che di certo la lusingava ma che non cancellava, neppure in minima parte, l’onta subita.
Ma i modi squisiti di Mr Wolf (in netto contrasto con le maniere rozze del colonnello Dixon) e quel piccolo gioco di magia inscenato solo per lei, avevano mitigato la sua collera, cosicché di buon grado aveva accettato la rosa e le scuse.
Ed un invito a cena.

Dalla sua postazione coatta, Osmond Cox, aveva mnemonicamente filmato tutta la scena.