In soliloquio da tempo una busta ceralaccata giace tra due amalgame di cemento.
Oggi, le macerie di un rovinoso terremoto restituiscono alla luce quella lettera sepolta mai consegnata per motivi allora incomprensibili.
È di cartoncino grezzo color della crema e il sigillo rosso è integro.

Sopravvissuta alla devastazione una donna dai capelli corvini raccolti in una coda disordinata procede con passi infiacchiti e lo sguardo appannato in cui dimora uno struggimento seppellito da fumi e cenere.
Chissà perché non bruciano in gola quelli, eppure ne ha mangiate a iosa di polvere ma in bocca ha un sapore dolce che non è di sangue.
Sulla schiena un po’ di vento e fra quella e quello due braccia marmoree, inteccherite, che bucano detriti di pietra a reclamare salvezza al cielo quando questo non gliel’ha concessa.
Sente i brividi addosso anche se la primavera è alle porte, ma avulsa dal tempo e da quello che ha appena lasciato alle spalle ha solo bisogno di continuare a camminare e allontanarsi da lì, con quell’aroma mellifluo nella saliva che continua a buttare giù.
Indossa un golfino di lana Bethani, quella lana che arretra il gelo dell’inverno e nient’altro.
Ha la pelle d’ossidiana e degli occhi immensi d’agata nera che nel tempo di un armistizio temporaneo si soffermano su un insolito camminamento di formiche.
Stranamente divertita da quella colonna in movimento rallenta il passo e abbozza un sorriso con gli occhi incollati fin dove non è più visibile, sotto uno grosso muro frantumato.
Lì un po’ d’ombra restituisce paradossalmente la possibilità di schiudere gli occhi senza avvertire bruciore, decide di appropriarsi di quello spazio attratta dalla trincea spezzata degli insetti testarossa e ci si addentra.
E mentre sposta la testa a sbirciarne l’ingresso sente il crepitio di carta mossa dal vento e si avvicina. La nota lì, una busta con ceralacca che sporge e la chiama. Protende un braccio per avvicinarsi e la prende.
Se la gira fra le mani per leggere qualcosa ma non c’è niente di scritto, sopra solo polvere.
Con una mano la tiene stretta e con l’altra l’apre, all’interno una lettera con lettere fitte fitte.
Legge la calligrafia e la riconosce.
Ora che la terra vive una tregua dallo scuotimento sotterraneo trema il terreno della sua anima e geme la missiva che stringe fra le mani.
Si guarda intorno e riconosce quel luogo, anche se della casa che l’occupava non rimane che quel muretto. Tutto rasoterra, nessun cumulo che può nascondere suppellettili o corpi.
In piedi a renderle onore due alberi moringa resistenti all’evento il cui ricordo le fa scendere altre lacrime, mentre in bocca il sapore delle sue foglie la fa tornare al passato.
Quanti fiori di quelle piante erano stati bolliti per la preparazione di gustose zuppe e quanti per insaporire insalate, quanti ne erano stati raccolti per fare miele offerto a fine pasto. E quanti decotti della polvere di foglia aveva bevuto per depurarsi o alleggerirsi dalla febbre. Lei e tutta la famiglia che l’aveva accolta, quella di Chandra, il ragazzo a cui era promessa sposa.

‘Chandra…’ sussurra mentre legge.
Tanta è la commozione che in un istante s’allagano quelle gemme d’occhi, non le resta che lasciar andar via le lacrime che le impediscono di proseguire.
Piange, ride e vomita tutti i nodi accumulati nel cuore appesantito, liberandolo dall’oppressione.
Le viene in soccorso l’immagine di lui, la vista si spanna e le pare di sentire la sua voce che seguita a raccontare nell’incedere dell’epistola.
Ora comprende il perché non si sia mai abituata all’assenza di quel ragazzo generoso che l’aveva fatta innamorare quando le offrì la canna della bicicletta per accompagnarla a scuola quel giorno in cui dovette rinunciare alla corriera superaffollata.
Ora comprende perché sia stata risparmiata a quel sonno eterno che tanto aveva invocato da quando le braccia pesanti del mostro, per oltre cento giorni, si erano impadronite di lei dopo aver imbracciato un fucile in nome di chissà quale dio sterminandole la famiglia.
Il mostro era un pretendente di Bethani che a differenza degli altri non aveva tollerato il suo rifiuto, appoggiato peraltro dai genitori.
Non accettò che lei avesse scelto un altro uomo, giurò vendetta e la portò a compimento uccidendo i suoi familiari, poi la rapì lasciando nella disperazione il suo promesso sposo.
L’aveva violata ogni singolo giorno di prigionia, in un quadrato di cemento bianco alla fine di una strada senza sfondo dove nessuno si addentrava e nessuno avrebbe potuto sentire le sue grida d’aiuto.
Quelle braccia pesanti non chiedevano, la braccavano senza possibilità di scampo come un pesce nelle maglie di una rete e la pretendevano.
Lei era la ragazza del conforto, lui la macchia del male.

Di quel male, dopo il sisma distruttivo a cui è sopravvissuta, non rimangono che due appendici supplicanti il firmamento che presto torneranno alla terra sbriciolate in polvere.

La lettera fra le sue mani le ha rivelato preziose nunzie che le hanno riempito bocca, occhi e cuore di aromi speziati.
Sente che la terra ha sepolto il brutto del passato e ha lasciato il bello da qualche parte.
Il cielo ha fatto spazio al presente e se lo dice il cielo, l’amore deve essere compiuto.
Non le resta che incamminarsi a cercarlo.