Passarono altri giorni, in cui evitò di pensare alla porta. Il programma familiare, d’altronde, era sempre ricco di impegni. Giorgia aveva ripreso fiducia nell’estate: i genitori in ferie, le giornate lunghissime e soleggiate, tantissimi insetti volanti e il sole che metteva sempre tutto a posto. E poi era anche tempo di rifarsi il look, aveva sentenziato sua madre.

Giorgia adorava andare dal suo parrucchiere di fiducia. Ora non aveva più esitazioni a dire che era il suo preferito. Era un tipo buffo, Luca. Si faceva chiamare Luke e si definiva Hair Stylist, non un semplice parrucchiere. Ogni sua parola era accompagnata da movenze e giravolte con le mani, poco importa se guarnissero una pericolosissima forbice che ondeggiava sinuante fra l’aria e gli occhi dei malcapitati nelle vicinanze. Quando parlava sembrava più un ballerino o un pittore strambo, quelli parigini dei film, con la erre moscia e un po’ suscettibili, e come loro era restio ad accettare critiche, ma sempre propenso a elargirne.

Ogni tanto anche Giorgia aveva assistito a qualche scenetta con clienti insoddisfatti e lo guardava estasiata e divertita al tempo stesso. «Io quando taglio creo emozioni e se sei un animo insensibile non è colpa mia!». In effetti i suoi gusti sono spesso discutibili ma almeno sa cosa preferisce, si era sempre detta.

Così quel giorno la mamma tornò a casa con una testa gonfia e appariscente, lei con un bel taglio alla Amelie, la protagonista del suo film preferito, e Ilaria era riuscita con un lamentoso e stucchevole mammatipregomammatiprego! a estorcere il permesso per farsi fare quel taglio strampalato e asimmetrico, scopiazzato dalla popstar di cui ora si dichiarava fan. «E va bene, ma solo il taglio, scordati i capelli viola!», era stato l’accordo finale, sancito da un occhiolino fra lei e Luke che aveva fatto ridere tutti.

«La prossima volta facciamo taglio Pearl Jam con i colori alla Soundgarden», aveva risposto lui per far arrabbiare la mamma, mentre le altre clienti del salone partecipavano divertite prenotandosi per gli esperimenti.

«Ehi, piccola Amelie, eccoti un lecca-lecca gusto fragola pannosa», le aveva detto mentre con il Chupa Chups disegnava in aria chissà che cosa, per farlo poi arrivare nelle sue mani.

La vita andava migliorando di giorno in giorno. Tutto era così perfetto. Troppo. Quanto poteva durare?, si sorprese a chiedersi. Mentre cercava di convincere sé stessa che non doveva rovinare tutto con quei pensieri brutti, le tornò improvviso alla mente il ricordo della porta gialla. Eccola lì, ora chiara ai suoi occhi.

Quella porta giallissima era come la sua famiglia, un qualcosa di perfetto in un edificio vecchio e caduco. E lei stava vivendo giornate perfette in una famiglia come da tempo, troppo tempo, non avveniva.

Persino lei, con la sua giovane età, intuiva che quella perfezione aveva senso solo se accostata a qualcosa di imperfetto. Lo sporco fa notare meglio il pulito, il calore del sole è più forte dopo giornate di freddo e pioggia, la rosa perfetta si distingue solo accanto ad altre con i petali malandati, il giocattolo nuovo fa dimenticare momentaneamente gli altri. Giorgia aveva bisogno di quella porta gialla come delle pareti sporche che la contornavano. Aveva bisogno della sua famiglia perfetta come anche di vedere all’interno di quella casetta l’ombra che somigliava a suo padre, seduto sulla poltrona uguale a quella che avevano a casa, solo più brutta perché più cupa.

Come aveva fatto a starne così tanto lontana? Ora proprio non sapeva spiegarselo. Doveva andare a fondo con le sue ricerche, doveva scoprire chi ci abitasse per davvero e perché aveva copiato l’arredamento di casa sua. Solo così avrebbe potuto tornare a godersi le sue giornate senza pensieri brutti, senza avvertire la fragilità di quella perfezione. E forse avrebbe potuto riportare anche quella perfezione alla normalità, con giornate brutte e belle e tutti, non solo lei, ne era sicura, avrebbero apprezzato ancora di più quelle belle e si sarebbero fatti coraggio a vicenda in quelle brutte.

Scoprire quel mistero l’avrebbe fatta crescere, crescere davvero, non come quando credeva che scegliere il colore preferito significasse essere grande. Era pronta a crescere? Era pronta ad abbandonare barattoli d’insetti per far spazio a trucchi e profumi? Era pronta ad allontanarsi dal focolare, come aveva tentato di fare Ilaria?

Mentre se lo chiedeva si rese conto che si stava già preparando a sgattaiolare via di nuovo, a uscire di casa di soppiatto e crearsi nella mente piccole bugie che potevano tornare utili all’occorrenza, per non farsi cogliere impreparata in caso di domande. E sì, stava diventando come Ilaria.

Questa volta non poteva lasciare biglietti e aveva il tempo contato: doveva rientrare prima che qualcuno potesse accorgersi della sua assenza. Si chiuse la porta alle spalle e l’afa di quel caldo pomeriggio d’agosto la fece sentire già fuori dal calore di casa. Poi, improvviso, arrivò il gelo della paura, che le immobilizzò i pensieri e le articolazioni. Doveva farsi forza.

E quel coraggio Giorgia lo trovò ancora una volta nella corsa. Corse senza mai voltarsi indietro, senza ripensamenti, senza distrazioni. Cercò anche di tenere gli occhi sempre aperti, benché rivolti leggermente verso il basso, a vedere la strada davanti ma anche le punte delle scarpe che si alternavano in un destra-sinistra che la distraeva, che la faceva tener concentrata su qualche altra cosa anziché sui suoi pensieri.

 

Raggiunse di nuovo l’ulivo. Gli diede una carezza veloce, come a rassicurare lui e sé stessa, e poi di nuovo occhi bassi fino a raggiungere la porta. Tana per me, pensò, sapendo che stava giocando davvero da sola e che così tanto un gioco non sembrava più. Lasciò scivolare la mano sulla porta e poi sulle pareti fino a raggiungere la finestra. Fece un grande respiro e si allungò sulle punte per sbirciare ancora. Non devo aver paura, non devo aver paura, ripeteva come una cantilena a sé stessa.

E continuò a ripeterselo automaticamente anche quando nella stanza non vide più un uomo così simile a suo padre, ma un’altra figura familiare. Ed anche se sua sorella era scomposta, vestita senza altra cura se non quella di mettersi qualcosa addosso, anche se i capelli erano scompigliati e sembravano aver perso la piega di Luke, Giorgia non ebbe dubbi che fosse Ilaria.

Eppure, ne era sicura, l’aveva lasciata a casa serena e tranquilla, in camera sua al telefono con le amiche. Aveva quel maglioncino rosa che lei adorava tanto, come aveva fatto a cambiarsi e correre più veloce di lei?

E come faceva a conoscere quel posto? Perché non gliene aveva mai parlato? Anche lei, pensò, non aveva mai accennato niente alla sorella. Spesso ne aveva avuto la tentazione, ma quando stava per confidarsi era sempre entrata la mamma in camera o il telefono era squillato o erano state interrotte da qualcosa.

La guardò meglio. Forse anche Ilaria somigliava ad Ilaria ma non era proprio lei. Certo, si trovava in una casa che somigliava alla sua casa ma non era la sua casa, e l’altro giorno c’era un uomo che somigliava al padre ma non era il padre. Una serie di coincidenze che potevano avere una spiegazione. Ma quale?

Giorgia continuava a ripetere nondevoaverpauranondevoaverpaura per infondere a sé stessa il coraggio di rimanere incollata a quella finestra e non cedere all’istinto di scappare, ma la sua stessa voce la distraeva d non riusciva a sentire bene cosa stava succedendo all’interno. Fino a quando un urlo, così simile alla sua cantilena, non la destò da quella veglia vigile in cui era immersa: «Devi aver paura!», sentì provenire dalla casa. Che l’avesse scoperta?

No, Ilaria stava urlando a qualcun altro che se ne stava rannicchiato. Giorgia dovette alzarsi un altro po’ sulle punte, che a quel punto sentì doloranti, e vide in un angolo un ragazzo con la testa china e la mano tra i capelli. Sembrava così piccolo mentre Ilaria lo sormontava con la sua rabbia. «Devi aver paura di me e di tutti noi! Non ti voglio più vedere sennò ti ammazzo con le mie mani! Va’ via, va’ via, va’ viaaaa» e quella “a” così urlata e trascinata penetrò nel petto di Giorgia, che rimase immobile a vederla trasformarsi in pianto dirotto. Ilaria, che da gigantesca che era, diventava sempre più piccola mentre si accovacciava su sé stessa, stretta nel suo pianto e alle sue ginocchia, in una disperazione che non dava tregua al viso. Il ragazzo accennò con un lieve movimento ad avvicinarsi a lei, ma lei urlò ancora rabbiosa: «VATTENE HO DETTO!»

Il ragazzo si diresse verso la porta continuando a piangere e a piagnucolare. Per paura di essere scoperta Giorgia si fece tutt’uno con la parete, non avendo altro nascondiglio che la ricerca impossibile dell’invisibilità. Ma quello non si accorse di niente. Non alzò mai lo sguardo e non smise mai di singhiozzare.

Lo vide avvicinarsi all’ulivo e prendere la bicicletta che vi aveva lasciato appoggiata. Come aveva fatto a non vederla prima? si chiese sbigottita Giorgia, che pure era passata di lì. Ma quella bici… allora anche lui non poteva che essere… lui, Diego, il ciclista impavido, lo sbruffone sempre così sicuro di sé che aveva riempito il diario segreto di Ilaria. Perché anche lui era triste e disperato? E perché Ilaria era così arrabbiata con lui? Che cosa era realmente quella porta? Perché una cosa così bella nascondeva quell’inferno? Perché chiunque la varcasse si rigettava nello sconforto? Cosa le sarebbe accaduto se vi fosse entrata anche lei? E se si fosse trattato di un varco per un’altra realtà, dove tutto era triste? Certo, sarebbe stata una spiegazione logica.

E poi bastava non andarci più. Avrebbe trovato un altro ulivo amico e altri sentieri per le sue passeggiate. Ma a cosa le servivano altre passeggiate se ora trascorreva la maggior parte del suo tempo con la sua famiglia? Già, le vacanze sarebbero terminate, mamma e papà sarebbero tornati al lavoro, il tempo con loro sarebbe stato risicato e Ilaria avrebbe trovato un altro amore che l’avrebbe di nuovo allontanata da lei. E se invece fosse stata una macchina del tempo? Ormai le ipotesi le arrivavano al cervello senza che si sforzasse a cercarle.

Si voltò verso il soggiorno: era vuoto e silenzioso. E lei si sentì stremata, troppo stremata per continuare le sue ricerche. Guardò di nuovo all’interno e poi intorno a sé per essere sicura di non essere notata e si incamminò sulla strada di casa, turbata ma tranquilla. Niente corse stavolta, non ce la faceva. Procedeva come un automa, un passo dietro l’altro, con il pensiero fisso a quella casa, a quella finestra, a quella porta che era ancora così dannatamente bella e gialla, così perfetta nonostante tutto.

Era triste ma non aveva alcuna paura, e questo un po’ le fece paura. Non era mai stato facile lasciare quel posto come mai lo era stato raggiungerlo. Sempre col cuore in gola, sempre con l’affanno nei polmoni. Ora invece i suoi passi erano lenti e posati, quasi come quelli degli adulti, e si sorprese lei stessa di quel paragone. Cosa stava succedendo alla sua famiglia? Perché si sdoppiava?

Vide un’ombra davanti a sé e riconobbe quella della mamma. Profumava di vita serena. Si guardarono e quando stava per dirle qualcosa lei la fermò con un sorriso. Certe volte non c’è bisogno di dirsi nulla. Ma come aveva fatto a capire che era una di quelle volte? Si abbracciarono, si annusarono e tornarono insieme alla vita che amavano.