È notte fonda. Una notte di quasi ferragosto, ma non fa il solito caldo: quella specie di tempesta tropicale che s’è scatenata due ore fa ha rinfrescato l’aria. Ora però il cielo è stellato e l’atmosfera limpida; si vede benissimo la costellazione di Orione con la sua scintillante cintura ed un pianeta che non so capire se è Venere o Giove. Non riesco ad addormentarmi, sebbene tutto intorno a me sia calmo e silenzioso, come può esserlo una notte estiva in compagnia dei grilli intenti a concertare con le rane di qualche stagno rinvigorito dalla pioggia torrenziale di prima. Sono fuori in giardino e m’aspetto, da un momento all’altro, l’attacco famelico di orde di zanzare. Ragion per cui ho acceso un paio di zampironi che purtroppo nascondono i magnifici odori che seguono un temporale; ma non si può avere tutto dalla vita…

Ho bisogno di pensare… devo cercare di capire…, ripercorrere la serata partendo da ancor prima della buriana, quando la sera stava arrivando e la mia vita per certi versi era diversa da com’è ora…

 

Il buio sta calando e dovrei esserne contento. Dal mare, la gente che popola le ville vicine è rientrata quasi tutta, arrostita e sfiancata dal sole impietoso; si sentono rumori di stoviglie, richiami acuti e perentori di madri per raccogliere la famiglia attorno alla tavola apparecchiata sotto i patii illuminati, scrosci sibilanti di pompe che innaffiano prati ed aiuole, qualche cane che abbaia svogliato. Sembra addirittura che faccia meno caldo, finalmente, e questo basterebbe da solo a giustificare un senso di sollievo da parte mia. Invece… invece ho addosso quella certa agitazione che da un paio di giorni m’accompagna inspiegabile, specie al calar del sole.

Mi trovo dove mi trovo per puro caso: questa non è casa mia e, sino a poco tempo fa, di questo posto avevo sentito a malapena parlare e nemmeno tanto bene. Il classico rifugio del litorale romano ove convergono masse selvagge di capitolini durante i torridi mesi estivi. Una volta, forse, era anche un posto piacevole e rilassante; oggi rassomiglia da vicino ad uno dei tanti quartieri incasinati della non lontanissima Città Eterna… quanto meno la gente è la stessa e, come potete immaginare, il casino pure, anche se il mio angolo, devo ammetterlo, è proprio speciale.

Il puro caso che m’ha portato qui e al quale alludevo, è stato uno di quei fortuiti incontri che talvolta capita di fantasticare per quella sorta di nostalgico piacere che si prova nel domandarsi che fine abbia fatto il tale o il talaltro che hai frequentato un tempo e poi, come spessissimo capita, perso di vista. Un vezzo, insomma, connaturato, probabilmente, al cominciare a sentirsi irrimediabilmente vecchi o, se preferite, non più giovanissimi e al quale capita di abbandonarsi durante le cosiddette crisi di mezza età.

Così, anche al sottoscritto era successo qualche volta di chiedersi quale sorte fosse toccata al suo lontanissimo primo amore, roba del liceo, fatta in buona sostanza di poesie, sospiri, sguardi languidi, speranze sognanti ed, immancabili, cocenti delusioni, almeno nel mio caso. Naturalmente, per quello che ne sapevo, la Lei in questione non aveva mai saputo, forse neanche sospettato la mia struggente passione, ferocemente nutrita di Dolce Stilnovo e Cavalieri Erranti. A quei tempi, non erano nemmeno finiti i famigerati anni settanta, le cose andavano spesso così: oggi che ci avviamo verso un nuovo millennio, posso anche sorriderne, ma allora… erano dolori!

“Non ti avrei mai riconosciuto” aveva detto quando, dopo essermi un po’ sfacciatamente seduto al tavolo d’un bar di via Condotti dove casualmente l’avevo vista seduta da sola, m’ero limitato a porgerle la mano sillabando lentamente il suo nome e cognome, la classe di liceo che ci aveva visti compagni e l’anno della maturità. Nel vedermi compiere quella sorta d’improvviso assalto i suoi occhi avevano avuto un brevissimo lampo di panico da cui s’era però rapidamente ripresa. Avevo avuto agio di osservare il vorticoso salto all’indietro che le mie parole avevano provocato in lei; le sue pupille s’erano serrate sulla mia persona e s’intuiva, sotto quella folta massa di ricci neri, la ricerca disperata d’un identikit disperso nella nebbia dei ricordi lontani.

“E’ già molto che tu ci sia in qualche modo riuscita. Penso d’essere un bel po’ cambiato”, avevo commentato con lei, senza essere troppo sicuro che si fosse realmente ricordata di chi fossi.

Mi sbagliavo. Non solo si ricordava bene, ma aveva pure confessato che ai bei tempi (così c’eravamo quasi subito messi d’accordo di chiamarli) non le erano certo sfuggiti i miei goffi armeggi (rode, ma proprio in questo modo li aveva definiti). Perché m’era sembrato quasi naturale, parlando, di metterla a parte della mia folle passione di una volta, avendo cura di farci sopra tanta ironia quanta bastava per nascondere i lievi residui degli antichi imbarazzi. Se ai bei tempi fossi stato un po’ meno bamboccio (sempre definizione sua) chissà?… non le dispiacevo del tutto ma «Eri proprio una gran frana!!!». E non potevo certo darle torto.

Avevamo dunque riso di cuore alla sua ultima battuta, gettata sul tavolo col disinvolto candore di chi, evidentemente, ignorava che la frana in questione non si era per nulla divertita, ai bei tempi… o forse sì, lo sapeva benissimo, chissà? Ovviamente non m’ero certo preso la briga di stare a sottolineare questo trascurabilissimo dettaglio e m’ero piuttosto affrettato a portare disinvoltamente il discorso su di lei. Ammetto che sono uno che di donne non ci capisce tantissimo, ma una piccola cosa l’ho imparata anche io: niente di meglio che farle parlare di se stesse, se vuoi distoglierle dal massacrarti.

Avevamo così avuto modo di appurare che Sara, questo è il suo nome, aveva fatto quella che suol definirsi un’ottima riuscita nella vita, almeno quella professionale: presa in tempi ragionevoli la brava laurea che aveva reso felici mamma e papà, s’era affrettata a dimenticarla nel più riposto dei cassetti, per dedicarsi anima e corpo all’azienda paterna laddove aveva subito evidenziato spiccate, nonché insospettate, doti manageriali.

Minor propensione aveva invece mostrato, e stavolta con molta meno gioia dei genitori, per la famiglia: s’era sì sposata e, diceva, per un po’ la cosa aveva funzionato egregiamente. Tanto da mettere al mondo in termini ragionevoli un bebè in piena salute; ma proprio da lì erano iniziati i primi guai. Perché nel ruolo di madre ci si era ritrovata un po’ stretta e, per quanto nutrisse un affetto assolutamente mostruoso per quella sua creatura, la sola idea di sacrificare la vita professionale all’altare del ruolo materno le era risultata intollerabile. Il marito, a sua volta, aveva mal digerito quella indisponibilità dichiarata a rispettare i canoni imposti dai rispettivi ruoli tradizionali. E non era una banale, quanto spinosa, questione di decidere chi portava i pantaloni in casa: c’era in gioco una pesante verifica sulle reali aspettative di ciascuno nei confronti dell’altro, quelle, per intendersi, che andavano ben al di là del sentimento che li aveva legati.

In breve, Sara aveva deciso di separarsi e il caso aveva voluto che il giorno in cui l’avevo beccata al tavolo del bar fosse fresca reduce da una sentenza in cui il giudice sanciva l’affidamento di Bruno, il figlio, alla famiglia del marito. Lei non s’era opposta: per quanto dolorosa, aveva dovuto ammettere con se stessa che quella era la soluzione più logica. Avrebbe potuto vedere il bambino tutte le volte che avesse voluto e questi non avrebbe poi sofferto molto la sua assenza visto che, di fatto, c’era già abituato.

«Inutile ti spieghi quanto, in ogni caso, ci stia male… Però ora basta parlare di me. Tu scrivi sempre?»

Da una parte ero lusingato dal fatto che ancora ricordasse la mia scolastica passione per la letteratura; dall’altra non avevo potuto sottrarmi alla delusione di dover prendere atto che non aveva letto nulla di quanto avevo pubblicato. Ma c’era ben poco di cui rammaricarsi: il mio libro non aveva avuto quello che comunemente può definirsi un grande successo e gli articoli con cui sbarcavo il lunario uscivano sempre e solo su riviste letterarie; Sara poi non sembrava esattamente il tipo che spegne la luce del comodino solo allorché ha consumato almeno un quarto d’ora di sana lettura. “Al massimo” avevo pensato “dà una rapida scorsa a qualche bilancio aziendale”.

Visto però che me lo aveva chiesto, le avevo dato un succinto ragguaglio sulle mie imprese editoriali, badando a tenere nel tono quel pizzico di distacco che, magari, poteva sperare di suscitare in lei un qualche interesse; senza peraltro avere ben chiaro perché poi dovessi darmi pena d’interessarla. Immaginavo che la cosa potesse in qualche modo avere a che fare con quella frana d’antica memoria: è cosa risaputa che noi maschietti siamo sempre piuttosto permalosi quando si mettono in ballo le nostre capacità di seduzione, giusta o sbagliata che sia la valutazione.

In effetti, un qualche risultato lo avevo ottenuto: mi aveva bersagliato con un sacco di domande, metodiche e precise, quasi a sondarmi con la pedante ed acuta accortezza con cui doveva contrattare l’acquisto di una partita di legnami (di questo si occupava). Si trattava, evidentemente, di una sorta di deformazione professionale ma, di fatto, il risultato era stato il trovarmi, volente o nolente, ad ammettere in modo più o meno esplicito che la mia vita non era quel paradiso di modesto ma indiscutibile successo che avevo tentato ingenuamente di contrabbandare con lei e che, anzi, stavo proprio nel bel mezzo di una sorta di vicolo cieco: un romanzo che, praticamente, si rifiutava di andare avanti e le tasche piuttosto al verde… molta bohème, se vogliamo, ma il saldo era quello che era, specie considerando che l’età della bohème, a voler essere pignoli, era bella che andata.

M’aspettavo, a questo punto, che l’esito dell’esame al quale mi aveva sottoposto provocasse in lei un logico atteggiamento di rifiuto ed ero rimasto ben sorpreso quando invece s’era lasciata andare ad un commento che, se non proprio invidia (e ci sarebbe mancato!), esprimeva una sorta di velato rammarico interiore, come se ai suoi occhi rappresentassi una parte di sé che, in qualche modo, temeva di aver tradito, una parte alla quale doveva, evidentemente, aver rinunciato e con qualche sforzo. Tutto sommato era imbarazzante: potevo anche capire che uscire da un tribunale dopo aver di fatto rinunciato ad un figlio non dovesse essere un’esperienza esaltante. Tuttavia, s’intuiva un malessere più grande, più profondo e, direi, più antico che mi sfuggiva totalmente.

E le sorprese non erano finite lì: il silenzio, anche un po’ imbarazzato almeno da parte mia, ch’era seguito al suo commento l’aveva di nuovo interrotto lei. Fissandomi dritto negli occhi aveva detto: «Visto che dici che non ti puoi permettere nessuna vacanza, ma che in città non riesci a scrivere, cosa ne penseresti di andartene a partorire il tuo prossimo successo nel fresco della mia villa al mare?».

Non ricordavo cosa avevo risposto; di certo, se un commento avevo messo insieme doveva essere stato piuttosto confuso visto che, in effetti tale mi sentivo: confuso ed anche piuttosto spiazzato. «Guarda che non pretendo mica una percentuale sui diritti d’autore! Mi basta sapere che quella casa, che i miei avevano costruito per me ed in cui ho passato tanta della mia adolescenza, serve ancora a qualcosa. Loro se ne sono andati a vivere in Costa Azzurra ed io… beh, non ci vado mai. Magari così riesco a farmi perdonare da te qualche mia cattiveria del passato, che ne dici?».

Che diamine potevo dire? Semmai avessi potuto avere una valida obiezione alla proposta, il sorriso un po’ sornione e birichino con cui m’aveva rivolto l’ultima domanda l’aveva certamente smontata ancor prima di nascere. Già, perché forse ho dimenticato di dirvi che Sara oltre che essere in gamba è pure una gran bella donna e come si fa a dire di no ad una gran bella donna?

 

Ed eccomi qui, allora, da quasi due settimane. La casa è una signora villa con tanto di viale alberato, giardino ed una serie tale di stanze che potrebbero abitarci almeno tre famiglie, pure di quelle “abbondanti”, senza correre minimamente il rischio di pestarsi i piedi. Un angolo di paradiso in un casino da vacanzieri romani, mi viene istintivo definirla. Certo, si vede bene che negli ultimi anni è stata piuttosto trascurata ma, insomma, conosco un mucchio di gente che non esiterebbe a definirla un’autentica reggia, almeno se confrontata coi buchi in cui tanti trascinano la loro faticosa esistenza… e non esito a mettermi in quel mucchio, sia ben chiaro!

C’è un giardiniere che, a giorni alterni, viene ad occuparsi delle piante e del prato ed una signora attempata ed efficientissima che si preoccupa di tenere tutto lindo ed a posto con la sua quotidiana presenza mattutina. Ha la chiave ed io neanche la sento arrivare: mi guardava in maniera un poco strana i primi giorni. È evidente che si chiedesse chi diamine io fossi, pure se immagino che Sara una qualche giustificazione della mia presenza l’avesse data. Ma, com’è inevitabile in questi casi, la signora si chiedeva (e si chiede tutt’ora) cos’altro ci fosse oltre le spiegazioni di Sara, ma è stata molto discreta guardandosi bene dall’indagare, anche ora che tra noi è subentrata una certa familiarità.

Giorni fa l’ho quasi sorpresa che, con la scusa di pulire e mettere a posto, stava armeggiando tra le mie carte lì alla scrivania dove lavoro con la macchina da scrivere (quando non sto fuori a godermi l’aria del giardino). Magari stava effettivamente facendo solo il suo lavoro, ma almeno una sbirciatina deve averla data visto che poi, il giorno appresso, mentre assieme prendevamo il caffè che io le offro quando faccio colazione (e lei già da un pezzo lavora) in quei cinque minuti che si concede per la mia gentilezza (così dice) ha vagamente accennato ad una sua nipote che sta scrivendo una tesi sugli etruschi. È chiaro che le nostre sono solo chiacchiere di circostanza, ma non può essere un caso che il romanzo sul quale rischio di giocarmi tutto il mio futuro sia una storia che a che fare con gli etruschi.

«Mia nipote sostiene che gli Etruschi erano un popolo extraterrestre, venuti sulla terra per insegnare a noi che allora eravamo trogloditi, cosa bisognava fare per diventare un pochino più civili. E poi se ne sono tornati a casa loro.»

«Interessante… e che lei sappia ci sono riusciti?… a farci diventare un poco più civili, voglio dire». La signora Rita (così si chiama) mi guarda con aria sospettosa e quasi offesa, poi vede che sto sorridendo e capisce che ho solo voglia di stuzzicarla un poco e mi risponde pronta: «Non lo so. Bisogna proprio che lo chieda a mia nipote!»

Finito il caffè, lei torna alla sua efficienza ed io ai miei tormenti letterari. A parte la considerazione che potrei usare la storia degli extraterrestri nel mio romanzo (e dovrei ricominciare da capo, diociguardi!), qualcuna delle domande che la signora Rita probabilmente si fa, tutto sommato me la faccio anche io. Sarebbe a dire: perché mai Sara m’ha offerto di venire a lavorare qui? Tralasciando le ovvietà che sono state dette al momento in cui la proposta è stata lanciata (la casa vuota è sprecata, tu hai bisogno di un posto fresco e tranquillo, mi fa piacere dare una mano ad un artista, e così via), cosa ci sta dietro? Magari niente, ma sarei proprio uno scrittore da due soldi se sfuggissi al fascino di lavorare di fantasia sopra a una domanda del genere. C’è chi sostiene che siano proprio gli scrittori da due soldi quelli che investono malamente il loro tempo con questo tipo di domande. Verissimo. Tuttavia mentirei se affermassi che il comportamento di Sara mi lascia indifferente.

Ve lo state chiedendo, è chiaro: mi piace ancora Sara? Mica facile azzardare una risposta… d’istinto direi di sì, ma subito appresso arriverebbe una doverosa riflessione sul fatto che di sicuro non posso dimenticare il tempo in cui lei riempiva i miei sogni d’amore adolescenziali e, visto che allora rimasero sogni, oggi qualcuno potrebbe insinuare il dubbio che magari sono alla ricerca di una specie di rivalsa per tutto l’inevitabile fiele ingoiato allora.

Giusto, la considerazione sarebbe legittima. Però sarei scemo a sorvolare sul fatto che quei bei tempi sono lontani, che la ragazza di cui pensavo d’essere innamorato ora non c’è più, come non c’è più nemmeno l’adolescente imbranato e timido che ero io. Insomma: è tutto diverso e, per dirla fino in fondo, non c’è più quella meravigliosa vena di romanticismo di allora. Senza andare a disturbare parole impegnative come cinismo ed esperienza, è chiaro che sia io che Sara siamo due persone diverse e, dimenticando per un momento che lei – lo ribadisco – è più che desiderabile, viene spontaneo chiedermi se c’è qualcosa in più che non quel generico desiderio di portarsi a letto una bella donna a popolare certe mie fantasie.

Ammesso che questo possa costituire forse una specie di rebus, in ogni caso non è questo che da un paio di giorni, come prima accennavo, mi rende nervoso e inquina in maniera fastidiosa il mio lavoro che, nei primi giorni, era filato in maniera a dir poco splendida. È un fatto verificabile che siano venuti via tre capitoli della mia storia in modo facile e, per alcuni versi, persino sospettosamente facile. Perché io non sono tipo da scrittura di getto, anzi. In genere quello che scrivo è una specie di faticoso puzzle di minuscoli tasselli che metto assieme con estrema fatica, tra vagoni d’esitazioni e ripensamenti. E poi i dati statistici difficilmente mentono: per fare altrettanto, prima di venir qui, non m’erano bastati sei mesi. Invece ora, sarà l’aria, sarà la bellezza del posto, sarà il profumo della resina dei pini, sarà pure il fatto di poter godere di agi inusuali per il sottoscritto, sarà quello che volete ma tre capitoli in circa dieci giorni è una performance per me pressoché olimpica… Inoltre, forse non sono la persona giusta per dirlo, ma non è solo un problema di quantità: a me pare che qualcosa nella storia ci abbia guadagnato dal venire alla luce in questa specie di angolo di paradiso.

Non basta: ho pure buttato giù una decina d’idee per racconti e persino un primo abbozzo per quello che parrebbe (non ho le idee chiarissime, sono sincero) una possibile pièce teatrale. Insomma, mi pareva di aver preso un abbrivio niente male, fino al punto di cullare qualche timida illusione sulle rosee prospettive di un sostanzioso contratto editoriale. Magari, vai a capire, potrebbe essere stato questo a fregarmi: questa specie di lasciarmi andare all’illusione di aver finalmente sconfitto il mostro che angustia le mie pagine, ovverosia l’eterna paura di non farcela ad arrivare in fondo. Così mi sono rilassato e, d’improvviso, tutto è di nuovo crollato. Di nuovo la pagina bianca è diventata un deserto ostile e pericoloso nel quale ho il terrore di avventurarmi.

Se n’è accorta anche la signora Rita che, sorniona e apparentemente distaccata, evidentemente non si perde niente di quello che qui accade. Giusto tre o quattro mattine fa, mentre girava e rigirava pensierosa il cucchiaino nella tazzina del caffè, se n’è uscita di punto in bianco con un: «Magari le farebbe bene farsi una nuotata… mia nipote, quando non riesce ad andare avanti con la sua tesi, si mette il costume, prende l’asciugamano e va in spiaggia. Un po’ di sole, una mezz’ora di bracciate, s’asciuga, torna e si rimette a lavorare come niente fosse».

L’ho guardata in faccia, prima di dire qualunque cosa. Non avevo neanche accennato a qualcosa che avesse a che fare col mio blocco letterario. Ma lei era tranquilla e serena come se il fatto d’impicciarsi delle mie pagine bianche fosse un suo diritto acquisito, magari assieme all’idea che potrebbe anche essermi madre e al suo senso gestionale della casa (e qui mi pare di cogliere un qualche zampino di Sara che magari, come solo le donne tra loro son capaci di fare, mi ha raccomandato alle sue cure professionali e materne). Dovrei irritarmi per questa ingerenza, ma mi basta guardare la sua espressione serena per capire che non posso riuscire a prendermela con questa donnina minuta e forte che non mi ricorda neanche un po’ mia madre (per fortuna, perché con mia madre non mi prendo proprio). Al di là del fatto del mio essere cosciente che ha ragione da vendere, non mi spiace del tutto sentirmi un po’ assistito in questa mia crisi. Non dico che il suo consiglio fosse quello giusto, ma è già la sola presenza di qualcuno che mi consiglia a rappresentare un’esperienza inconsueta. E se la sommiamo all’ospitalità offertami da Sara, beh allora ecco che mi trovo a muovermi in una realtà assolutamente nuova e sconosciuta.

Sono infatti abituato a gestirmi da solo: me ne sono andato presto da casa e in quelle che sono state le mie esperienze in fatto di rapporti affettivi successivi, s’è sempre trattato di relazioni dai confini materiali ben precisi, col diktat indiscutibile di non invadere l’altrui intimità più di tanto. Qualche maligno potrebbe anche insinuare che forse è proprio per questa connotazione che tali relazioni son durate quello che son durate, senza mai approdare a nulla che fosse più di una o due settimane di vacanza assieme. E potrebbe anche aggiungere che, in più di un’occasione, quel breve periodo trascorso more uxorio era stato di fatto il preludio al prendere ognuno la sua strada, magari con qualche piccolo dramma di mezzo, ma senza ripensamenti effettivi.

Vedere ora una signora Rita che si preoccupa delle mie crisi è decisamente un’esperienza inedita per me. E siccome non sono molto bravo a gestire le tensioni emotive, non trovo di meglio che cercare di fare lo spiritoso. Così le rispondo: «Lo sa signora che lei ha proprio ragione? Anzi, guardi, facciamo così, dica a sua nipote di passare qui da me quando va in spiaggia, che ci andiamo assieme!».

Ho appena finito di fare lo spavaldo e già mi pento di aver esagerato con la donna, d’aver superato un limite, d’essere stato scortese verso chi cerca, in fondo, solo di aiutarmi. Ma lei scoppia in una risata che mi disarma, poi dice: «E bravo il nostro galletto che coglie subito l’occasione al volo! Non ho problemi a riferire la sua proposta ad Emilia. Però mi pare giusto lei sappia ch’è fidanzata con uno che gioca a rugby… non è che io ci capisca molto di quello sport, ma mi dicono che è piuttosto violento… d’altra parte Alberto, il ragazzo d’Emilia, è alto e grosso come un armadio! Veda un po’ lei…».

Diavolo d’una donna! Sospetto si stia prendendo gioco di me… magari non c’è nessun fidanzato, o se c’è al massimo gioca a pinnacolo, ma si diverte a sfottermi. Intanto però è un fatto che s’è resa conto che non ho scritto più una pagina. Ma devo stare al gioco e così ribatto pronto: «Nessun problema. Il mese scorso ho vinto un campionato di cinture nere di Tae-kwon-do e quindi possiamo organizzare un bell’incontro quando… come si chiama? Ah, sì… quando Alberto è libero.»

«Tae… che?», fa lei con l’aria di chi sta per toccare un rospo verrucoso. «Tae-kwon-do…», rispondo, «è una disciplina orientale di difesa, … micidiale mi creda!».

«E lei sarebbe una cintura nera?». «Per servirla!», faccio io e mi metto a fare lo scemo assumendo un maldestro abbozzo di quelle pose che si vedono in certi film idioti in cui gli orientali urlano, fanno salti e se le danno apparentemente di santa ragione, salvo poi non mostrare manco un graffio.

«Già, vedo; un po’ come io sono Carla Fracci nel balletto che hanno dato ieri sera in tv… stia attento che rischia il colpo della strega a fare certe esibizioni…». «Lei non mi crede!». «E come no! Sono più che convinta… basta guardare i suoi bicipiti possenti per togliersi ogni dubbio. Sarà meglio ch’io torni al mio lavoro. Grazie per il caffè!». Finisce di berlo, mi sorride, e mi lascia lì, in quella posizione scomoda e ridicola che ho assunto perché non riesco a resistere alla tentazione di fare il buffone. Non c’è che dire: non sarò più il bamboccio imbranato d’una volta, ma certo resto un artista nel collezionare figure di merda! Meno male che posso sperare che tutto resti in questa casa e se anche la graziosa Emilia (l’ho intravista una volta ch’era venuta a prendere la zia con la macchina) dovesse venirne a conoscenza… vuol dire che va a monte la nostra nuotata e di certo mi risparmio di dovermi confrontare con i bicipiti dell’armadio rugbista!

 

Però devo essere sincero: l’idea della nuotata non era male. Ed il caso ha voluto che, mentre cercavo in un ripostiglio degli attrezzi per tentare di far funzionare un rubinetto ch’era entrato in sciopero senza preavviso, proprio la stessa mattina della mia buffonata con la signora Rita, avevo casualmente trovato una muta da subacqueo con tanto di pinne, maschera, cintura e pesi. Era certo roba vecchia, che magari era servita al marito di Sara e poi era stata dimenticata lì e, questa sì che era una combinazione strana, pareva proprio della mia taglia. Con molta fatica me l’ero provata e, in qualche modo ci ero entrato dentro. Sicché m’è venuta proprio voglia di andarmi a fare qualche bella uscita in mare, giusto un po’ di snorkeling. Per fare un po’ di attività fisica e distrarmi al tempo stesso: guardare il fondo marino, quand’ero ventenne, era un modo che m’aiutava a fantasticare le mie storie, mi distraeva e mi concentrava al tempo stesso.

Insomma, ieri sono riuscito a strappare ad Erminio, un attempato pescatore della zona, la promessa di portarmi in giro con la sua barca. Non è che da queste parti ci siano fondali strepitosi, ma di sicuro lui conosce i posti che meritano e, soprattutto, mi andrebbe proprio di stare un paio d’ore in acqua, lontano dal casino della spiaggia. Così ho preso l’attrezzatura che avevo trovato e l’ho messa a mollo nella vasca di uno dei bagni che non uso, giusto per ripulirla della polvere e poi… com’era facile prevedere, me ne sono dimenticato.

Stamani la signora Rita, che quel bagno adopera per cambiarsi prima e dopo le sue pulizie (questo l’ho appunto scoperto oggi) ha trovato muta e resto e mi ha fatto una piccola ramanzina per aver dimenticato di mettere ogni cosa ad asciugare. Ovviamente – quella donna è un tesoro – subito dopo ha detto che ci pensava lei a sistemare il tutto alla giusta maniera. Mi chiedo se devo pensare ad una mancia, quando andrò sarà il momento di lasciare questa casa.

A proposito: con Sara non abbiamo parlato di tempi riguardo alla mia permanenza qui. «Puoi stare quanto vuoi…», mi pare abbia detto ad un certo punto. Ma è chiaro che questa è una delle cose che si dicono tanto per dire. Prima o poi dovrò lasciare questo magnifico posto che, in ogni caso, quando arriva l’inverno diventa senza dubbio ancor più solitario, visto che la gran parte di quelli che stanno qui ora, torna in città quando termina l’estate e, al massimo, la rivedi in qualche week-end. La casa avrebbe anche i riscaldamenti e, quindi, immagino che sarebbe ampiamente abitabile anche in inverno. Di sicuro però cambia un po’ tutto il contorno.

Volendo, potrebbe anche essere meglio per chi, come me, per scrivere ha bisogno di tranquillità e silenzio. Non dico di essere uno che potrebbe fare l’eremita, ma la confusione non mi attira per nulla. Di certo però non ho mai vissuto in un posto solitario come deve essere qui in inverno. In ogni caso è ridicolo che io stia qui a pensare a queste cose: sono un ospite ed è cosa risaputa che l’ospitalità va bene quando è limitata nel tempo. Non siamo mica ai tempi dei mecenati del Rinascimento che si prendevano in casa, nutrivano e vestivano i loro artisti a tempo indeterminato! Ed anche allora, in ogni caso, prima o poi gli ospiti dovevano sloggiare… diciamo che, così come a suo tempo la cosa era stata proposta, implicitamente si parlava dell’estate, e, quindi, non era ragionevole pensare di andare oltre.

Vero è che non sono certo in grado di prevedere se per allora sarò riuscito ad arrivare in fondo al mio romanzo. E questo mi riporta al punto in cui sono partito nel raccontarvi questa storia. E cioè al fatto che sta calando la sera ed io sono piuttosto agitato. Dal momento che la cosa accade da un paio di sere, è chiaro che c’è di sicuro un qualche collegamento con il foglio bianco inserito nella macchina da scrivere. Posso sempre sperare che seguendo i generosi consigli della signora Rita, la nuotata riesca a darmi la soluzione sperata, pure se non si tratterà di vera e propria nuotata, non almeno come la pratica la graziosa Emilia, ma non mi pare che la differenza dovrebbe essere significativa.

In aggiunta, sempre oggi ho provato a chiamare il mio editore. Naturalmente non l’ho trovato: era in ferie come quasi tutti in questo periodo e Paola, la segretaria tuttofare che invece non si ferma mai, neanche d’estate, m’ha fatto chiaramente capire che la bella notizia dei tre capitoli terminati non basta, almeno secondo lei, a far tornare il sorriso al suo (e mio) datore di lavoro. Paola è una che il grande capo lo conosce benissimo e, come spesso accade, potrebbe tranquillamente mandare avanti la baracca da sola al posto suo; sebbene sia relativamente giovane e fisicamente non da buttar via, impersona in maniera persino disgustosa il modello segretaria-zitella-innamorata-senza-speranza-del-padrone, se capite cosa intendo. Non ho idea se tra i due ci sia oggi una qualche relazione più o meno affettiva; potrebbe esserci stata nel passato, quando i due erano un po’ più freschi e ruspanti. Non lo so e nemmeno mi interessa; quello che so per certo è che nessuno meglio di Paola può darmi il polso della situazione e lei, nei miei confronti, è stata fredda e scostante quanto basta a farmi capire che neanche a parlarne di un altro anticipo. Anzi, giusto per togliermi eventuali grilli dalla testa, m’ha chiaramente detto che a suo avviso sto camminando sulla lama del più classico dei rasoi e potrei farmi piuttosto male, se non mi sbrigo a tirarmi via dal mio ennesimo blocco artistico (così l’ha definito lei, col tono di chi ti fa capire perfettamente che la cosa, dal suo punto di vista, è solo una enorme cazzata).

Insomma c’è poco da stare allegri; difatti non lo sono affatto e questa serata si presenta maluccio. È a questo punto che improvvisamente il telefono si mette a squillare e la cosa mi coglie completamente di sorpresa. In effetti, togliendo Paola, la segretaria, a nessuno ho dato questo numero. Fa parte, o almeno dovrebbe, del piano isolamento per scrivere che prescrive ci sia il minimo delle distrazioni, visto che la mia concentrazione ci mette un niente a sparire senza alcun bisogno di telefoni che si mettano a squillare. Escludendo la suddetta segretaria (e men che mai il suo capo, che sarà in giro in barca per il mondo) a causa dell’orario, o si tratta di qualcuno che ha sbagliato numero o, come unica alternativa restano la signora Rita e Sara. La prima non ha alcun motivo di chiamarmi: anche avesse dei problemi per il giorno dopo non chiamerebbe stasera, essendo perfettamente inutile. Resta dunque Sara e, ad essere sinceri, la cosa mi suona ambigua: è venerdì sera e non vorrei che… ma sono poi sicuro che non lo vorrei? L’ho già detto, mi pare, che è più che… oh, insomma, mi sto facendo delle stupide idee sbagliate e pure un po’ ridicole! Mi do del cretino e rispondo…

 

Già, era proprio lei… Sara. Sta venendo qui. Ha già prenotato un ristorante per la cena, organizzatissima ed efficiente, mi chiede solo di farmi trovare pronto e… ripulito: poi è scoppiata a ridere. Una risata argentina e spontanea, che non aveva niente di canzonatorio, ma somigliava a quella di una ragazzina eccitata perché va al suo primo ballo. Poi ha aggiunto che aveva bisogno di distrarsi e non c’era nulla di meglio che farsi una bella rimpatriata col sottoscritto. Personalmente non ho detto molto; c’è mancato poco che mi sfuggisse un ossequioso obbedisco! E se mi sono trattenuto è solo perché qualche brandello di dignità m’è rimasto. Ed ora sì che non ci capisco più niente…

 

Al ristorante, ch’era carino e, senza dubbio, della categoria Stasera-ti-spello, non c’è stato ovviamente verso di pagare… e meno male. Pare che Sara abbia lì una specie di conto aperto, se non addirittura una sorta di abbonamento… ma non aveva detto che non andava mai alla villa al mare? ci capisco sempre meno, ma c’è poco da capire quando il pesce è ottimo, il vino non ne parliamo, la donna che ti siede davanti bella, brillante, spigliata ed il conto un teorema col quale non ti devi confrontare. Ti passano in testa un mucchio di idee, confuse e curiose, immagini scene irreali e, soprattutto, esageri col vino. Meno male che in proposito conservo ancora una discreta capacità di smaltimento, perché altrimenti ora sarebbe un problema guidare per tornare in villa sotto questa autentica tempesta che, senza preavviso, si sta scaricando sulle nostre teste… e dire che quando sono andato al cancello della villa perché Sara era arrivata e mi aspettava in macchina, la serata pareva assolutamente normale, afosa e senza minacce di pioggia.

Ha voluto che guidassi io perché diceva di sentirsi stanca e, in effetti, aveva un po’ di occhiaie e l’aria di chi non vede l’ora di andarsene a dormire. Ma neanche a parlarne di lasciar perdere la cena, come avevo provato a proporre; in effetti, una volta entrati nel ristorante, è sparita per una decina di minuti nella toilette per tornare trasformata come solo una donna è capace di fare, almeno in tempi così ridotti. Pareva proprio rinata, praticamente un’altra persona; questo, col resto come ho detto, ha finito per mettermi idee strane in testa con le quali sto lottando almeno quasi quanto lotto per cercare di vedere qualcosa sotto le secchiate d’acqua che la natura pare scaraventare senza tregua sul parabrezza e che il tergicristallo tenta inutilmente di spazzare via agitandosi freneticamente. Cose del genere m’era capitato di vederle solo al cinema, nei film ambientati nei paesi tropicali, con i lampi che illuminano in continuazione la notte ed i tuoni che scoppiano come fosse in corso un autentico attacco aereo. Per non parlare del vento che fa oscillare pericolosamente gli alberi ad ha già riempito la strada di foglie ed intere fronde strappate alle siepi ed ai rami. C’è qualcosa di inquietante, credetemi, quando la natura anche soltanto abbozza di cosa può esser capace se solo le gira…!

In qualche modo riesco a ritrovare la villa e, per aprire il cancello, sono costretto ad uscire fuori dall’auto col bel risultato di bagnarmi peggio che avessi fatto un tuffo in mare. Meno male che c’è un portico e posso parcheggiare in modo che Sara limiti al massimo la sua esposizione agli scrosci. Per tutta la strada non ha fatto altro che sostenere che quella scena apocalittica era semplicemente meravigliosa, che la natura non perde occasione di ricordarci quanto fragili siamo, che quasi quasi aveva voglia di mettersi a camminare in mezzo a quel putiferio come faceva un’attrice di cui non ho capito il nome in un film che non penso di aver visto. È ovvio dedurre che neanche lei ha scherzato col vino; il che, sommato alla stanchezza che aveva momentaneamente archiviato con qualche misteriosa magia, mi mette in una posizione delicata ed imbarazzante. Da una parte sento rimescolarmi il sangue, dall’altra mi pare di essere sul punto di approfittare vigliaccamente di una debolezza momentanea per poi svegliarmi il giorno dopo in una realtà insostenibile. Però, pure il vangelo ammette che la carne è debole… ma forse mi sbaglio e di certo non si alludeva a quello che sta passando per la mia testa ora.

Aggiungiamoci il fatto che, com’è ovvio in questi casi, la villa è tutta al buio. Pare proprio che la corrente elettrica sia saltata ed io non ho la più pallida idea di dove sia la scatola con gli interruttori generali. Non mi resta che far luce con i fari dell’auto a Sara che così apre la porta e, cercando di farsi sentire nel bel mezzo dei tuoni e del vento, mi urla di aspettare che ci pensa lei a vedere di riattaccare la corrente o a trovare qualche lampada tascabile se non fosse possibile. Aggiunge, ridendo come una pazza che dovrebbero esserci, da qualche parte delle candele.

Anche le case vicine sono tutte buie ed è probabile che la luce sia andata a farsi benedire in tutta la zona con questa specie di diluvio universale che sta venendo giù. Sara sparisce ingoiata dal buio della casa, mentre i fulmini illuminano a giorno il patio. Spengo l’auto e scendo per seguire la mia generosa ospite, pensando che questa situazione pare più la scena di un film e, quasi che qualcuno sentisse il bisogno di confermare questa mia idea, m’arriva netto e chiaro un urlo da qualche parte nella casa, un urlo che mi gela il sangue e in un attimo archivia l’eccitazione che aveva caratterizzato tutto il resto della serata. Non so se v’è mai capitato di avere un’esperienza di questo genere. Fossimo davvero in un film, il nostro protagonista partirebbe senza la minima esitazione in direzione dell’urlo; nella vita reale le cose vanno in genere un po’ diversamente ed io sono rimasto letteralmente di sale, tanto è il raccapriccio e la paura che la situazione m’ha instillato dentro. È un attimo, a suo modo eterno, ma pur sempre un attimo, poi riprendo il controllo o, almeno, qualcosa che gli somiglia: in realtà, considerato il casino di rumori che il temporale produce non sarei poi tanto sicuro di aver sentito quell’urlo ma, come a ribadirlo, un altro urlo, ancora più penetrante e disperato m’arriva dal buio della casa. E, giusto per spazzare via ogni possibile dubbio, l’urlo ha la voce di Sara e contiene in modo chiarissimo il mio nome.

Sono dentro la casa e una sequenza rabbiosa di lampi mi permette d’inquadrare Sara in fondo al corridoio, alla mia sinistra; la vedo appena, ma quello che vedo è una donna terrorizzata, bloccata addosso alla parete e che guarda verso il vano della porta che è davanti a lei. Non posso vedere quello che lei vede, dato che nella mia prospettiva le sono di fianco, ma tutta l’immagine mi ricorda un film di Dario Argento, ch’è un regista che apprezzo molto poco ma, una volta tanto, mi pare di comprendere almeno su quali umane debolezze faccia leva per vendere le sue scadenti pellicole. Allora, né più né meno come fossi in un suo film, mi ricordo che io sono un uomo, un maschio e che c’è una donna terrorizzata che mi chiama ed ha bisogno del mio aiuto e, di conseguenza, devo fare qualcosa. In una frazione di secondo (ch’è più o meno il tempo che dura la scena) mi ricordo che c’è un camino nel salone nel quale sono entrato dalla porta principale e che, accanto al camino, ci stanno degli attrezzi per il fuoco. Sempre aiutato dai lampi che continuano a darmi brevissimi scorci sul dove mi trovo e cosa faccio, riesco ad arrivare al camino e ad afferrare un pesante attizzatoio. Nell’attimo stesso che lo sento in mano è come se quell’aggeggio mi trasmettesse il coraggio necessario ad affrontare quell’assurda situazione e mi butto nel corridoio dove Sara continua a fissare la porta davanti lei con gli occhi sbarrati ed il corpo che pare quasi voler sfidare l’impenetrabilità della materia per sparire nel muro cui aderisce.

Mi ci vuole un attimo a raggiungerla e, con un ultimo balzo, mi metto davanti a lei dandole la schiena e facendole eroicamente da scudo col mio corpo, mentre alzo la mia arma improvvisata, pronto ad usarla contro la minaccia che deve essere in quella stanza e che finalmente vedo. In realtà passano almeno un paio di secondi in cui non ci sono lampi e, di conseguenza, non vedo proprio un bel niente e sento alle mie spalle solo il respiro ansante di Sara. Capisco che sta tentando dirmi qualcosa, ma non ci riesce e m’arrivano dei suoni ch’assomigliano più a dei singulti e che distinguo nonostante il rumore degli scrosci di pioggia e del vento che sembra voler strappare la casa dalle fondamenta e portarsela via. L’adrenalina, che circola ormai in quantità preoccupante nel mio sangue, comincia a far sì che quei pochissimi secondi di attesa nel buio mi paiano un’eternità e, mentre mi viene in mente che devo fare qualcosa per scaricarla se non voglio rischiare un colpo apoplettico, arriva un lampo a squarciare il buio. Dura un niente e, in quel niente vedo davanti a me, nella stanza cui dà la porta, la sagoma enorme e scura di un gigante smisurato e minaccioso che sta per piombarci addosso. La luce è troppo breve perché io possa distinguere particolari che mi aiutino a capire che sta succedendo; dietro di me Sara ha cacciato un altro urlo ed io lo sento come se fosse l’incitamento pressante a fare qualcosa.

Non ho tempo per pensare, meno che mai per capire: non posso che affidarmi all’istinto di sopravvivenza che mi viene in aiuto e, col cuore che galoppa come un cavallo impazzito, nel buio completo mi lancio in direzione della sagoma che ho intravisto menando fendenti disperati col mio attizzatoio. Se dobbiamo morire, vittime di chissà quale mostruoso maleficio o dell’attacco d’un extraterrestre, tanto vale lottare fino all’ultimo, penso mentre sento il ferro che colpisce qualcosa di stranamente leggero che oppone poca resistenza e fa un rumore che farebbe pensare a qualcosa di elastico. Continuo a picchiare con tutta forza aspettandomi una qualche reazione dall’essere che sto attaccando; qualcosa in effetti, ogni tanto sembra toccarmi a sua volta, ma non sono colpi, sembrano schiaffetti: penso che forse sono miracolosamente riuscito a ferire il mio avversario in qualche punto vitale. Penso pure che, maledizione, ora che avrei bisogno di lampi per capire cosa sta accadendo, pare proprio che il temporale stia svanendo ed il braccio destro comincia a dolermi per l’acido lattico che quel colpire ripetuto sta accumulando nei miei muscoli.

Assurdamente, mi torna in mente il mio fare lo scemo con la signora Rita riguardo all’essere una cintura nera ed il tono canzonatorio di lei riguardo ai miei muscoli… beh, non saranno quelli dell’illustre armadio che se la fa con sua nipote ma, a quanto pare, la mia parte so recitarla anche io. Sento che davanti a me qualcosa cade. Non è il tonfo di un corpo, piuttosto qualcosa di assai meno pesante e piuttosto elastico e, mentre fermo il mio furore dopo un paio di fendenti ormai a vuoto, un lampo arriva provvidenziale ad illuminare la scena quanto basta per vedere che il mostro che ho attaccato con rabbia ora giace malandato ed ammucchiato per terra ai miei piedi. Probabilmente quella vecchia muta da sub, che la signora Rita ha steso ad asciugare stamani, ormai è proprio inutilizzabile, visti gli ampi squarci che l’attizzatoio ha aperto nella gomma, e decisamente inoffensiva!

 

Durante la cena avevo provato, con Sara, ad affrontare l’argomento relativo a quanto tempo sarei potuto restare nella villa. Avevo trovato il modo di dirlo in un’altra maniera, scherzando sul fatto che non ero proprio in grado di pagare l’affitto. Ma lei aveva tagliato corto ribadendo: «Non stare a preoccuparti di questo». Non so se per lei fosse chiaro, ma la mia domanda mirava a ben altro che a chiarire la questione della mia permanenza in villa. Ed ora continuo a pormi gli stessi interrogativi senza riuscire neanche a formularli.

Dice bene lei, io mi preoccupo e adesso, dopo tutto quello ch’è successo, ancor di più perché non riesco proprio a capirci niente di quello che sta accadendo. Ho le idee confuse e temo che anche Sara navighi piuttosto a vista, pure se, con una donna, una simile affermazione è sempre molto rischiosa. Se qualcuno se lo sta chiedendo, non abbiamo fatto niente; lei, quando s’è resa conto che ce l’eravamo fatta sotto per una tuta subacquea che la signora Rita aveva appeso ad un filo ad asciugare nello stanzino degli interruttori generali, s’è fatta un grande pianto in modo da sfogare tutta la tensione e la paura di quei drammatici momenti. Ma abbiamo anche riso, per la situazione assurda e ridicola, come due ragazzini che, dopo aver tremato insieme scoprono che il grande terrore vissuto è stato niente altro che uno scherzo. Poi lei è crollata tra le mie braccia, quasi di schianto, evidentemente sommersa dalla stanchezza e dalla tensione.

Ora dorme alla grande sul letto che ho usato in questi giorni. Ho rimesso a posto tutto quello che nel trambusto era stato spostato. La tuta da sub – o meglio quel che ne resta – l’ho infilata in un sacco di plastica, mentre l’attizzatoio è tornato al suo posto. Sono esausto per la coraggiosa battaglia con l’alieno venuto a distruggere la terra e mi fa male il braccio per l’eroico sforzo sostenuto; la luce è tornata ed il piccolo tornado è andato a sfogare altrove la sua rabbia. Anche io ho provato ad addormentarmi, sull’enorme e comodo divano che sta nel salone, davanti alla televisione. Ma, come ho già detto, non mi riesce di chiudere occhio, evidentemente perché c’è ancora troppa adrenalina in giro nel mio sangue, ed ora sono qui, fuori nel giardino, sotto un cielo spettacolare che pare mille miglia lontano da quello furibondo di poche ore fa a chiedermi… mah, non so più nemmeno io cosa.