Era la notte dell’aurora boreale.

Il cielo blu scuro, quasi nero sul mare, si stava tingendo di un verde giallastro con sfumature violette, e splendeva come la tavolozza di un pittore.
Karen l’ammirava seduta sul molo, le mani strette intorno alle ginocchia ossute, i lunghi capelli biondi che volavano nel vento. Più avanti, alla fine della diga, dove un largo spiazzo di cemento si proiettava nel mare e nei luminosi giorni d’estate funzionava persino un bar ristorante, una piccola folla di turisti ammirava lo spettacolo estasiata, lanciando esclamazioni di meraviglia che nel silenzio assoluto la raggiungevano come un fragoroso rimbombo.

No, per Karen l’aurora boreale non era un fenomeno inconsueto, lei a Røst c’era nata e se qualcosa doveva stupirla non erano i colori del cielo, ma semmai le sterminate colonie di uccelli marini, le montagne che si gettavano nel mare, il ruggente Maelstrom, terrore dei marinai dei piccoli e grandi velieri. Ma la selvaggia bellezza delle Lofoten, le sue isole, era anche la sua prigione: nata oltre il circolo polare, trasferitasi a studiare nella capitale, non aveva resistito alla nostalgia e aveva abbandonato la facoltà di ingegneria per dedicarsi allo studio della fauna artica e ritornare nel suo nido per restarci per sempre. Sola.

L’esperienza di Oslo non era stata soltanto un periodo di studio, ma l’aveva cambiata profondamente senza che lei se ne rendesse conto, e una volta ritornata a casa aveva scoperto di non avere più niente in comune con I ragazzi rimasti sulle isole, a vivere di pesca e, saltuariamente, di turismo.
Rise tra sè. Qualcosa in comune in effetti l’aveva: l’odore di merluzzo che era onnipresente dovunque andasse, tanto che gli abitanti delle isole c’erano talmente abituati da non farci più caso, ma che qualunque visitatore non sopportava per più di ventiquattr’ore.

«Forse anche io sono un po’ un merluzzo» pensò Karen raccogliendo dalla massicciata un sasso e gettandolo in acqua, per vederlo affondare in mezzo ai cerchi che si allargavano nel mare.

Una larga striscia rossa apparve all’improvviso, suscitando il clamore dei turisti. Karen sollevò le sopracciglia guardando il cielo: una interferenza con le molecole di ossigeno ad alta quota, davvero rara: era capace di essersi verificata a trecento chilometri di altezza!
Distrattamente raccolse un’altra pietra, aspettando di vedere svanire il fenomeno, e la lanciò lontano.
“Plof!” con un suono attutito anche questa sprofondò nell’acqua.
“Plof”.  Un altro sasso era piombato vicino al primo, e adesso i cerchi concentrici si andavano scontrando, creando figure d’interferenza.
Karen si voltò di scatto: vicino a lei c’era un alto ragazzo biondo che le sorrideva. Aveva lunghi capelli e un accenno di barba, e indossava un lungo maglione che gli scendeva fino sui jeans sdruciti.
“Un pescatore” pensò, ma non l’aveva mai visto.
«Scusami se ti ho spaventato» disse lui, imbarazzato.
Lei si alzò in piedi. Karen era alta, più alta della maggior parte dei maschi che conosceva, ma quel ragazzo la superava di tutta la testa.
«Ero soprappensiero» disse «ammiravo l’aurora». Ed indicò le strisce nel cielo.
«I fuochi della volpe».
«Che cosa?».
«Secondo una leggenda lappone, sono gli effetti di luce creati dalla coda di una grande volpe che colpisce la neve» spiegò lui.
«Una volpe davvero grande!».
Il ragazzo rise, scoprendo una fila di denti bianchi, leggermente irregolari.
«Meglio non incontrarla, no?».
Karen si unì alla risata.
«Non sei di qui, vero?»
Lui scosse la testa.
«Giro un po’ dappertutto, ma no, non sono di qui».
«Io mi chiamo Karen» ruppe gli indugi lei.
«Ásbjörn, piacere!» rispose il ragazzo, stringendo la mano che gli veniva offerta.
«Che nome strano!»
«Dalle mie parti è comune».
«E quali sono le tue parti?»
Lui esitò un istante prima di rispondere.
«Vengo da Ásaheimr».
«E dove sarebbe? Non qui sulle isole!».
Ancora quel sorriso!
«No, direi proprio di no!»
«Ma tu chi sei?».
Adesso Karen cominciava a spazientirsi.
«Sono un Æsir» disse il ragazzo.
«Ah, ora ho capito! E io sono una vǫlva!».
Lui la guardò con interesse.
«Davvero?».
Lei gli diede uno schiaffo sul braccio.
«Ma no, scemo! Ti sembro una veggente?»
«Mhm no, in effetti no, sei troppo carina!»

Karen si irrigidì a quel complimento. Squadrò meglio il ragazzo, in cerca di un segno di compiacimento, dell’intenzione di fare una conquista, ma non ne trovò. Sembrava veramente sincero, di una sincerità disarmante, come se fosse venuto davvero da un altro mondo. Decise di lasciar perdere.

«E allora, cosa sei venuto a fare a Røst? Non devi prepararti per il Ragnarǫk?» scherzò.
Il ragazzo divenne improvvisamente serio.
«Non devi prendermi in giro! Il Ragnarǫk è un mito, e come tutti i miti non va inteso in senso letterale. Quando le forze del caos e quelle del cosmos si scontreranno nell’ultima battaglia si distruggeranno a vicenda, e da questo scaturirà la nuova creazione…»
Ora lei lo guardava interdetta, stupita da quella improvvisa veemenza.
«… ma cosa è questo se non il Big Crunch, quando l’Universo collasserà fino ad implodere per dare origine ad un nuovo Big Bang?»
«Ma… tu credi a queste cose? E’ solo una teoria».
Lui alzò le spalle.
«Non lo so, io non c’ero».
«Neanche io!».
«Vedì? Non siamo tanto diversi? Ti va una birra o vuoi restare tutta la notte a gettare pietre nel mare?».
Karen raccolse l’invito.
«Una birra al merluzzo?».
«Se preferisci posso offrirti un aperitivo al merluzzo, o un bicchiere di vino. Ovviamente al sapore di merluzzo».
«Mhm… credo che farò meglio a prendere un merluzzo, allora!».
I due ragazzi si incamminarono verso la cittadina, mentre alle loro spalle l’aurora boreale svaniva nel cielo.

Sopra di loro, sopra alla città, alle isole Lofoten, sopra alla Norvegia e al mondo scandinavo, alcune figure avevano osservato la scena.
«Credi che Ásbjörn abbia trovato la vǫlva che cercava?».
«Difficile dirlo: lei non sa ancora di esserlo. Finché non avrà praticato il primo seiðr non potremo sapere se sarà in grado di assumere il fjölkung, il grande potere».
«Non ci resta che aspettare, allora» disse Freya, rassegnata.
«Certo, non è quello che facciamo dall’eternità?» la consolò Odino. «Facciamoci una birra anche noi!»
«Al merluzzo?»
«Naturalmente!».