Attraversai il ponte sul Neckar che era già sera. Mi ero lasciato alle spalle l’Heidelberger Strasse e il Friedof Böckingen, coi suoi alti alberi cupi. Il motore della Mercedes ronzava alla perfezione, ma non riuscivo a togliermi di dosso una brutta sensazione: era l’unica vettura che l’agenzia di noleggio aveva in garage, quella mattina, e il proprietario mi aveva garantito che a dispetto dell’età era perfettamente funzionante, ed era stato così per tutti i chilometri che mi separavano da Köln, ma l’aria austera della vecchia vettura, il suo grande radiatore cromato, i sedili in pelle, tutto contribuiva a crearmi un senso di disagio, come se quello fosse stato un viaggio di altri tempi.
Certo, a voler essere spiritosi in tutto questo c’era un senso: non ero forse un antiquario famoso? E non ero in viaggio per valutare certi reperti che, a detto di Frau Christine, dovevano avere un notevole valore? Era tutto in sintonia, quindi, anche la mia età, non certo giovane; nella mia vita avevo fatto quei viaggi migliaia di volte, alla ricerca di buoni affari che raramente si concretizzavano, ma quando succedeva oltre al guadagno avevo il premio di una soddisfazione professionale che, per uno nella mia posizione, era un fattore importante.
La E50, prima di farmi uscire sulla Neckartalsstrasse, mi aveva fatto attraversare il cuore verde della Germania, e durante gli oltre trecento chilometri di viaggio mi ero goduto il panorama rilassante ad andatura tranquilla: l’appuntamento infatti era stato fissato per l’indomani mattina presso la galleria di un mercante d’arte e l’unica cosa che dovevo fare in serata era presentarmi in casa della mia informatrice per ringraziarla e stabilire un contatto. Certo, in un’occasione del genere qualche anno prima avrei fatto un pensierino sul proseguio della serata, ma avevo imparato che quando la maturità, dopo aver rilevato la giovinezza, ha lasciato il posto alla vecchiaia, sia pure soltanto l’inizio di essa, la prima cosa a cui bisogna prestare attenzione è non rendersi ridicoli.
Con questi ed altri pensieri e pure, lo confesso, un poco di curiosità, arrivai finalmente davanti alla casa di Frau Christine. Fui tentato di parcheggiare l’auto un paio d’isolati prima, per evitare la classica battuta “Uh, un antiquario perfetto: anche l’auto d’epoca!”, ma mi costrinsi invece a raggiungere la casa e imboccare il viale d’ingresso che portava alla villetta.
Questa era un’abitazione storica, con il caratteristico tetto a forte spiovente, di tegole rosse, punteggiato di abbaini, ma molto ben tenuta. Da essa si irradiava una sensazione di tranquilla solidità, se non di passata ricchezza.
“Una signora che si diverte a fare la collezionista”, pensai, e cominciai a preoccuparmi sull’esito del mio viaggio, perché era difficile che quel genere di persone, piacevolissime da incontrare, avessero altrettanto buon fiuto per gli affari, anzi, a dire il vero, si facevano spesso abbindolare da ogni genere di truffatori.
Spensi il motore, guardai l’ora e aprii lo sportello. Ero in perfetto orario. Feci per avvicinarmi al portoncino in quercia massiccia per suonare il campanello quando questo si spalancò e Frau Christine comparve sulla soglia.
Per un attimo rimasi colpito da quell’improvvisa apparizione. La signora era una donna di bell’aspetto, ancora giovane, ma l’espressione del viso tirato e le spalle cadenti, quasi dovessero sopportare un peso superiore alle sue forze, davano l’impressione di una profonda sofferenza.
Ne rimasi turbato, ma l’esperienza di tanti incontri con persone di tutti i tipi mi consentì di non far trapelare le mie sensazioni.
«Frau Christine…» dissi, con l’intenzione di presentarmi formalmente
«Si, professore», mi precedette lei, «la stavo aspettando. Ma non stia sulla soglia, entri, la prego!»
In questo modo fui quasi trascinato all’interno della casa, e subito avvertii la sensazione di un qualcosa di opprimente, di malato. Mi guardai intorno, studiando i mobili, le tappezzerie, ma non notai nulla di anormale. Sempre più perplesso la seguii fin nel salotto dove evidentemente era solita ricevere gli ospiti: su di un tavolino, infatti erano posati alcuni bicchieri e delle bottiglie di liquore di vario tipo.
Come ci sedemmo una cameriera venne a servire il thè, nonostante l’ora tarda.
«Ne gradisce una tazza?» chiese la signora.
Avevo la gola secca per il lungo viaggio, ed accettai volentieri l’offerta.
Come ebbe versato il the, la cameriera chiese il permesso di andare.
«Certo, Katherine, vai pure», rispose la padrona, al che la ragazza non se lo fece ripetere e si eclissò rapidamente.
«Queste giovani!» rise Frau Christine, «pensano solo a scappare! Magari avrà il fidanzato che l’aspetta!»
Assentii educatamente, anche se pensavo che quell’atteggiamento sembrava indicare ben di più che il desiderio di un incontro galante, a me pareva un vero e proprio senso di sollievo.
Seguii con lo sguardo la figura della cameriera che usciva da una porta laterale e fu allora che la vidi.
Il mio stupore fu tale che mi alzai in piedi e mi portai le mani alla gola, sopraffatto da un senso di soffocamento che mi impediva di proferire anche una sola parola.
La signora, sorpresa dalla mia reazione, si allarmò:
«Cosa succede, professore?»
«Quella… quella maschera!», riuscii infine a dire, «dove se l’è procurata?»
«Quella? Oh, è un regalo da parte dei miei suoceri. Credo che sia artigianato africano. Non l’ho portata alla galleria perché è su legno e non penso abbia grande valore. La conosce?»
«Signora», risposi, quando riuscii a ritrovare un minimo di fiato, «quella che lei ha in casa è una maschera Ashanti, più precisamente la maschera sacra dell’asantehene di Kumasi, Osai Tutu, scolpita dal più importante stregone della regione, Okomfo Anokye: quale “patto” dell’unione fra le tribù akan.»
La signora era impressionata:
«Allora dice che questa maschera ha un valore commerciale?»
«Questa maschera non dovrebbe esistere!» dissi, quasi urlando.
Frau Christine tacque, assorta. Forse voleva darmi il tempo di smaltire l’eccitazione, come si usa tra persone di buone maniere.
«Mi scusi», farfugliai, infatti, poco dopo, «è che la vista di quest’oggetto…»
«Non ha niente di cui scusarsi, professore», replicò lei in tono gentile, «mi racconti la storia, la prego!»
Persi fiato e cominciai:
«La storia degli Ashanti è soprattutto la storia delle loro guerre contro i Denkyira, che furono lunghe e sanguinose, e portarono la tribù sulle soglie dell’estinzione, finché non venne Osei Tutu I, l’ asantehene. Costui era un capo tribale dotato di particolare talento, e seppe unire il potere politico e quello religioso con l’aiuto del sacerdote Okomfo Anokye, che si inventò il mito del sika ‘dwa, il Trono d’ora, un mistico sgabello che sarebbe sceso dal cielo sulle ginocchia del re, a consacrarne il potere.»
«Uno stratagemma ingegnoso!» osservò la signora.
«Si, anche se non particolarmente originale, ma funzionò: sotto la guida di Osei Tutu la neonata federazione Ashanti entrò in guerra contro Denkyira, sconfiggendola nella battaglia di Feyase del 1701. Lo Sgabello d’Oro continua ad essere ritenuto un oggetto sacro fra gli Ashanti, che credono contenga il ‘Sunsum’ (spirito o anima degli Ashanti).»
«Superstizioni. Cosa c’è di strano in tutto questo?»
«Il regno Ashanti crebbe e propsperò sul dolore degli innocenti, facendo la sua fortuna sullo sfruttamento delle miniere e sul commercio degli schiavi con gli occidentali, finché questi, dopo ben quattro guerre e forti delle nuove tecnologie, come le pistole Maxim non lo soffocarono nel suo stesso sangue… E’ una storia di dolore e di morte.»
Frau Christine era affascinata:
«Una storia fantastica, professore! Mi sembra di rivedere quegli antichi guerrieri! Solo non capisco cosa c’entri io con tutto questo.»
Indicai la maschera appesa alla parete:
«Il sunsum, signora, esiste davvero, solo che non era contenuto nel trono d’oro…»
«No? E dove?»
«In quella maschera. Dai suoi occhi intarsiati sgorgono le lacrime di migliaia e migliaia di schiavi imbarcati sulle golette dei negrieri, dalla sua bocca aperta sulle profondità dell’ignoto viene la maledizione che ha colpito questa casa!»
«La maledizione? Ma io non capisco! Non ho fatto niente, la maschera mi è stata regalata da…»
Le ultime parole si persero nella penombra della sala: io ero già uscito.
Barcollando arrivai alla porta, la spalancai e corsi in strada, mentre questa si chiudeva alle mie spalle. Arrivai alla macchina, che avevo lasciato aperta, m’infilai al posto di guida e posai le mani sul volante. Mi aspettavo che la porta si aprisse di nuovo, che la signora mi seguisse fuori, ma non successe niente di tutto questo: la maschera di Anokye ormai aveva fatto il suo effetto e nessuno sarebbe più uscito da quella casa. Mi ero salvato per miracolo e già sentivo che le forze mi stavano ritornando.
Ingranai la retromarcia, feci per uscire dal viale e fuggire, poi il mio senso del dovere ebbe il sopravvento e tornai indietro. Raggiunsi il garage sul lato destro della casa, aprii la saracinesca e cercai finché non trovai una motofalciatrice. Presi un secchio, vi rovesciai dentro il contenuto del serbatoio e feci ritorno verso la casa. Trattenendo il respiro feci scivolare sotto l’uscio parte del liquido e usai il resto sulle pareti in legno, poi accesi un fiammifero.
Dalla mia auto vidi il fuoco salire rapidamente al cielo, in un’unica, grande fiammata.
Quando la casa fu interamente avvolta dalle fiamme e già si sentivano le sirene dei vigili del fuoco, udii un sospiro profondo giungere dal rogo: forse era il rumore dell’aria calda che sfuggiva verso l’alto, forse un cedimento della struttura, ma io pensai e penso ancora che fosse il gemito delle anime finalmente liberate che salivano al cielo.
Rapidamente uscii dal vialetto e abbandonai quella casa e la cittadina di Heilbron, incrociando le luci blu che arrivavano ormai troppo tardi.
Non dimenticai mai quella notte.